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domenica 15 novembre 2020

Letture - 439

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Bernini – Fu anche pasticciere – architetto di dolci barocchi, per grandi banchetti. Era l’uso presentare torte fantasiose, di forme e colori, che adornavano il pasto, prima di essere consumate. Di Bernini la pratica è attestata da Zeri in “Dietro l’immagine”, 245: “Fra le più straordinarie produzioni di Gian Lorenzo Bernini vanno annoverati alcuni dolci colossali, che venivano prima esposti e poi mangiati ne grandi pranzi dell’aristocrazia pontificia. Erano strutture di panna montata, di gelatina, di biscotti”

Dante – Il genio della metafora lo dice Pound. Che della metafora fa “il segno del genio”. Per l’autorità di Aristotele: “Poiché l’uso della metafora proviene da una rapida percezione delle relazioni, essa è segno distintivo del genio”.

È un poeta del New England, Hugh Kenner, “Dante tra Pound e Eliot” – lo era, quando c’era ancora in America il New England: “Un delle prime scoperte americane fu Dante. E quando il giovane Eliot, poco prima di iniziare ‘Prufrock’, si dedicò allo studio della ‘Divina Commedia’ senza l’aiuto di una grammatica italiana, avvalendosi soltanto per le parole on familiari di una traduzione in  prosa e recitando passi a memoria a letto o in treno («Dio solo sa che cosa ne sarebbe uscito fuori se io avessi recitato ad alta voce!», ha in seguito dichiarato), egli andava in questo modo impadronendosi di quella parte della tradizione costituita  da Dante, così come si andava facendo ad Harvard da circa un secolo. Fin dal 1836, infatti, Longfellow, Lowell, Norton a Grandgent avevano a turno tenuto un corso che in sostanza consisteva in una ricca e approfondita lettura di Dante. Il principio comune era di leggere i testi danteschi, non di impartire lezioni su di essi, nella convinzione che soltanto attraverso la lettura, er quanto imperfetta, un grande poeta poteva essere assimilato dalla sensibilità di un giovane ed esercitare quindi la sua zione formativa”.

Dante arabo? “L’Inferno lo abbiamo trovato in Pindaro e in Platone”, Ezra Pound spiegava già nel 1910, “Lo spirito romanzo” (“Lingua toscana”), “il Cielo, in qualche modo, in Platone”. Non solo, c’era anche molta virtuosità nei giovani dello stil novo: “I poeti toscani sgambettano allegramente per il complicato universo tomista, con una precisione che stupisce chi non sia abituato a qualcosa di più complesso della nostra civiltà moderna”.

Ma era anche normale rapportarsi con la cultura araba, era la cultura del tempo, continua lo stesso Pound a proposito di Guido Cavalcanti, a commento del poemetto “filosofico” “Donna mi prega”: “Dobbiamo supporre, come sfondo ad ogni serio pensiero nel tempo di Guido”, e di Dante, “il pensiero arabo: le sfere concentriche dei cieli, l’itinerario dell’anima verso Dio di Ibn Bahya, le specificazioni di Averroé sui gradi di comprensione”. Più Grosseteste, per il fondamentale trattato sulla luce, “De Luce et de Incohatione Formarum”, fondamentale per il “Paradiso”. E “Grosseteste deriva dai trattati arabi sulla prospettiva”.

Etruschi - Sono Etruschi i Tirreni secondo Plutarco (“Virtù delle donne”, 27) e i Pelasgi (che invece sarebbe “un popolo originario del Nord della Grecia”, ib., 29). Plutarco li vuole anche padroni di Creta. Dove poterono considerarsi ateniesi per parte di madre, essi stessi (ex) coloni di Sparta. Dove erano intervenuti, cercando fortuna per mare, prima contro, e poi a favore degli iloti.

Gioconda – È misteriosa perché è sporca – F. Zeri, “Dietro l’immagine”, 154: “Un’immensa letteratura parla del mistero, della strana atmosfera sfumata di questo strano capolavoro di Leonardo. Tutte cose che in realtà non esistono e sono dovute  solo alle innumerevoli mani di vernice ed allo sporco che stanno sulla superficie del quadro”.

Ed è meglio così, spiega Zeri: il quadro “è in perfetto stato” e quindi ripulibile senza problemi, ma “la Gioconda” ormai è quella. Ripulita sarebbe un altro quadro, “il mistero si vanificherebbe”, che fa parte del capolavoro – “esiste ormai una tradizione relativa a questo tipo di capolavori per cui è opinione comune che non vadano toccati  proprio perché sono entrati ormai nella nostra cultura sotto quell’aspetto e sotto quella veste”. 

 

Medio Evo – Diventa “medievale”, arroccato un una religiosità rocciosa e mistica, compatto, anche socialmente benché feudale, alla caduta con Napoleone della sovversione. Si riconduce il passato in atmosfera congresso di Vienna, idealizzando i “secoli bui” come un’epoca ideale dell’unità, dottrinaria, culturale, sociale. Mentre è stata un’epoca ridondante di sovversioni, soprattutto in campo religioso (le eresie), e di movimenti millenaristici, di rinascita sociale.

 

Oro – Tra fine Settecento e primo Ottocento si faceva incetta di quadri nelle case e le chiese di paese, remote, per bruciarli e ricavarne oro:  “Un contenitore di pietra o di metallo raccoglieva l’oro fluido che usciva dalle cornici e dai dipinti” – Federico Zeri, “Dietro l’immagine”, 94.  Si bruciavano per questo anche vestiti e arazzi, per recuperare i fili d’oro che li impreziosivano: gli arazzi, “soprattutto i più sontuosi, tessuti con fili d’argento e anche d’oro, venivano poi bruciati per recuperare il metallo e riutilizzarlo. Per questo dell’enorme produzione di arazzi abbiamo una grande quantità di documenti, ma un numero molto limitato di oggetti”.

 

Padre – Il revival si prolunga nel Millennio, con Régis Jauffret che riscopre il papà – dopo settant’anni, dopo Annie Ernaux e Onfray. Un revival che ha avuto espressioni importanti, in Handke, Philip Roth, Camus, Richard Ford. Dopo la lunga eclisse, anzi si può dire l’assenza: quella paterna è una figura recente nelle lettere.

 

Pci – Rifiutando la pubblicazione de “Il Comunista” presso Einaudi, di cui era direttore editoriale, Calvino così scriveva nel 1965 a Morselli: “Dove ogni accento di verità si perde è quando ci si trova all’interno del partito comunista. Lo lasci dire a me che quel mondo lo conosco, credo proprio di poter dire, a tutti i livelli. Né le parole, né gli atteggiamenti, né le posizioni psicologiche sono vere”.

 

Raffaello – L’artista più copiato. Della “Madonna del popolo”, commissionata da Giulio II a Raffaello appena arrivato a Roma e originariamente a Santa Maria del Popolo, dove “era difficilmente visibile, si conoscono almeno novanta copie, che hanno fatto i giri più strani e si trovano nei luoghi più impensati. Ce n’è una addirittura in un antico monastero russo, oltre gli Urali. Altre si trovano, adattate a composizioni con più figure, nelle Fiandre, in Francia, in Spagna” – Federico Zeri, “Dietro l’immagine”, 95. È peraltro un quadro di cui non si trova l’originale.


Spagna – È stata scoperta, in letteratura e nelle arti, con la Restaurazione postnapoleonica in Francia. Per l’aura romantica che si era acquisita con la resistenza all’occupazione. E per il gran numero di manufatti artistici che erano stati rubati dalle chiede e dalle residenze private, ora messi in commercio. Prima non si sapeva in Europa di Velázquez, Murillo, Zurbarán, El Greco. E non erano stati tradotti, né altrimenti fruibili, il “Don Chisciotte”, la “Celestina” o altre opere del gran teatro, Góngora, il “Lazarillo de Tormes”. 

Weimar – “Una piccola e sudicia città della lontana Turingia”, al tempo di Goethe – Peter Stein, “La Lettura”, 15 novembre.

letterautore@antiit.eu

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