giovedì 26 novembre 2020

Calvino pop

Una compilation, di frammenti per lo più, messi insieme per i membri della setta. Ma buoni a chiedersi: quando è che la scrittura è significante. Non quella ordinaria, o burocratica, o giornalistica, ma d’invenzione. E quanto è libera l’invenzione, illimitata? A giudicare da molti frammenti, no.
Subito l’assurdo, il comico dell’assurdo, che farà testo a Parigi negli anni 1950, Vian, Ionesco, Adamov e, a quota intellettuale, Queneau, che Calvino sentirà di adorare. Il rifiuto della politica, da ritroso, o “spostato”, misfit. La guerra pure è già perfetta - la guerra come la vede Calvino, che è come la vede in contemporanea, all’insaputa di Calvino, Fenoglio – nell’apologo del 1946 o 1947, “Come un volo d’anatre”: insensata. L’ultimo e più famoso apologo, “La gran bonaccia delle Antille”, 1957, mette in scena la politica come la vedeva il Pci, anche se Calvino ne era uscito: la Dc e il Pci si fronteggiano come nel Cinquecento l’Invincibile Armada e la flottiglia dell’“ammiraglio Drake”, senza però un gesto ostile, in assenza di vento. L’unico testo che Calvino stesso riprenderà, nel 1979, riproponendolo come il racconto dell’“immobilismo”.
C’è molto e c’è poco in questa raccolta di testi sparsi. Minori, se Calvino stesso non li ha ripresi. Ma del tempo in cui era felice di raccontare, non  se ne vergognava, e la lettura ne beneficia. Collazionati da Esther Calvino, la vedova, rintracciati tra le carte sparse, alcuni non pubblicati, altri pubblicati su riviste non accessibili e non ripresi da Calvino successivamente, una trentina abbondante di testi.
 “Si scrivono apologhi “in tempo d’oppressione” è la “presentazione” del 1944 – un breve scritto  “presumibilmente all’inizio del 1944”. Ma gli apologhi sono due o tre, sugli undici “pezzi” datati tra il 1947 e il 1958. Aprono la raccolta otto “raccontini giovanili”, degli anni di fine guera, 1943-1945.  La completano quattordici racconti e dialoghi.
Citati, di cui si riporta la recensione, è entusiasta soprattutto di quest’ultima sezione, testi scritti e pubblicati tra il 1968 e il 1984. Che trova di “una fantasia lussureggiante che non ha nulla dell’ars combinatoria”, il tasto su cui più pigiava Calvino in quegli anni, “ma è sempre quella generosa immaginazione naturale, quella fecondità polimorfa e quasi vegetale, che egli ha avuto in dono nascendo”.
Alla rilettura non si direbbe. Ma forse c’è di più. Una inventiva e una verbalità straordinarie nei primissimi racconti. E un ritratto dello scrittore da picolo che forse fa testo, alle pp-46-7: “Da bambino vivevo in una grande villa….” - un bambino “solitario”, per il quale “ogni cosa era uno strano simbolo”, le cose essendo esclusiva dei grandi, “le vere cose” (“Io no dovevo fare altro che scoprire nuovi simboli, nuovi significati. Così sono rimasto tutta la vita, mi muovo ancora in un castello di significati, non di cose”). Con una fase pop, prima di passare alla non-narrazione: “L’incendio della casa , “La decapitazione dei capi” – alla Baricco, come sarà poi.
C’è di tutto. Anche un Casanova noioso. E una  celebrazione a sorpresa del fordismo: lavoro per tutti e salari più alti  (questa scoperta aveva esilarato Céline già nei tardi anni 1920, da sinistra, da funzionario di quella che sarà l’Organizzazione mondiale della sanità) – compreso l’antisemitismo, la polemica contro i signori del denaro. Formidabile addetto stampa, sia detto en passant, Calvino sarebbe stato, sempre persuasivo: l’America emerge come un’utopia, un’avventura intellettuale, da mondo pregiudizialmente nemico ma forse sono ignoto-ignorato – la “scoperta dell’America” è stata la “caduta da cavallo” per molti trinariciuti. Nelle “interviste impossibili”, “L’uomo di Neanderthal” sceneggia Darwin, “Montezuma” la casualità della storia.
Il racconto del titolo, sull’avvio della comunicazione interurbana automatica, si adatta a oggi, alla popolazione attaccata al cellulare, “tanto più quanto meno ha da dire”.
Italo Calvino, Prima che tu dica «Pronto», la Repubblica, pp. 270 € 8,90



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