Il mondo com'è (414)
astolfo
America tedesca – Ci fu a fine Settecento la
possibilità, non remota, che gli Stati Uniti indipendenti nascessero tedeschi:
la comunità tedesca era la più numerosa dopo quella inglese, ma era più attiva
e organizzata, e più urbanizzata. Ovunque s’incontrano tuttora –man, –burg e -ich, e le case
col tetto spiovente che fanno Germania attorno a Filadelfia, cuore della nazione,
tra Harrisburg e Gettysburg. È tedesca pure Yorkville a New York. Dietrich è il
cognome più diffuso, con Hoffman, con una e due -n. Eisenhower si scriveva Eisenhauer, Smith spesso Schmidt. È tedesco,
postnomadico, l’uso americano di cambiare i mobili ogni tre anni, magari per ricomprarli
uguali. E il coniuge, seppure non con la stessa frequenza. Quentin Tarantino ha
avviato il riconoscimento col dottor Schultz, il virtuoso cacciatore di taglie
di “Django unchained”, e l’eroina
Brunhilde che parla tedesco.
Furono i soldati
tedeschi di re Giorgio, i reggimenti dell’Assia, a propiziare a Trenton nel New
Jersey la prima vittoria e il carisma di Washington. E fu per una decisione a suo tempo minoritaria, com’è noto, che
l’America parlò inglese e non tedesco. I tedeschi si distinguevano anche per
qualità degli insediamenti, oltre che per essere numerosi. In America più che
in ogni altro posto, dice Kant nell’“Antropologia”, i tedeschi emigrati si sono
distinti per formare comunità nazionali “che l’unità della lingua e in parte
anche della religione trasforma in una specie di società civile che, sotto una
superiore autorità, si distingue nettamente dagli insediamenti di ogni altro
popolo per la sua costituzione pacifica e morale, l’attività, il rigore e
l’economia”. Un commento che si penserebbe indirizzato ai tedeschi di Russia
(del Volga), di Romania (del Banato, capitale Timisoara), di Praga e la repubblica
Ceca (Sudeti). Ma “questi sono gli elogi”, concludeva Kant, “che gli stessi Inglesi
fanno dei Tedeschi dell’America del Nord”.
Disoccupati organizzati – Sono una parte
di Roma a Napoli. Si dice che Roma è sempre sul filo di diventare Napoli, caotica
e ingovernabile, in questo caso avviene l’inverso: anche i disoccupati organizzati vengono
dall’antica Roma. Le folle di nullafacenti, mantenute dallo Stato e dalle
famiglie abbienti, che ritenevano loro diritto lamentarsi, protestare, e rubare,
da soli o in bande.
Egidio da Viterbo – In una delle lezioni
tenute a Milano nella primavera del 1985, raccolte in “Dietro l’immagine”, Federico
Zeri si dice sicuro che i soggetti della Camera della Segnatura e della
Cappella Sistina non sono di Raffaello né di Michelangelo, che, benché persone
di cultura, non possedevano le chiavi, storiche, mitologiche, filosofiche,
teologiche, oltre che bibliche, di tutti i soggetti che hanno rappresentato. Le
chiavi non erano neppure del committente, papa Giulio II, affaccendatissimo,
oltre che nelle committenze, architettoniche, urbanistiche, pittoriche, anche
in guerre e complicate diplomazie. Zeri opina che fossero invece di Egidio da Viterbo,
un agostiniano di cui s’è perduta la memoria – eccetto che nella chiesa di S. Agostino
a Roma dove è sepolto – ma personaggio ai suoi anni di grande rilievo (l’ipotesi
di Zeri peraltro era stata avanzata già dal gesuita Heinrich Pfeiffer nel 1972
- altri avevano ipotizzato un ruolo di Tommaso “Fedra” Inghirami).
A
Viterbo, sede allora mezzo papale, aveva potuto fare nel convento agostiniano
della Santissima Trinità, nel quale era entrato nel 1488, studi di filosofia,
teologia e lingue antiche, come allora usava, in chiave umanistica, per poter
accedere alle culture classiche – gli si attribuiscono studi di greco, ebraico,
aramaico, persiano, arabo. Peregrinò e insegnò poi in vari conventi dell’ordine,
ad Amelia, Padova, Firenze, Roma, Napoli, di nuovo Viterbo, e in Istria. Filosofo,
appassionato di lettere antiche, frequentò a Padova Pico della Mirandola a
Firenze Marsilio Ficino, a Napoli Giovanni Pontano, e fu in frequente corrispondenza
con loro. Fu anche oratore efficace, incaricato da Alessandro VI, Giulio II e i
due papi medicei, Leone X e Clemente VII, delle prolusioni in occasioni speciali.
Tra esse l’inaugurazione del Quinto Concilio Lateranense nel 1512, e nel 1530,
nel concistoro di novembre, sulla necessità di una riforma della chiesa – il concilio
di Trento sarà convocato quindici anni più tardi, da Paolo III, sui principi da
lui espressi in concistoro.
Fu
soprattutto famoso al suo tempo, e resta negli annali, quale rigido critico
dell’averroismo e di Aristotele. Fin dagli anni di Padova, la sua prima destinazione
fuori Viterbo, nel quadriennio 1490-1493. Fu in con confidenza con Pico della
Mirandola, dilettandosi anche lui di astrologia e cabbala. E vi curò una riedizione
dei commenti aristotelici di un altro Egidio agostiniano, Egidio Romano, o Egidio
Colonna – discepolo di san Tommaso d’Aquino a Parigi, dove anche lui poi insegnò,
generale degli agostiniani, precettore di Filippo il Bello e arcivescovo di
Bourges (cioèBruges). Egidio da Viterbo usò il commento per un attacco frontale al
razionalismo aristotelico. A Firenze,
subito dopo, frequentando Marsilio Ficinio, approfondì il neoplatonismo, che
trovava consono più consono alla tradizione cristiana, e alla lettura di sant’Agostino.
Il suo opus magnum, rimasto incompiuto,
intitolava “Commentaria sententiarum ad mentem et animam Platonis”.
Fu
anche diplomatico papale in varie occasioni, e cardinale dal 31 ottobre 1517.
Era anche all’epoca superiore generale degli agostiniani, e in questa veste quattro
mesi dopo, il 31 ottobre, Martin Lutero rese pubblica la protesta, con l’affissione
delle 95 tesi sulle porte della chiesa di Wittemberg – ma il gesto fu molto meno
drammatico dei suoi sviluppi. Fu noto, oltre che come oratore, per essere un
gran lettore. Uno che voleva approfondire le sue letture, e per questo
intensificava lo studio delle lingue. Gli si ascrive la lettura in aramaico di
molte parti della Bibbia e del “Talmud”, in arabo del “Corano” e di Averroé, di
Avicenna in persiano, della “Torah” in ebraico. Nel tentativo di collegare le
altre culture al filone cristiano.
Hitler-Vaticano – Non si risolve
la questione se Pio XII, papa Pacelli, benché sulla via della santità, non
abbia favorito Hitler, col concordato del 20 luglio 1933 – sottoscritto col cattolico
centrista von Papen, che lo aveva negoziato e firmava su incarico del presidente
tedesco Hindenburg, ma cancelliere era già Hitler – e col silenzio in guerra.
Ma Hitler disprezzava i preti e le gerarchie cattoliche, da cui era disprezzato,
ed era solo temuto in Vaticano, e da Pacelli papa più che da ogni altro, avendo
egli conosciuto la Germania di Hitler di prima mano come nunzio. Mentre Hitler,
soprattutto mentre varava la “Soluzione Finale”, diffidava del Vaticano.
Quando
il fascismo mediterraneo aprì in Germania, anzi proprio a Berlino, a fine 1942 –
il mondop era allora del Reich - l’istituto Studia Humanitatis, con un’orazione
del professor Riccobono in latino, Goebbels minacciò di togliere la luce: “È evidente
che gli italiani stanno tentando di accampare diritti al predominio spirituale
in Europa”. E Rosenberg scrisse l’epitaffio: “È passato il nemico. L’Istituto
Studia Humanitatis è una longa manus del Vaticano”.
Leonardo – È ultimamene
“materia” dei Modestini, restauratori. Esperti evidentemente attribuzionisti, ma di professione
restauratori. Dianne Dwyer Modestini, la restauratrice che ha scoperto e
riportato alla luce, con un’opera paziente, il “Salvator Mundi” di Leonardo, è
la vedova di Mario Modestini, romano, il principe dei restauratori del
Novecento, morto nel 2006 a 99 anni.
Il
“Salvator Mundi” ha registrato nel 20017, venduto da Christie’s, il record di
valutazioni di un bene artistico, 450 milioni di dollari. Pagati da un principe
saudita, Badr ben Abdullah, figlio dell’ex re. Probabilmente per conto del cugino
e principe ereditario Mohammed ben Salman. Da allora non è stato più visibile –
si dice adorni lo yacht del principe ereditario. Ma l’attribuzione è sempre più
contestata da molti studiosi di Leonardo.
Mario
Modestini si era reso celebre per l’autentica di un altro Leonardo, l’ultimo
accettato universalmente come opera di mano di Leonardo, la “Ginevra dei
Benci”. Un ritratto, messo in vendita dai principi del Liechtenstein fra i
tanti del loro magazzino. Da lui esaminata e autenticata, e anche personalmente
comprata, per conto dei banchieri Mellon, per cinque milioni di dollari, e trasportata
a Washingotn, alla National Gallery – la “America’s Mona Lisa”.
Era
un predestinato, essendo nato a Roma, nel 1907, a via Margutta, la strada
allora degli studi d’arte. Lavorò molto in Brasile e in Toscana, stabilendosi
poi a Rignano sull’Arno. Nel secondo dopoguerra lavorò soprattutto negli Stati
Unit, restauratore in residence della
Kress Foundation, che gestiva una collezione ricca di duemila opere, anche di
Tiziano, Bellini, Van Dyck, Tintoretto, Canaletto, Tiepolo, Rubens, El Greco, e
di van Gogh, Manet, Monet, Cézanne. Richiesto per expertise e restauri da vari
musei e collezionisti americani. Per Kress Foundation ha individuato un Greco
che l’esperta del pittore spagnolo, Eleanor Sayre, non riconosceva. La
collezione Kress era opera di Samuel Henry Kress, magnate del minuto commercio –
un ex minatore che s’inventò una catena di negozi five and ten, dove cioè si vendevano solo oggetti da 5 e 10
centesimi di dollaro.
Zeri lo ricorda,
in “Dietro l’immagine”, le sue lezioni milanesi sull’“arte di leggere l’arte”, nella
lezione sui falsi, come quello che gli consentì di smascherare falsi complicati,
difficili da individuare.
Provvide personalmente anche al trasporto del ritratto di
Leonardo da Zurigo a Washington. Su un aereo Swissair, prenotato in prima
classe per “Sig. e Sig.ra Modestini”. La “signora” era il ritratto, rinchiuso
in una valigia che lo stesso Modestini aveva progettato, che simulava la
temperatura e l’umidità della can ina dei duchi, dove il quadro era immagazzinato,
per il tempo di dodici ore, la lunghezza del viaggio, dopodiché approdava in
una ambiente della National Gallery con la stessa temperatura e umidità. La “signora
Modestini” viaggiò non solo rinchiusa ma anche ammanettata al restauratore.
Nave dei folli –
“Narrenschiff”, la nave in cui Sebastian Brant a fine Quattrocento rinchiuse
nel poema omonimo 111 folli in viaggio verso il paese di Cuccagna, era il
Parlamento nel linguaggio corrente dell’esercito austro-ungarico fino alla
Grande Guerra.
astolfo@antiit.eu
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