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Fu epurato solo Bontempelli
Il 2 febbraio 1950 il Senato votò
a maggioranza l’espulsione di Massimo Bontempelli, per il reato di propaganda fascista. Lo scrittore,
eletto nelle liste del Fonte Popolare, socialcomuniste, rappresentava il Pci,
che lo aveva candidato nel collegio blindato di Siena. E lo aveva difeso in Senato al massimo livello dall’accusa di propaganda fascista, con una complessa
arringa di Umberto Terracini. Dopo il voto contrario dell’assemblea, per l’espulsione,
fece un lungo discorso reprobatorio per il Pci il senatore Emilio Sereni.
Bontempelli non si era illustrato
in Senato. Aquilanti ricorda e riproduce un suo unico intervento, ottobre 1949,
sulla legge di bilancio. Ed era stato fascista “appassionato”, scriveva di lui
il “Popolo d’Italia”, il giornale di Mussolini, nel 1926. Nello stesso anno si
era sfidato a duello con Ungaretti, altro marciante della prima ora, nella
villa di Pirandello, a Ferragosto, per una diatriba letteraria tra collaboratori
del “Tevere”, il quotidiano filoregime di Telesio Interlandi. Segretario del
sindacato fascista degli scrittori, accademico d’Italia, autore di più prose di
sincera adesione. E dell’antologia per le scuole, nel 1935, che gli costerà il
seggio - per “farvi sentire”, far sentire ai ragazzi, “quanto è bella la vita
dell’Italia nostra che Mussolini e la sua generazione consegneranno a voi
ragazzi”. Ma era scrittore riconosciuto fra i maggiori del primo Novecento, e
il Pci lo cooptò a guerra finita. Come scrittore frondista - lo stesso percorso
di Malaparte. Nel 1938 aveva rifiutato la cattedra Italianistica a Firenze sottratta
dal regime a Attilio Momigliano con le leggi razziali, e Starace, il gerarca del
Pnf, il partito nazionale fascista, con cui non era in buoni rapporti, lo fece sospendere
dal partito (non dall’Accademia, con relativo stipendio) e mandare al confino
con divieto di pubblicazione, per un
anno – al confino con Paola Masino, la compagna giovanissima, trent’anni
la differenza di età, nella villa del barone Franchini.
Ma il libriccino – è un volumetto
della collana verde – non divaga. “Una storia italiana” la dice Aquilanti,
consigliere di Stato, già grand commis
in varie istituzioni pubbliche, Senato, commissioni parlamentari, palazzo Chigi
(segretario generale con Renzi e Gentiloni). Di una fine regime che invece ebbe
molte reviviscenze. Avendo voluto la Repubblica “nata dalla Resistenza” escludere
l’epurazione – a meno di delitti da codice penale. Questa generosità, se non
fu quietismo, Aquilanti sembra disapprovare. Ma, da questo punto di vista, italiana
la storia si direbbe nel senso più ampio. Da un lato la politica togliattiana della
cooptazione, generosa e cinica – dei “compagni di strada”, o “utili idioti”. Dall’altro
l’opportunismo della Democrazia Cristiana, che volle la decadenza di
Bontempelli dal Senato, ma è quella che ha conglobato nella Repubblica, invece
che gli intellettuali isolati, la struttura dirigente fascista.
Paolo Aquilanti, Il caso Bontempelli, Sellerio, pp. 188
€ 12
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