Cronache dell’altro mondo – Trump aveva ragione (78)
Non molti anni fa l’Oriente si
vedeva nel coolie, che trasportava merci
in spalla, e nel risciò, il biciclo con
cui un uomo alla stanga trasportava merci e persone. Ora niente di questo è
visibile e nemmeno immaginabile a Singapore o a Taiwan – nonché ad Hanoi - e non perché l’ordine sociale lo impedisce,
come nella madrepatria continentale dopo Mao, ma perché le tre Cine sono i
ricchi del pianeta. Si sorpassano invece a Roma – o si viene sorpassatati da –
giovani che portano pizze e altri pesi su biciclette traballanti, per mezzo
euro, un euro, a consegna, e per la vergogna si chiamano rider, all’inglese, cavalieri.
Ci sono effetti deleteri della
globalizzazione. Che ha prodotto più ricchezza. Ma l’ha spostata, verso l’Asia governata
con lo scudiscio, e verso i ceti parassitari in Europa e in America, di
importatori e delocalizzatori. Che sono venditori in patria, grazie alla posizioni
di rendita che hanno maturato, di beni di consumo a caro prezzo, per produrre i
quali niente corrispondono ai consumatori\utenti, in retribuzioni e commesse.
La globalizzazione è
imbattibile, senza sindacati e senza leggi, orari di lavoro estensibili, paghe
ridotte. Ma nell’interesse, in Europa e Stati Uniti, di pochi mercanti – la borghesia
compradora che fino a ieri si disprezzava.
Fa pena Trump, che esce a ritroso
dalla Casa Bianca, recalcitrante. Come un tennista sconfitto al tie-break che non si dà pace e fa notte
alla rete – se non è un furbastro, che vuole negoziare l’uscita. Ma Trump è soprattutto
una spia, quello che il re nudo l’ha detto nudo, e un reagente. Delle due cose
che ha eretto a muro. La globalizzazione produce povertà nei paesi ricchi, molta,
e moltissime incertezze e paure. L’America
è classista, come nessun altro paese – non più – in Europa, e quindi nell’Occidente.
Questo è ridicolo detto da un affarista, ma è un fatto. Che non lo dica chi
dovrebbe, la stampa liberal, è una
conferma, di un classismo talmente radicato da essere pieno di sé.
La lettura quotidiana dei giornali
e periodici di New York, la stampa liberal,
e compresa la “Washington Post”, non registra un solo articolo, uno solo, sulle
donne e sui giovani che fanno due e tre mestieri - anche a New York, tutti lo
vedono - per qualcosa che si possa dire una paga giornaliera. O sulle campagne
e sulle aree industriali, che occupano i quattro quinti dell’America, che stanno
tornando all’età della pietra. Sulle vittime, pure tanto visibili, della
globalizzazione. Dei ricchi importatori di città, con le loro coorti mediatiche.
Dei ceti urbani professionali. Specie di
quelli che possano vantare un quarto razziale, ex africani, ex indiani, ex
cinesi, ex latinos, quelli dei diritti, così pieni di sé, con carnet di rivendicazioni alti come grattacieli.
Non si vede perché i giovani in
Europa debbano portare pesi, solo perché il mondo – il “mercato” – lo fa la
borghesia parassitaria. I ricchissimi, influentissimi, anzi dominanti,
riccastri delle mediazioni e le importazioni delle “scarpe schifose” della
Lidl, che una stampa compiacente – si spera prezzolata - fa oggetto di culto. A
fronte dei guasti la reazione è semmai blanda. Lo chiamano populismo ma è
classismo, semplice, netto - e liberal,
progressista.
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