lunedì 23 novembre 2020

La fratellanza socialista, faziosa

L’antisocialismo degli ex Pci è sempre vivo, una forma di imprinting del livore. Le librerie Feltrinelli tuttora “non prendono” libri che in qualche modo facciano la storia del partito Socialista, a meno che non siano i soliti trucidi repertori anti-Craxi. “La Repubblica”, che per quarant’anni non ha smesso un giorno nel vituperio di ogni cosa socialista, per quanto morta, dacché nel 1978 l’ex socialista Scalfari l’appaltò al Pci, solo da poco ha capito che la guerra era finita, col film di Amelio – un comunista legato al produttore socialista Saccà. Mauro, che “la Repubblica” ha diretto per un ventennio dopo Scalfari, dal 1996, e sa quindi di che si tratta, la prende sul leggero, quasi sul ridere. Il racconto che ha organizzato per il centenario del Pci, l’anno prossimo, e si presentava pesante, ha alleggerito, in aneddoti e scemenzuole – in certi punti sembrano cronache alla “Don Camillo”. In una prospettiva sempre polemica, ma non pretestuosa: la chimera della solidarietà socialista. Che è invece faziosità, assassina: la frenesia divisoria, un po’ trinariciuta (“nessuno è più socialista-comunista di me”), un po’ bambinesca.
Uno scissionismo colpevole, che ha lasciato l’Italia, unico paese a democrazia compiuta, occidentale, senza un partito socialista. Di una sinistra politica del lavoro, dell’istruzione, della sanità, della previdenza, del reddito dei cittadini meno fortunati o meno protetti, delle masse. Mauro ne rappresenta il punto estremo, la scissione comunista nel 1921. Non nel vuoto, in una fase storica in cui il fascismo si riorganizzava minaccioso, già squadrista, dopo l’insuccesso al voto nel 1919. Il presupposto non è falso, e quindi la lettura brillante non è falsata. Se non per la sottovalutazione della carica dirompente che la rivoluzione bolscevica, perché ci fu una rivoluzione bolscevica, esercitò in Italia, tra i socialisti italiani (Mussolini compreso) – in Italia come in Germania.
A Mauro per vent’anni direttore de “la Repubblica” si dovrebbe chiedere: da che pulpito viene la predica? Ma, poi, la colpa non è dei media, per quanto di parte, e oscuramente tali. Il socialismo era nato trent’anni prima ed era vissuto in Italia su base composita. Occupando senza particolare merito un’area vasta dei bisogni. Si direbbe una costruzione intellettuale, di professionisti. Ma senza un’ideologia o un programma. Niente marxismo né altra dottrina. Un partito che vive di adattamenti, di molte identità e di nessuna. Localista e statalista, cooperativista e tradeunionista, riformista (gradualista) e massimalista, pacifista e bellicista. L’unico marxista al congresso costitutivo di Genova, nel 1892, Antonio Labriola, nella corrispondenza non fa che deriderne l’identità, e la capacità critica. Che riduce a quella di “frati ignorantelli”, che davano del “ciarlatano” a Marx, salvo proclamarsi “marxisti in un giorno”. Sette gruppi senza amalgama distingueva Labriola, e le divisioni resteranno: il Partito operaio lombardo, gli emiliani dei tre deputati Prampolini, Agnini e Maffei, il vecchio Partito rivoluzionario romagnolo di Costa, le cooperative, “i nascenti Fasci di Sicilia”, “gli anarchici anemici e  i mazziniani convertiti”, “un certo numero di letterati rivoluzionari eclettici”. Il “partito senza libri” che Gramsci lamenterà nel 1923.
Grande fu l’attrattiva, nel 1918-1919, della rivoluzione bolscevica. Lenin sarà il dominus, seppure da remoto, del congresso di Livorno, col richiamo a creare un partito comunista d’Italia. Non era un mercimonio, naturalmente, ma nemmeno un diktat, Mosca era ben lontana. Era forte l’attrattiva, ed era ideale – anche su Gramsci, quanto di più lontano dal nerbo leninista. Mauro, corrispondente da Mosca al crollo del sovietismo, sottovaluta questa fascinazione. Che, seppure ferale per la democrazia in Italia un anno e mezzo dopo, e poco incisiva poi , nell’Italia repubblicana, pure ha consentito per mezzo secolo una forte identità politica.
Ezio Mauro, La dannazione, Feltrinelli, p. 192, ril. € 18

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