Nostalgia della Tunisia, come era e non è
Una psicanalista, una giovane tunisina di
Parigi ritornata a Tunisi, apre un gabinetto di consultazione. Code subito chilometriche
di pazienti, bisognosi tutti di potere infine parlare. Di sé, nella Tunisia
oggi: dopo la “rivoluzione dei gelsomini” tutti sono a disagio, tutti hanno bisogno di parlare. Una
commedia – aperta e chiusa da Mina, che canta “Io sono quello che sono” di Mogol
e Polito in apertura, e “Città vuota” di Shuman e Pomus in chiusura. Ma l’avventurosa
analista non ha la “licenza”. Da qui un ritratto della Tunisia oggi, impoverita,
impaurita (smarrita, confusa), sporca, corrotta – la “Città vuota” che Mina
canta. Niente si fa per niente, e non ci sono diritti, solo sopraffazioni e
corruttela. Si ride, ma amaro.
Una parabola della Tunisia oggi. Mostrata
nel suo lato oscuro, una periferia anonima. In contrasto struggente con la Tunisia
come era e avrebbe potuto essere. Civile, pulita, europea. Lo spettatore non è
tenuto a saperlo, e Labidi non lo dice. Se non in una breve scena, la rapida
visita della psicanalista ai nonni. Gli unici che vivono e parlano civilmente
in tutto il film, col ritratto di Burghiba in anticamera, il “padre della
patria”, artefice dell’indipendenza nel 1956, di un paese che a lungo volle
laico e civile. Poi degenerato nell’arabizzazione confusa, e dopo la “rivoluzione” del 2010-211, la “rivoluzione” dei Fratelli musulmani, in un
islamismo senza fondamento. Questo il film lo fa vedere e
lo dice. In fuga da se stessa, nei barchini, nei cassoni, e nell’obesità.
“La psicanalisi? Non ci serve, noi abbiamo l’islam”, è una battuta per ridere,
ma feroce.
Manele Labidi si è scelta una
protagonista, l’iraniana Golshifteh Farahani, che è la sua gemella.
Una “commedia all’italiana”,
ilare e cattiva. Un film già di culto, che he tenuto le arene in estate, e ora
è alla terza settimana di programmazione, un piccolo record in quest’epoca di
contagi, avara di spettatori avventurosi al cinema.
Manele Labidi, Un divano a Tunisi
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