mercoledì 25 novembre 2020

Pavese era un altro

Duecento pagine di paratesto - l’ambientazione d’epoca di Angelo d’Orsi, storico della cultura, l’introduzione corposissima di Francesca Belviso, l’ultima, e da qualche anno unica, pavesiana, una nuova testimonianza di Lorenzo Mondo, che per primo pubblicò il taccuino, nel 1990, alcune delle reazioni a quella prima pubblicazione, di Natalia Ginzburg et al., scandalizzate o esplicative, i fac-simile del taccuino - per ventinove foglietti sparsi, scarsamente riempiti, due-tre frasi per foglio, denominati editorialmente “diari segreti”, “intimi”, eccetera, espunti dai diari postmortem, “Il mestiere di vivere”, perché dubbiosi, sulla guerra, il fascismo, l’antifascismo, in un paio di punti anzi critici, di un antifascismo imbelle. Una riesumazione alla ricerca di un succès de scandale, certo. Ma quanto queste poche note non propongono di una diversa lettura, storica e non politica, della guerra, e del nazifascismo? Pavese, si dice, non aveva senso politico, ma aveva bene il fiuto della storia, e il metro.
Un paio di appunti tentano di leggere la storia, della “guerra dei dittatori invece che dei popoli”. In altri Pavese apprezza chi combatte e muore in guerra, compresi quelli di Salò (del Mussolini di Salò apprezza anche il programma), mentre lui se ne sta a “rivedere bozze”. Riflette anche sull’opzione di farsi volontario in guerra, siamo tra il 1942 e il 1943, per dirsi poco animoso. L’idea di portarsi volontario nella guerra d’Abissinia era stata della sorella Maria, un modo per uscire dal confino a Brancaleone in Calabria, la “morte civile” – sarà poi scelta la domanda di grazia, che portò alla liberazione, era passato un anno dei tre della condanna.  Sarà Maria a dare nel 1962 il taccuino a Lorenzo Mondo. Mondo ne parla con Calvino, lasciandogli l’autografo, che andrà perduto. Ma ne aveva fatto una fotocopia, che ritrova nel 1990, e pubblica su “La Stampa”, con l’assenso delle nipoti dello scrittore, Cesarina e Maria Luisa.
La pubblicazione è un torto alla memoria dello scrittore? Sembra più la chiave per arrivare a una personalità complessa. Pavese emerge da questa e altre pubblicazioni, nonché dalle (rare) revisioni critiche (non è più amato dagli studiosi: troppo asintotico?), un gigante della cultura e della scrittura dei suoi anni. Non lo scribacchino dimesso e l’impiegato delle poste alla Grande Cultura einaudiana, quale lo si tratteggia. Pavese è morto di 42 anni, quella che lascia è una produzione immensa, di scrittura e di politica editoriale.
Il taccuino confligge col mito della Resistenza. Che è incontrovertibile, l’Italia in qualche modo abbandonò il fascismo nel 1943. Ma va applicato con juicio, può essere grottesco. In un paese comunque a larga componente fascista – anche dopo l’abbattimento di Mussolini e l’instaurazione della Repubblica, di obbedienza volentieri “cieca e assoluta”, solo cambiando, in parte cospicua, bandiera. Di Pavese, a valle di questo “taccuino”, altri scritti intanto si cominciano a proporre, che ne fanno un altro, gli danno spessore. La traduzione, impervia ma cocciuta, della “Volontà di Potenza” di Nietzsche - della compilation nietzscheana di Elisabeth Forster-Nietzsche. Con  uno studio “matto e severo” del tedesco solo per il gusto di poterla affrontare, tale fu l’entusiasmo. Per l’Amor fati  che ricorre nel “Taccuino” - “ci vuole l’amor fati di Nietzsche”: “Perché nel ’40 ti sei messo a studiare il tedesco? Quella voglia che ti pareva soltanto commerciale (Pavese aveva vissuto a lungo di traduzioni, dall’inglese, oltre che di supplenze d’insegnamento, anche di inglese, n.d.r.) era l’impulso del subcosciente e entrare in una nuova realtà. Un destino. Amor fati”. E la tesi di laurea su Walt Whitman, pubblicata due anni fa, “Interpretazione della poesia di Walt Whitman”.
La tesi – questa è la parte nota, canonica, della biografia di Pavese – fu rifiutata dal relatore, Federico Oliviero, perché improntata a estetica crociana, e quindi “scandalosamente liberale per l’età fascista”, come dice wikipedia. La recuperò Leone Ginzburg, coteaneo di Pavese (più giovane di un anno) e già docente di russo, con cui il futuro scrittore era in sintonia in politica, liberalsocialista, che gli trovò come relatore Ferdinando Neri, titolare di Letteratura francese – un cattedratico ben addentro nelle gerarchie fasciste, all’Istituto nazionale di cultura fascista e all’Accademia delle scienze. È già in Whitman, nella lettura di Whitman, il riferimento del taccuino alla “nazione” come comunità si sangue, di guerra (“Forse il vero difetto di noi italiani è che non sappiamo essere atroci”): la guerra è nel naturalista Whitman “la triste e insieme corroborante necessità del pioniere”.
Una quercia. Molto di Pavese evidentemente è da scoprire, a partire dai tagli ai diari, pubblicati dopo la morte come “Il mestiere di vivere”. Ma un quercia solitaria. Sembra impossibile che uno lavori per sedici anni in un’azienda, sempre al centro dell’attività, fin dagli inizi, e sia uno isolato, ma è il suo caso, di uno che non era abbastanza, in ogni piega degli eventi, del “partito”, affidabile, “in linea”.
La morte di Giaime Pintor, compagno apprezzato di lavoro in Einaudi, citata in nota come un fatto specialmente doloroso, introduce anche la dimensione bellica e politica che ancora non si vuole recuperare del fascio-nazismo, che va ben oltre gli interrogativi di Pavese. Giaime Pintor, giovane germanista, partecipava ancora nell’ottobre 1942  alla conferenza annuale a Weimar dell’Unione degli scrittori europei voluta da Goebbels, con Baldini, Cecchi, Falqui e il germanista Farinelli per la parte italiana. Un po' come si tenevano ancora i Littoriali annuali della Cultura, con giovani entusiasti. La storia non cambia, non è da rivedere il giudizio storico su fascismo e comunismo, ma fino al 1942 la guerra la avevano vinta.

Resta della pubblicazione, al di là delle poche annotazioni problematiche del diario, una impressione netta che di Pavese è da rifare la storia, della persona come dello scrittore. Una biografia compiuta non se ne conosce, resta solo il santino Einaudi, del funzionario editoriale operoso, innovativo, vigile, triste, impacciato nei rapporti umani. Mentre quello che si sa, benché poco, va in altro senso. Un provinciale che ha scalato tutti i dossi di autostima, per quanto impervi, da subito, appena sbarcato a Torino, negato alla politica, senza colpa (e perché?), un gran letterato, prima angloamericanista, con scelte felici, poi germanista, uno curiosissimo e coltissimo, uno scrittore dalle molteplici vene, classico, agreste-contadino, urbano-borghese, internazionale, un piemontese che stava bene a Roma, eccetera. E sul piano editoriale, anche, uno che rifiutò Primo Levi, e molti altri, originando un asfittico catalogo letterario Einaudi - solo da Calvino poi rinsanguato (malgrado Vittorini). Pavese è un altro.
Cesare Pavese, Il taccuino segreto, Aragno, pp. CXXVI+129
€ 25

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