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Grisélidis commediante e martire
“Il nero è un colore” suona, oggi, un
manifesto. Controcorrente. Una rivolta, “Black lives matter”, contro le morti
dei giovani neri americani per mano della polizia. Ma non è la sola sorpresa: è un romanzo,
comincia con un botto, “Ho sempre amato i Neri”, detto da una Bianca, svizzera,
e scoppietta come un gioco pirotecnico, colorato, anche cupo.
“Il nero non esiste” è la terza o quarta frase, non esiste nel senso della
diversità. Ma non è un proclama: è la storia di una giovane madre bianca che
l’innamorato nero porta a prostituirsi, e lo fa di preferenza con i neri –
americani, bisogna dire: caciaroni, cioè, ubriaconi, spendaccioni. E non è la
sola sfida: il romanzo è anche degli zigani, belli, forti e generosi.
Grisélidis comincia come un treno, e
non si ferma. Un racconto di stenti e prostituzione, per lo più lurida, che sa
però rinnovarsi e tenere avvinti. Non disturba nemmeno la sua figura sociale,
protagonista nel “Sessantotto” del movimento dei diritti delle prostitute,
fondatrice della cassa mutua di settore Aspasie. Tournée narratrice,
racconta come pochi. Sa perfino imbastire in tanta degradazione, botte,
spaccio, malattie, fame, prigione, sporcizia, stanze luride non pagate, tra i
rifiuti, montagne di rifiuti, con i figli dietro, un lieto fine. Sempre con un
nero – a volte indiano (dell’India?) e nero insieme. Quello che l’abbandona nel
bisogno, dopo essere stato salvato da lei, quello che la picchia e le impone la
prostituzione, quelli che se la fanno allegri al bar. Un racconto che più non
si fa della derelizione, dopo Victor Hugo. La marginalità – i bassifondi, le
borgate – ricostituendo nel fatto razziale. Da irriducibile indomabile
suffragetta del “tipo nero”, anche non credibile, tanta è l’abiezione, ma non
noiosa.
Il titolo sembra di oggi, ed è
quello che forse ha spinto alla riedizione, ma è del 1974 e già vecchio,
ripreso da Martin Luther King e il Black Power, anni 1960 – la paura del nero,
del diverso, si allenta per tappe, ed è ora, cinquant’anni dopo, la volta
dell’Europa. Di neri si racconta per lo più, mariti e amanti, anche cattivi, e
molto cattivi. Nonché di zingari, i pochi sopravvissuti in Germania a Hitler,
di cui Grisélidis è parte – “sono di razza gitana”. Il racconto è invece
nuovo e nuovissimo, del genere che si apprezza leggendo.
È un racconto-verità, come usava –
del ladro, dell’operaio, del galeotto? Non sembra inventato. Cioè lo è, ma
“scritto”, con un occhio al genere, porno, e uno alla prosodia e poetica. Più
Genet che “Papillon”: il diario della prostituta come il “Diario del ladro” –
il “Santo Genet, commediante e martire” di Sartre. Il racconto non tralascia
nulla del repertorio sessuale, il Krafft-Ebing, aggiornandolo anzi, all’“odore
aspro della negritudine” e al pene ricurvo dei neri, doloroso uncino. E forse è
vero, per minuti particolari. Per esempio “Roma, città aperta”, visto a Monaco,
in una sala gremita. Ma riscatta la pornografia. E la noia. La vita di una
prostituta, con la coda alla porta i giorni di paga, il sabato, il 30-31, non è
varia. Nel racconto sì.
Grisélidis pubblicherà poi altri
nove o dieci libri. Qualcuno anche premiato – “Carnet di ballo di una
cortigiana” sarà premio Humour Noir in Francia nel 1979. Avvinta all’immagine
di attivista della prostituzione in quegli stessi anni 1970, dopo aver scritto
il libro, che data 1972-1973: alla radio, alla televisione, nei libri, nelle
chiese occupate a Parigi e Lione nel 1975, e ai “convegni internazionali” che
naturalmente se ne fecero. Ma narratrice dotata. Nata a Losanna nel 1929, aveva
fatto in tempo a sentire gli ultimi hitleriani minacciare il pericolo nero, dei
“violentatori delle vostre figlie”. Su questo sfondo mentale procede col suo
racconto goloso, tra i liberatori in Germania di colore in Chevrolet.
Cresciuta in Egitto e in Grecia,
studi al Liceo Artistico di Zurigo, Grisélidis fa la Modella all’Accademia, ma
è presto madre di due figli, e a trentadue anni fugge in Germania con l’amante
Bill, un nero americano che ha aiutato a evadere dal manicomio di Ginevra – in
realtà con tutti i crismi dottorali, purché ne liberasse la Svizzera. È
l’inizio del racconto, che sarà di cose vissute e viste. Scappa anche perché
l’assistenza sociale vuole toglierle i due figli che già ha, di padre violento
svanito. L’autobiogafia si svolge tra l’occupazione americana, la ricostruzione
tedesca, avventurosa e tignosa, tra sessuomani invariabilmente deviati, e la
vita confinata ai margini. Tra le cantine del jazz e i piccoli traffici, il
sesso nelle sue peggiori declinazioni subendo ogni notte, mentre i figli
dormono. E ciò malgrado l’amore sessuato con un uomo, con un nero, con costanza
perseguendo, invariabilmente ingannevole e violento. Eccetto, forse, l’ultimo.
Una vita “maledetta”. Nei due sensi,
anche in quello letterario. della bohème nel secondo
Novecento. Nel senso della riuscita di una bohème iperletteraria:
questo è un racconto che si recupera, l’autrice resterà pure marginale, il
libro no. O anche: la sua vita sarà stata il racconto migliore. Se non è Genet in
gonnella, narratrice dell’abiezione più che abietta – si riesce a immaginare
“la vita è bella” di un ladro, non di una prostituta con la coda alla porta, e
i figli nel letto.
Nel 1959, a trent’anni, con due
figli e un polmone in meno, Grisélidis esce di nascosto dal sanatorio a Montana
nel Valais per divertirsi in paese, finendo a letto con uno che le lascia cento
franchi. Ma è già in corrispondenza con Maurice Chappaz, tra altri letterati,
come si vede dalla corrispondenza, che ha curata e lasciata, “Mémoires de
l’inachevé”. Anche qui, qualche segno lascia. Dalla casa in Svizzera, che ha
affittato alla solita ricca americana, per scappare col nero pazzo e sfuggire
all’assistenza sociale che vuole prenderle i figli, risultano scomparsi a un
certo punto “manoscritti e poesie”. Un cliente l’assomiglia a Elizabeth Taylor,
dopo alcuni anni di mestiere infaticabile, tra sberle, pedate e ossa rotte. E
beve già il vino rosso in fresco.
Grisélidis Réal, Il nero è
un colore, Keller, pp. 320 € 17
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