sabato 21 novembre 2020

Cronache dell’altro mondo – Trump aveva ragione (78)

Non molti anni fa l’Oriente si vedeva nel coolie, che trasportava merci in spalla, e nel risciò, il biciclo con cui un uomo alla stanga trasportava merci e persone. Ora niente di questo è visibile e nemmeno immaginabile a Singapore o a Taiwan – nonché ad Hanoi -  e non perché l’ordine sociale lo impedisce, come nella madrepatria continentale dopo Mao, ma perché le tre Cine sono i ricchi del pianeta. Si sorpassano invece a Roma – o si viene sorpassatati da – giovani che portano pizze e altri pesi su biciclette traballanti, per mezzo euro, un euro, a consegna, e per la vergogna si chiamano rider, all’inglese, cavalieri.
Ci sono effetti deleteri della globalizzazione. Che ha prodotto più ricchezza. Ma l’ha spostata, verso l’Asia governata con lo scudiscio, e verso i ceti parassitari in Europa e in America, di importatori e delocalizzatori. Che sono venditori in patria, grazie alla posizioni di rendita che hanno maturato, di beni di consumo a caro prezzo, per produrre i quali niente corrispondono ai consumatori\utenti, in retribuzioni e commesse.
La globalizzazione è imbattibile, senza sindacati e senza leggi, orari di lavoro estensibili, paghe ridotte. Ma nell’interesse, in Europa e Stati Uniti, di pochi mercanti – la borghesia compradora che fino a ieri si disprezzava.
Fa pena Trump, che esce a ritroso dalla Casa Bianca, recalcitrante. Come un tennista sconfitto al tie-break che non si dà pace e fa notte alla rete – se non è un furbastro, che vuole negoziare l’uscita. Ma Trump è soprattutto una spia, quello che il re nudo l’ha detto nudo, e un reagente. Delle due cose che ha eretto a muro. La globalizzazione produce povertà nei paesi ricchi, molta, e moltissime incertezze e paure.  L’America è classista, come nessun altro paese – non più – in Europa, e quindi nell’Occidente.
Questo è ridicolo detto da un affarista, ma è un fatto. Che non lo dica chi dovrebbe, la stampa liberal, è una conferma, di un classismo talmente radicato da essere pieno di sé.
La lettura quotidiana dei giornali e periodici di New York, la stampa liberal, e compresa la “Washington Post”, non registra un solo articolo, uno solo, sulle donne e sui giovani che fanno due e tre mestieri - anche a New York, tutti lo vedono - per qualcosa che si possa dire una paga giornaliera. O sulle campagne e sulle aree industriali, che occupano i quattro quinti dell’America, che stanno tornando all’età della pietra. Sulle vittime, pure tanto visibili, della globalizzazione. Dei ricchi importatori di città, con le loro coorti mediatiche.  Dei ceti urbani professionali. Specie di quelli che possano vantare un quarto razziale, ex africani, ex indiani, ex cinesi, ex latinos, quelli dei diritti, così pieni di sé, con carnet  di rivendicazioni alti come grattacieli.
Non si vede perché i giovani in Europa debbano portare pesi, solo perché il mondo – il “mercato” – lo fa la borghesia parassitaria. I ricchissimi, influentissimi, anzi dominanti, riccastri delle mediazioni e le importazioni delle “scarpe schifose” della Lidl, che una stampa compiacente – si spera prezzolata - fa oggetto di culto. A fronte dei guasti la reazione è semmai blanda. Lo chiamano populismo ma è classismo, semplice, netto - e liberal, progressista.

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