Giuseppe Leuzzi
“Non posso stare tranquillo un attimo:
stanno ammazzando lo Stato Sociale, che è il massimo risultato della mia vita
politica”. Walter Pedullà si angoscia, e non può nemmeno tanto, l’ischemia è in
agguato. Ma non smette lo humour che lo ha fatto gigante, di uno e ottantatré,
per settanta di spalle: si proclama vittima, mentre si accinge a raccontarceli,
di “ricordi involontari che pretendono di dire la loro”. Mentre lui ha solo due
certezze: “So solo che sarò sempre interista (lo sono da più di ottant’anni) e
sempre socialista (lo sono da settantacinque)”. Una professione di fede oggi
non comune – non la fede nell’Inter.
A novant’anni, quello che è stato il critico militante e anche il teorico
dell’innovazione letteraria, della ricerca nella scrittura, soprattutto sulla
pagina “Libri” dell’“Avanti!”, e negli studi di Svevo (“socialista e umorista”,
che di meglio?), Palazzeschi, Gadda, Savinio, D’Arrigo, Pizzuto, Bontempelli, nonché a capo
di importanti istituzioni, la Rai, il Teatro di Roma, prova a mettere ordine
nei ricordi. Per un risarcimento personale, e per un bisogno di collocarsi, di
rivedere il mondo com’era – quando “il passato remoto diventa presente
infinito”. Socialista, tiene a dire, controcorrente sui tempi, dal primo
all’ultimo voto – “ sempre a favore delle correnti di sinistra, Foa, Basso,
Giolitti, Mancini, Lombardi” (ma “di fatto appartenevo alla corrente muta
fondata da me stesso”).
La vita rimemora come un romanzo, pieno di sorprese anche negli angoli più
frequentati, nelle pieghe più usate. Un “Buddenbrook” minore, in prima persona
– e senza l’alterigia thomasmanniana, cioè onesto: l’altoborghese, di censo o
cultura, è pur sempre nato piccoloborghese. Ma è storia, per lo più, seppure
recente - una storia recente ma remota, già arcaica, nell’Italia del Millennio:
familiare, locale, dei luoghi di origine, accademica, culturale, politica.
La famiglia a Siderno – “partimmo tutti”
Singolare è il quadro familiare, che viene per primo (in parte anticipato
nella raccolta di scritti d’occasione, “Quadrare il cerchio”, qui
sistematizzato) e del piccolo mondo in cui visse fino ai venticinque anni,
Siderno, in Calabria, sul mare Jonio. Il padre sarto di paese, maestro di
taglio, e quindi “don” Salvatore, uomo saggio e previdente. Il fratello
Gesumino, uomo colto, modesto, ottimo insegnante, secondo padre del molto più
giovane Walter, “che morì a trentadue anni nel viaggio di ritorno dalla lotta
partigiana” - organizzatore del Pci nel frusinate, a lui era intestata la
sezione Pci di Alatri. Il fratello Alfredo, epico non-studente, anche
all’università, alle università, Genova, Napoli, Messina, ma cultore
irrefrenabile d’a zannella, lo scherzo con gli amici in paese, e
comunista invece serioso, che ogni giorno spendeva ore sull’“Unità”, segretario
inappuntabile della Camera del Lavoro – “nessuno senza un lavoro”. Sette figli,
“quattro lauree, nonché tre diplomi con studi universitari interrotti per
urgenze o emergenze”. La memoria è lusinghiera: “Belli anche i corpi. Le figlie
erano bellissime”.
Ma niente di regalato. La memoria è pure un documento storico. La vita a
Siderno negli anni 1930-1950 è solidale ma grama. “Il paese del melodramma”,
Siderno Marina, cresce dal nulla fino a diventare una cittadina – il
borgo originario in collina resterà abbandonato. I sidernesi si disegnano il
marciapiedi, dato che nessuno glielo costruisce. E indorano la giornata con
l’ironia – che probabilmente inerisce al dialetto, è parte della forma
espressiva dialettale - e lo scherzo. Ma l’isolamento è totale – nella Calabria
di quegli anni, pur povera, la parte jonica era reputata un deserto.
Il nostos, il ritorno al paese, che Pedullà ha lasciato nel
1956, è la parte più combattuta dei “ricordi involontari”. “Eravamo tutti
un’unica famiglia. Le case a un solo piano affratellano: sei contemporaneamente
in casa e sulla strada, dove si fa salotto tra vicini” - le case a un solo piano, post-terremoto. Ma “d’inverno lo Jonio
era quasi sempre violento, invadente e travolgente”. Si facevano tre ore di
treno più una e mezza di traghetto per andare all’università, che era solo a
Messina, altrettante per tornare. Walter per anni lavora fino a quattordici ore
al giorno, con le lezioni private, dalle sei di mattina a mezzanotte, e fino a
trenta studenti al giorno (diecimila lire per ventisei ore mensili – ma
“lezioni gratuite ai bisognosi”), dormendo appena cinque ore. Furono anni anche
difficili: “Avevamo tanta fame che avremmo sgranocchiato il legno”. E poi,
morto Gesumino, “eravamo rimasti sei figli, partimmo tutti”. Gesumino era
partito per primo.
Siderno è la parte più raccontata – verrà utile quando quei luoghi avranno
infine una storia. Walter ci tornerà da grande, e la troverà diversa.
“Tranne che in Grecia, oggi ci sono sidernesi in ogni parte del mondo”,
constata. E anche: “Un giorno mi accorsi che i sidernesi non pativano più la fame”.
Quando la ficaia che copre il muro davanti casa appare stracolma di frutti
maturi, di ogni tipo, che nessuno coglie, mentre da ragazzo Walter
personalmente stava in agguato, tastando ogni giorno i fichi nella speranza che
fossero mangiabili.
Per molti anni ci passerà le vacanze. “Abbiamo appreso ad accogliere i
migranti e abbiamo imparato la lezione: il lavoro c’è dovunque”. Combatte, per
ridere, anche lui la battaglia con la vicina, vicinissima, Locri: “Fatta salva
la mitologia, che parteggia per Locri, la storia dice che i sidernesi opposero
irriducibile resistenza prima al fascismo e poi alla Democrazia Cristiana”, che
Locri invece locupletarono di “uffici da riempire con impiegati”, il Tribunale,
l’ospedale, la sotto-prefettura, il liceo. Fino al conglobamento nella
“locride”, neologismo presto famigerato (“ È chiamata Locride solo da quando le
dette tale nome il mio professore liceale di italiano”) per dire riserva di
caccia mafiosa, dai rapimenti di persona allo spaccio. E le vacanze di
Walter tornano a Nord, anche se Siderno è il luogo dove un giorno si vede
riposare. È lo stig ma del calabrese, come probabilmente di ogni altro costretto
all’emigrazione: in sintonia col luogo natio, ma tra suoni
discordanti.
Il maestro, Giacomo Debenedetti
C’è il ricordo del maestro, Giacomo Debenedetti, che ritorna in ogni piega
del ricordo – è il quarto o quinto libro di Walter Pedullà in cui Debenedetti è
parte dominante. Qui assortito con quello di Galvano Della Volpe. “Ogni
quindici giorni andavo a Messina dal giovedì al sabato, che erano giorni buoni
per le lezioni di altri professori, da Mazzarino a Della Volpe” - altri in
aggiunta a Debenedetti (Messina ha, aveva, una singolare abbondanza di teste
pensanti). Che veniva da Roma dal giovedì al sabato a settimane alterne.
Galvano Della Volpe non ha studenti, solo tre: “Era davvero singolare, il
filosofo aspettava me, Filocamo e Strati per fare le proprie ore di lezione, di
almeno doppia durata” – “la lezione poteva durare più di un’ora e mezza, ma
Della Volpe non se n’era accorto”. Erano lezioni-riflessioni per se stesso,
“per lui noi non esistevamo”. Del “filosofo materialista” impegnato a
“dimostrare quanta poesia c’è nella struttura razionale dell’opera”: “Ci pareva
di sentire il ticchettio ossessivo del suo cervello”, impegnato nel parto
concettuale. “Era felice lo sgravio”, Della Volpe sorrideva infine sprezzante:
“Ho assistito così alle lezioni di un professore che insegnava filosofia a se
stesso”.
Debenedetti di allievi ne aveva cento. I più non lo capivano, ma a decine
lo andavano a prendere in albergo e lo accompagnavano a lezione. Che si
concludeva con un applauso. Molto qui Pedullà spiega del modo di analizzare
testi e autori di Debenedetti, la sintesi forse migliore della personalità, gli
interessi e la metodologia del grande saggista. Ma è la sua vicenda personale a
prendere il lettore, fra il semitragico e l’inverosimile. Debenedetti,
incaricato a Lettere, fu licenziato perché comunista – era il tempo della
legge Scelba: niente uffici pubblici per i socialcomunisti. Galvano Della
Volpe, che lo aveva portato a Messina (benché anche lui sospettabile…), fece in
modo che mantenesse un incarico a Magistero, di Francese. Ma fu licenziato
anche a Magistero. Fu chiamato allora a Roma, era il 1958, per succedere a
Ungaretti. A Roma fu bocciato all’ordinariato: la commissione doveva cooptare
un Dc e un Pci. E il Pci gli preferì Salinari. Presidente di commissione il
professor Sapegno, Pci, torinese come Debenedetti, suo amico personale e
estimatore. Che andrà anche in tv a dire: Debenedetti non meritava di vincere.
“Meritavano di vincere invece Salinari (era membro della Direzione nazionale
del Pci in quanto responsabile della Commissione Cultura del partito) e
Petrucciani, che tra i suoi titoli aveva di essere democristiano come due
commissari” della cinquina – Salinari si illustrerà tardi, spiega Pedullà,
rivelando che del compromesso storico di Berlinguer era “precursore nientemeno
che il Manzoni dei Promessi sposi”.
La letteratura
Moltissimi aneddoti o piccoli segreti Pedullà ha da richiamare o svelare,
in una lunga vita per molti aspetti anche pubblica. Consigliere non assente per
quindici anni e poi anche presidente della Rai, presidente del Teatro di Roma,
responsabile dei Libri all’“Avanti!” per trenta e più anni, con collaboratori
di gran nome, poi critico saltuario al “Messaggero”, “Il Mattino, “l’Unità”,
referente di molti premi letterari (“più di me solo Carlo Bo”, che però “non
leggeva i libri, li annusava”), professore alla Sapienza per quarant’anni di
Letteratura Contemporanea, autore di monografie che fanno testo, su
Palazzeschi, Svevo, Gadda, Savinio, D’Arrigo, Pizzuto, Bontempelli, Debenedetti, animatore
di molte iniziative editoriali, la Cooperativa Scrittori con Pagliarani, Eco,
Manganelli, Balestrini, Sanguineti e molti altri, la Lerici per una quindicina
d’anni, le riviste “Il Cavallo di Troia”, “L’Illuminista” e “Il Caffè
Illustrato”.
Pedullà è soprattutto un professore di Letteratura Contemporanea e Moderna
e un critico letterario, e la letteratura ha molto spazio. Il metodo di lavoro
del “critico militante”. Che deve seguire le programmazioni editoriali, con poca libertà di scelta, ma non va a occhio, di fretta, per caso o per un qualche obbligo o servitù. E sempre impegnato per la ricerca letteraria, il nuovo, le avanguardie. A
decifrarle, spiegarle, metterle in valore. Senza mai smettere il sorriso, ma con
impegno. Anche le lezioni conduce con allegria, col metodo socratico –
insegnare, dice, “è il mio vizio preferito”.
Loquace, a lezione e sulla pagina: “Le mie descrizioni mancano di sintesi,
meglio l’analisi”. Ma sempre “col freno a mano tirato”, come riflette una
mattina di sé e della sua scrittura mettendo in moto la Cinquecento. Un critico
la cui maschera diventa personalità. Si direbbe per l’ironia insopprimibile.
Walter dice per il senso del comico. Ma è l’ironia, tutt’altra cosa: un occhio
non comico sul comico. Da maneggiare con attenzione: l’ironia è creativa ma
anche velenosa, dissecca. Un’anatomia, sotto la lama insopprimibile di se
stessi. Un match di scherma, con lama sottile, un fioretto,
che incide senza sopprimere, ma isolante più che protettivo – la critica è una
scherma, con l’opera e con l’autore, una scherma protetta, con maschera e
visiera.
Questo è comunque Pedullà, un duellante. L’ultimo lettore probabilmente –
tra i recensori specie rara: il recensore sembra anzi che odii i libri, Walter
li legge. Che all’incontro con l’autore ne studia, carpisce, somatizza ogni
tecnica e ogni abilità, più spesso mimandolo. In un corpo a corpo da scrittore
a scrittore, più che da sarto a cliente, da professore a materiale, da
presentatore a gentile pubblico. Sia da professore, è da credere dalle
monografie, che da critico militante. Con un distinto penchant per
la scrittura. Il progetto e l’innovazione, o la scrittura che pensa alla
scrittura – si polemizza spesso contro la “scrittura”, ma da parte di “scrittori
della non-scrittura” (Montale, Pasolini), altrimenti è sciatteria.
Le pagine settimanali sull’“Avanti!”, e poi, diradate, sugli altri giornali,
sono ri-creazioni. Dissimulate ma immedesimate. Anche se, nelle amate
avanguardie, il progetto tende a prevalere - anche nel caso di
Umberto Eco romanziere, per esempio, che la letteratura vuole e fa di massa,
d’appendice, maestro Dumas. Lettore unico specialmente della vena comica e
surreale, che è tanta parte della poesia e prosa italiane ma orfana di critica.
Non piace al critico essere sfidato con le proprie armi: se la letteratura è
faceta, tanto più la critica si vuole arcigna. Magistrale e quindi arcigna,
severa.
E questo forse – è una vena che Pedullà
intuisce ma non elabora - per quel tanto di calabrese (bizantino, sarmatico,
sardonico) che è la cifra del calabrese integrale, lo stigma del dialetto, il
“linguaggio naturale”. Fisico e spirituale, dialettico – dialettale dialettico?
la commistione gli piacerebbe. Paziente e irritato. Vicino e lontano. Col tarlo
del Witz, che è sempre aggressivo. Ma Pedullà addolcisce, generoso,
altra virtù terranea. Gran signore. Prodigale perfino: i giudizi che qui ripete
(un primo consuntivo aveva abbozzato dieci anni fa, sotto il titolo
sartoriale “Il giro di vita”) sono sempre da pescatore di perle.
Diversamente da Debenedetti, maestro e insieme apostolo, dalla sua
“irrimediabile estraneità al comico”, Walter lo privilegia - come Debenedetti
suo malgrado, anche “il saggista deve fare i conti con l’invisibile, trovandogli
le figure che suggeriscono verità collettiva”, dice in altra occasione
(“Debenedetti e Savinio”, in “Alberto Savinio. Scrittore ipocrita e privo di
scopo”).
L’ultimo dei saggisti-moralisti, ricchi di letture, di curiosità umana e
estetica, di lingua e di umori che hanno infiorettato le lettere italiane del
secondo Novecento, nella tradizione di Croce e De Sanctis: Praz, Macchia,
Ripellino, lo stesso Debenedetti - ma senza le sue idiosincrasie (Svevo su
tutti), o le sue fisse (Tozzi). Aperto, curioso, lettore di servizio più che
professore e giudice. Comparatista, un poco. Interdisciplinare. Critico
militante più che accademico, ma di letture approfondite, che lasciano il
segno.
Nell’insieme, i “ricordi involontari” si
conformano in una sorta di vindicatio. Di un “destino” costruito
con costanza e grande profusione di energia - “Impiegavo trenta ore a scrivere
un articolo”, per la sua pagina sull’“Avanti!”. Con qualche regolamento di
conti, con parsimonia. Con Angelo Guglielmi alla Rai. Con “Cesarino”, Cesare
Garboli, “il facoltoso figlio di un grande costruttore” fascista, per questo
animoso antisocialista, recensore “di scrittori spesso scelti tra i minimi
affinché risultasse meglio la statura del critico”. Ma la letteratura è
soprattutto il campo privilegiato, e quasi della felicità. Anche l’aneddotica,
per quanto curiosa, è gentile. Fenoglio all’indice per molto tempo perché aveva
fatto la Resistenza nelle “brigate partigiane monarchiche”. Stefano D’Arrigo,
l’autore di “Horcynus Orca” - che Pedullà racconta in varie circostanze di
avere praticamente tenuto a battesimo, dal primo vagito e poi per una
quindicina d’anni (ma era stato Debenedetti, spiega, a “scoprire” D’Arrigo, “un
critico d’arte siciliano”), la saga linguistica e mitica marina di cui diverrà
il paladino critico - i miti se li creava dapprima per se stesso, discendenze
illustri, gesta grandiose, essendo figlio di una prostituta (1). La stagione aurea
da “Cesaretto” in via della Croce, già allora gestito da Crocetta col provvido
Luciano, a tavola indifferentemente con Pagliarani, Arbasino, Maccari, Flaiano,
Frassineti, Manganelli, i “milanesi” Eco, Balestrini, Porta. La pensione a via
Castelfidardo, da giovane assistente straordinario di Debenedetti a Roma, in
compagnia di Sciascia, Strati, Bonaviri e La Cava, due mutangoli e due
chiacchieroni. O il ri-racconto, sfidato da uno studente all’esame, della mezza
pagina di Pizzuto intitolata “Canadese”, che prende due pagine. Gli amici
stimati Volponi, Pagliarani, Malerba, Zavattini. E istantanee numerose , di
Ungaretti, Sibilla Aleramo, Tobino, Albino Pierri, Silone, Manganelli, Massimo
Ferretti, l’inventore degli “indiani metropolitani”, il conversatore Arbasino,
“il grande prosatore che avrebbe voluto essere narratore”, Bonaviri, i
dimenticati Burdin, Renzo Rosso, Di Ruscio, la rivalutazione di Piero Jahier.
Curiosamente assente dalla pur dettagliata memoria il Millennio, compresa
la coda del Novecento. Curiosamente per un contemporaneista, l’assenza dei
contemporanei. Da ultimo, per dire, di Baricco, De Luca, o chi sono gli
scrittori che il Millennio privilegia. In precedenza di Tabucchi, Magris,
Calasso, e perché no di Umberto Eco, con cui pure Pedullà ha condiviso
esperienze importanti. Insofferenza comune a molti contemporaneisti, Citati, lo
stesso Magris, ma che in Pedullà cozza con l’attenzione, che è la sua cifra,
con la curiosità inesausta. Un ricasco probabilmente del senso della vita che
questo “Pallone di stoffa” agita in continuo con forza - l’approccio che
s’indovina più prepotente, il motore sincrono della ricerca applicata alla
parola e del cachinno - e non trova nel prodotto editoriale.
La fede nel futuro
Molte, qua e là, le tracce aperte alla storia recente del partito
Socialista – la storia che non si fa. Un partito che ha sempre governato
come ruota di scorta, eppure è riuscito a fare cose grandiose, col metro di
oggi - una rivendicazione di appartenenza coraggiosa nel 2020, quasi solitaria. Con
la riesumazione del primo centro-sinistra, la sola stagione delle riforme in
Italia: i parchi protetti, archeologici e naturali, lo statuto dei lavoratori,
il sistema sanitario nazionale, il nuovo diritto di famiglia (il divorzio,
l’aborto, la parità dei coniugi - c’era il “delitto d’onore” fino a tutti gli
anni 1970, la non punibilità del femminicidio…), la riforma della Rai, etc., il
catalogo è lungo.
Con qualche singolare risvolto politico, sempre sul filo della memoria. Il
quadro del partito Socialista che costrinse De Martino alle dimissioni “quando
annunciò che il Psi non sarebbe mai più andato al governo senza i comunisti”:
“Fu costretto a dimettersi da un’alleanza fra gli ex demartiniani passati con
Enrico Manca, la sinistra di Riccardo Lombardi e Claudio Signorile, il forte
gruppo degli «autonomisti unitari» guidato da Giacomo Mancini, e gli
autonomisti «integralisti» di Bettino Craxi”. Craxi, “già manciniano”, emerge
su Manca e Signorile perché è il giovane più debole, quindi non avrebbe
impensierito il Pci: “Aveva un punto di forza che era la sua debolezza nel
partito: la sua posizione nettamente minoritaria nel Psi non avrebbe impaurito
il Pci”. E anche perché “l’anticomunismo, che in Craxi non era meno forte
dell’antisocialismo di Berlinguer, sarebbe parso paradossale in un partito che
proponeva l’alternativa socialista in funzione antidemocristiana”. L’analisi
storica sarà più sfumata, ma è su questa antitesi, caratteriale, che s’innesta
il tramonto della sinistra in Italia, caso unico in Europa.
Il Pedullà politico è poco afflitto dalla realtà presente. Troppo “comica”
forse per essere combattuta. Ma ben conscio dei limiti del paese, del sistema
istituzionale che a questo punto è sociale e nazionale: “Dalla Rai”, di cui è
stato a lungo consigliere d’amministrazione e poi presidente, “si vedeva un
Paese dove il reato non è punibile, mentre lo è non averlo denunciato”. La Rai
non poteva licenziare “nemmeno coloro che erano stati colti in flagrante mentre
rubavano televisori, videoregistratori, e attrezzature tecniche di alto valore
che rivendevano alle tv private”. Doveva fare causa, e inevitabilmente
perderla. Contro tutti gli handicap, il Psi riuscì a portare in
porto anche la riforma della Rai, almeno nella programmazione aperta, plurale,
se non nella “linea” – che resta quella del vincitore. Col paradosso di Angelo
Guglielmi, “il dirigente comunista più antisocialista della Rai”, promosso e
difeso contro il suo partito dai socialisti Paolicchi e Pedullà, in omaggio al
pluralismo….
L’orgoglio socialista è pervicace. L’elenco può essere lungo, all’“Avanti!”
e poi alla Rai, di intellettuali socialisti, per le idee e non per il posto:
“C’è stata una grande cultura socialista. Io l’ho vista, è stata
quotidianamente in azione dagli anni Quaranta alla fine del Novecento”. Oggi
sembra strano, ma “c’era un fitto dialogo fra cultura della politica e politica
della cultura” – e politica. Malinconico naturalmente, ma convinto: “Era
impagabile la fede nel futuro che il socialismo mi ispirava: ne avanzava tanta
che la usavo per vivere, leggere e scrivere. Se ci credo, mi viene bene tutto”.
Una professione politica semplice, ed esemplare. Onesta, produttiva. La
storia come avrebbe potuto essere e non è stata, in questa prolungata apnea di
Repubbliche che si succedono a nessun fine, alla deriva.
Aristotelico un po’ platonico
Un memoriale con lo spessore di un documento, di un monumento – un po’ di
cura editoriale ne avrebbe ricavato tre-quattro memoir di
successo come ora usa, del filone zavattiniano “parliamo tanto di me”,
denudandosi per farsi leggere: il com’eravamo, la navigazione critica,
l’università, la piccola-grande politica (soprattutto avrebbe evitato i
fastidiosi svarioni, un “istriano” per friulano nel caso di Pasolini, p.204, il
mare a “ovest” di Siderno, 152, allievo di Debenedetti per “sette” anni, 148,
D’Arrigo in due pagine successive, 183-184, figlio secondogenito e
primogenito). E avrebbe incluso il necessario indice dei nomi. Ma anche così
“di fretta” il racconto è stringato, se ne sarebbe voluto sapere di più.
Pedullà di suo non è un narratore. Non racconta, rimemora. Come viene, non
organizza, probabilmente non riscrive, anche se ha la scrittura lenta,
sofferta. Perché non può? Perché non vuole, se ne vergogna, è un critico. E in
un senso ha ragione: non convincono, danno fastidio, i tanti giornalisti
autori, manager autori, funzionari editoriali romanzieri, filosofi romanzieri,
e a volte poeti. Ma i brani narrativi sono la cosa migliore. Insieme col piglio
politico – socialista, lombardiano: sa di antan ma è
fresco, è vivo, “dice”.
Parlando della sua attività di “critico militante”, punto a lungo di
riferimento della scena letteraria, nella profusione di elogi della sapienza di
lettura di Giacomo Debenedetti, trova a un certo punto l’occasione di situare
se stesso. Nella formazione, a Messina, tra Galvano Della Volpe e Giacomo
Debenedetti, “un aristotelico e un platonico”, con “tre quarti di
debenedettismo e un quarto di neoaristotelismo dellavolpiano”. Il suo “metodo”
sintetizza così all’ombra dei due Dioscuri: “Metto così parecchia storia nella
psicanalisi e nello strutturalismo, miscelo marxismo e formalismo, cerco
significati nell’astrattismo, trovo la figura umana nell’informale, inseguo la
vita nella retorica più sofisticata, trattengo per la coda chi spinge lo
sperimentalismo verso l’autoreferenzialità, riconduco all’espressione la
comunicazione cui ho dato briglia sciolta illimitata, acchiappo sempre il
soggetto che si è immerso nella realtà oggettiva che lo renderà diverso”. Sotto
la pervasiva curiosità, è da aggiungere, e il filo insopprimibile dell’ironia.
Da lettore coscienzioso, va ripetuto. Forte anche di una memoria fotografica,
come ricorda già da bambino (al fratello-padre Gesumino che gli fa leggere una
pagina per poi riassumerla, risponde ripetendola parola per parola). Non amando
la stroncatura, rispettoso sempre del lavoro altrui – “Walter è un nome che si
rovescia da viva in abbasso”, nota, ma lui usa frequentare “la W normale”.
La
critica “militante” non è – non era - mestiere da poco. Vuole fondamentali
solidi del giudizio critico, e antenne sensibili: vigili ma anche intuitive,
esercitate e coraggiose (libere).
Sainte-Beuve, il Critico Militante per eccellenza, prima di Debenedetti, con i
suoi implacabili “Lunedì”, e uno che si pretendeva chiaroveggente, più di ogni
altro, non salva – non ha saputo leggere – nessuno dei contemporanei, a partire
da Stendhal. Il mestiere a Sainte-Beuve era chiaro – “Chateaubriand e il suo
gruppo letterario”: “Tutti sono buon a discettare su Racine e Bossuet… La
sagacia del giudice, la perspicacia del critico, si trova soprattutto sugli
scritti nuovi, non ancora provati dal pubblico. Giudicare a prima vista,
indovinare, anticipare, ecco il fondo critico. Quanto pochi lo posseggono”. Il
fiuto gli mancava – ma è gusto, esercitazione al piacere della lettura. Pedullà
mostra anche qui di averlo avuto, a beneficio degli autori che ha censito – la
critica militante è uno dei pochi benefici dell’autore, che niente altro
compensa dell’applicazione, e della fatica, scrivere può essere un esercizio di
masochismo.
Walter si direbbe fisicamente platonico. In tutt’e due le accezioni, la
larghezza delle spalle o la larghezza della fronte, che si riconoscono al
soprannome del grande filosofo greco – che di suo si chiamava Aristocle, com’è
noto, come il nonno. Ma solo fisicamente, il cervello implacabile muove
aristotelico. Se c’è un effetto c’è una causa. Se uno è o dice una cosa, non
può essere o dire il contrario. Se vogliamo il progresso non possiamo stare fermi.
Eccetera: la mannaia del riformista. Anche nel senso dialettale calabrese, la
radice che in età scopre incancellabile, dove per “mannaia” s’intende
mannaggia – uno a volte vorrebbe accontentarsi, non stare sempre lì a
indirizzare il mondo. È una fatica, insomma, ma ai novant’anni è probabilmente
una benedizione: essere svegli, avere voglia. Un racconto, anche, di
consolazione. Se ne dilettava Cassiodoro, pure lui novantenne, nel buen
retiro calabrese, poco sopra Siderno.
A novant’anni, sopravvissuto da dieci a una crisi quasi fatale, il critico
decide infine di lasciarsi andare, di parlare di sé. Il “pallone di stoffa” è
quello della rivalsa dei ragazzi poveri contro il compagno ricco che,
insuperbito, s’è preso e portato via il “suo” pallone di cuoio: non rimbalza,
ma serve ugualmente a fare gol (non male: Maradona, dice Maradona, cominciò con una palla di stracci). È il primo socialismo: le differenze sociali si
superano. Il memoir di Walter non è rancoroso, al
contrario, è tutto andante con brio, nemici o antipatici inclusi, singolarmente
corroborante in questa età di mestizie, di crisi a ripetizione. Con la
soddisfazione del lavoro ben fatto, anche se spesso improbo, e almeno una
certezza, di non avere sbagliato politica, schieramento, partito – una
trasgressione a novant’anni, e quasi una sfida, il partito essendo il
Psi.
Walter Pedullà, Il pallone di stoffa, Rizzoli, pp.543 € 22
(1) A questo proposito Andrea Camilleri (“I detti di
Nené”) ha un ricordo di D’Arrigo che “si appropria” di sua madre, della madre
di Camilleri, in una cerimonia a Messina.
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