Vasto tema, e per natura
ecumenico. Che Butler taglia e cuce asintatticamente. Da Gandhi in poi,
compreso Pannella, molti sono i casi di politica di successo con la
nonviolenza. La cui forza, cioè, è non solo evangelica o morale, personale, ma
sociale e politica. Butler ne fa un’arma tagliente, un’ascia, e non si capisce
nemmeno bene bene a quale buon fine? La trattazione, che verte soprattutto
sulla violenza della legge, delle istituzioni, da Hobbes fino a Walter Benjamn
e Foucault, si apre con citazioni di Gandhi, naturalmente, e di Martin Luther
King, gli apostoli della nonviolenza. Ma anche di Angela Davis che tanto
apostolica non vuole essere: buona comunista, ma una che ammassava armi in
gioventù come una trumpiana qualsiasi – armi che poi uccisero.
La violenza è qui della
legge, del potere. Politica e personale. Sulla traccia di Hobbes, del Leviatano
politico, dello Stato. E di Freud, Lacan, Melanie Klein, Memmi, Balibar, con la solita lettura anomala di Frantz Fanon, e in
parallelo di Walter Benjamin, dei sensi di colpa, dell’inoculazione del potere
castrante. La nonviolenza è una difesa obbligata.
Butler marcia col machete, come
al solito. Arando soprattutto il filone di Hobbes, della violenza del potere e
della paura. Che però non discute. Del
tutto assente il dibattito sulla Auctoritas, di Alessandro Passerin d’Entrèves
in ambito anglosassone, di Carl Schmitt in quello continentale. Del tutto
assenti – questione confessionale? Ma in teoria Butler è immune all’ebraismo – anche
i Vangeli. E, curiosamente, Hannah Arendt, che pure ha trattato per esteso gli
stessi temi quando era difficile, a cavaliere del Sessantotto: “Sulla
rivoluzione”, “La disobbedienza civile”, “Sulla violenza” – per lei un solo
riferimento, e derisorio: se avrebbe avuto un risposta, nella violenza del
potere, alla violenza della legge.
Il gioco di Butler è semplice. Si
assume un Grande Nemico, che il mero buonsenso esclude, e ci dà addosso.
Un’arcana biopolitica considera degne “di lutto” (di protezione) certe vite,
non c’è bisogno di dire quali, e altre invece ritiene “dispensabili”
(eliminabili). Indovinare non è difficile: si “dispensano” vite per razza,
identità, e genere (gender). Ma in quale repubblica?
Judith Butler, La forza della nonviolenza, Nottetempo,
pp. 300 € 19
La violenza è qui della legge, del potere. Politica e personale. Sulla traccia di Hobbes, del Leviatano politico, dello Stato. E di Freud, Lacan, Melanie Klein, Memmi, Balibar, con la solita lettura anomala di Frantz Fanon, e in parallelo di Walter Benjamin, dei sensi di colpa, dell’inoculazione del potere castrante. La nonviolenza è una difesa obbligata.
Butler marcia col machete, come al solito. Arando soprattutto il filone di Hobbes, della violenza del potere e della paura. Che però non discute. Del tutto assente il dibattito sulla Auctoritas, di Alessandro Passerin d’Entrèves in ambito anglosassone, di Carl Schmitt in quello continentale. Del tutto assenti – questione confessionale? Ma in teoria Butler è immune all’ebraismo – anche i Vangeli. E, curiosamente, Hannah Arendt, che pure ha trattato per esteso gli stessi temi quando era difficile, a cavaliere del Sessantotto: “Sulla rivoluzione”, “La disobbedienza civile”, “Sulla violenza” – per lei un solo riferimento, e derisorio: se avrebbe avuto un risposta, nella violenza del potere, alla violenza della legge.
Il gioco di Butler è semplice. Si assume un Grande Nemico, che il mero buonsenso esclude, e ci dà addosso. Un’arcana biopolitica considera degne “di lutto” (di protezione) certe vite, non c’è bisogno di dire quali, e altre invece ritiene “dispensabili” (eliminabili). Indovinare non è difficile: si “dispensano” vite per razza, identità, e genere (gender). Ma in quale repubblica?
Judith Butler, La forza della nonviolenza, Nottetempo, pp. 300 € 19
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