Sainte-Beuve in Italia, fascino e repulsione
Sainte-Beuve ha esordito da poeta,
venticinquenne subito celebre nel 1829, con “Vita, poesie e pensieri di Joseph
Delorme”, e il suo viaggio in Italia ricorda soprattutto in quattro o cinque
poesie, che Guyaux, che non le apprezza, antologizza nel saggio - con l’eccezione di una “Ecloga napoletana”,
pubblicata inizialmente anonima. La più lunga, “La villa Adriana”, una ode dedicata
a Liszt, che ce lo ha portato in gita insieme con Marie d’Agoult, ha passi sentiti,
poco di maniera. Anche emozionanti alla lettura, come è emozionata la scrittura
– pur nel generale algore del critico in versi.
Emotivo anche uno dei sonetti, “J’ai
vu le Pausillipe et sa pente divine” - Posillipo che pure Sainte-Beuve diceva
niente in confronto al Lemano scrivendone agli amici Olivier che vivevano sul
lago – è impregnato, osservava Gautier, di una “dolcezza fusa e tutta italiana”,
in particolare il secondo verso, su Sorrento dopo Posillipo, “Sorrente m’a rendu mon doux rêve
infini”: “Ogni orecchia sensibile recepisce lo charme di questa liquida
riportata quattro volte e che sembra trascinarvi sul suo flutto nell’infinito
del sogno come una piuma di gabbiano sull’onda blu del mare napoletano” (Proust,
nota Guyaux ironico, “cita con meno entusiasmo questo stesso verso: «Orribile
se lo si rotacizza e ridicolo se si arrotano le ‘r’» - “A proposito dello ‘stile’
di Flaubert”). Ma fu in Italia solo un mese, da metà maggio al 18 giugno 1839, solo
a Napoli e Roma, e non ne riportò impressione felice.
L’Italia è specilmente assente
nella vasta saggistica di Saint-Beuve, spiega Guyaux. Nell’articolo su Stendhal,
“non commenta per niente le ‘Promenades dans Rome’ e resta evasivo sull’italofilia di Henry Beyle”. Quello
in Italia fu però il suo unico viaggio
di piacere, di curiosità intellettuale e estetica. Sainte-Beuve viaggiò
pochissimo: fu in Belgio e in Svizzera per insegnare, e le uniche altre
scappate, anche al ritorno dall’Italia, furono in Svizzera, sul Lemano, dagli amici
calvinisti Caroline e Juste Olivier.
Del viaggio in Italia è stato
pubblicato nel 1922 il taccuino, col titolo “Voyage en Italie”, “appunti inediti
pubblicati con una prefazione e le note di Gabriel Fauré”. Guyaux, il francesista
belga della Sorbona, e un po’ italianista (consigliere dell’“Associazione Sigismondo
Malatesta”, membro permanente del “Seminario di filologia francese”) rilegge
tutti gli accenni di Sainte-Beuve all’Italia, negli appunti, nelle poesie, in
un paio di saggi, e nella corrispondenza.
Una ricostruzione appassionante per un’ambiguità evidente: l’Italia ne
rafforzava e scombussolava il moralismo “port-royalista” o calvinista. Sainte-Beuve
si sdegna per San Gennaro e San Pietro, e si commuove. Specie nel ricordo. Di questo o quel particolare che gli ritorna
negli anni. Senza privarsi del luogo comune, la luce di Napoli (naturalmente
col suo contrario: “Il sole di Napoli è un ideale che scompare da vicino”) e il
vedi Napoli e poi muori – “O vivere là, amarvi qualcuno e poi morire”.
Guyaux è severo con i ricordi di
viaggio. Studioso emerito di Rimbaud e di Baudelaire, nota che Rimbaud, che è
stato a Genova e Milano nella sua fuga, non se ne accorge, mentre Baudelaire,
che viaggiò poco o nula, se si eccettua il Belgio, ha dell’Italia visione più
consona, specie nella lettura di Michelangelo, del barocco. “La più parte degli scrittori francesi in
viaggio in Italia, da Chateaubriand a Taine, e a Zola, hanno viaggiato
conservando i pregiudizi”. Tutti allergici al barocco, “anche Stendhal”, attaccati
a Raffaello, “l’alibi del loro neoclassicismo”. Sainte-Beuve ha, quando accenna
all’Italia, la duplicità del romantico. Che rifiuta le rovine e ne è attratto.
André Guyaux, “Cette rapide ébauche déchirée que j’emporte
de l’Italie”. Sainte-Beuve à Rome et à Naples, free online
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