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La fratellanza socialista, faziosa
L’antisocialismo degli ex Pci è
sempre vivo, una forma di imprinting del livore. Le librerie Feltrinelli
tuttora “non prendono” libri che in qualche modo facciano la storia del partito
Socialista, a meno che non siano i soliti trucidi repertori anti-Craxi. “La
Repubblica”, che per quarant’anni non ha smesso un giorno nel vituperio di ogni
cosa socialista, per quanto morta, dacché nel 1978 l’ex socialista Scalfari l’appaltò
al Pci, solo da poco ha capito che la guerra era finita, col film di Amelio –
un comunista legato al produttore socialista Saccà. Mauro, che “la Repubblica” ha
diretto per un ventennio dopo Scalfari, dal 1996, e sa quindi di che si tratta,
la prende sul leggero, quasi sul ridere. Il racconto che ha organizzato per il centenario
del Pci, l’anno prossimo, e si presentava pesante, ha alleggerito, in aneddoti e
scemenzuole – in certi punti sembrano cronache alla “Don Camillo”. In una prospettiva
sempre polemica, ma non pretestuosa: la chimera della solidarietà socialista.
Che è invece faziosità, assassina: la frenesia divisoria, un po’ trinariciuta (“nessuno
è più socialista-comunista di me”), un po’ bambinesca.
Uno scissionismo colpevole, che
ha lasciato l’Italia, unico paese a democrazia compiuta, occidentale, senza un partito
socialista. Di una sinistra politica del lavoro, dell’istruzione, della sanità,
della previdenza, del reddito dei cittadini meno fortunati o meno protetti, delle
masse. Mauro ne rappresenta il punto estremo, la scissione comunista nel 1921. Non
nel vuoto, in una fase storica in cui il fascismo si riorganizzava minaccioso, già
squadrista, dopo l’insuccesso al voto nel 1919. Il presupposto non è falso, e
quindi la lettura brillante non è falsata. Se non per la sottovalutazione della
carica dirompente che la rivoluzione bolscevica, perché ci fu una rivoluzione
bolscevica, esercitò in Italia, tra i socialisti italiani (Mussolini compreso) –
in Italia come in Germania.
A Mauro per vent’anni direttore
de “la Repubblica” si dovrebbe chiedere: da che pulpito viene la predica? Ma,
poi, la colpa non è dei media, per quanto di parte, e oscuramente tali. Il
socialismo era nato trent’anni prima ed era vissuto in Italia su base
composita. Occupando senza particolare merito un’area vasta dei bisogni. Si
direbbe una costruzione intellettuale, di professionisti. Ma senza un’ideologia
o un programma. Niente marxismo né altra dottrina. Un partito che vive di adattamenti, di molte identità e di nessuna. Localista e statalista,
cooperativista e tradeunionista, riformista (gradualista) e massimalista,
pacifista e bellicista. L’unico marxista al congresso costitutivo di Genova,
nel 1892, Antonio Labriola, nella corrispondenza non fa che deriderne l’identità,
e la capacità critica. Che riduce a quella di “frati ignorantelli”, che davano del
“ciarlatano” a Marx, salvo proclamarsi “marxisti in un giorno”. Sette gruppi
senza amalgama distingueva Labriola, e le divisioni resteranno: il Partito
operaio lombardo, gli emiliani dei tre deputati Prampolini, Agnini e Maffei, il
vecchio Partito rivoluzionario romagnolo di Costa, le cooperative, “i nascenti
Fasci di Sicilia”, “gli anarchici anemici e
i mazziniani convertiti”, “un certo numero di letterati rivoluzionari
eclettici”. Il “partito senza libri” che Gramsci lamenterà nel 1923.
Grande fu l’attrattiva, nel
1918-1919, della rivoluzione bolscevica. Lenin sarà il dominus, seppure da remoto, del congresso di Livorno, col richiamo a creare un partito comunista d’Italia.
Non era un mercimonio, naturalmente, ma nemmeno un diktat, Mosca era ben
lontana. Era forte l’attrattiva, ed era ideale – anche su Gramsci, quanto di
più lontano dal nerbo leninista. Mauro, corrispondente da Mosca al crollo del sovietismo,
sottovaluta questa fascinazione. Che, seppure ferale per la democrazia in Italia
un anno e mezzo dopo, e poco incisiva poi , nell’Italia repubblicana, pure ha consentito
per mezzo secolo una forte identità politica.
Ezio Mauro, La dannazione, Feltrinelli, p. 192, ril. € 18
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