Giuseppe Leuzzi
Dal 2007 al 2020,
calcola “Il Sole 24 Ore”, per i due cicli europei settennali di programmazione
delle politiche di coesione sociale, cioè, in Italia, per il Sud, è stata spesa
la metà del pacchetto di aiuti disponibili, 89 miliardi invece di 178. È una
costante, l’incapacità italiana di avvalersi delle risorse europee – che
l’Italia finanzia. Che si suole imputare alle Regioni del Sud. Mentre esse ne
sono vittime, di “Roma”.
È vero, però, che al Sud non si ribellano.
“Se qui da noi, e in genere al Sud, funzionasse la sanità finirebbero i viaggi
della speranza verso altre regioni, e strutture private del Nord dovrebbero
chiudere”: “Famiglia Cristiana” sintetizza così medici e operatori sentiti
nella sua inchiesta sulla sanità in Calabria. Questo è vero di tutta la sanità,
in tutta l’Italia, disegnata dalla riforma Bindi per la privatizzazione
surrettizia – a spese del servizio sanitario nazionale, ma delle regioni come
la Calabria, certo, in particolare.
Non si capisce altrimenti perché non vengono realizzati gli ospedali da tempo
appaltati – uno, a Vibo Valentia, dal neo commissario alla Sanità in Calabria,
cinque anni fa.
È meridionale prevalentemente, in assoluto e in in rapporto alla popolazione,
il fenomeno degli scomparsi - residenti di cui è stata denunciata la
sparizione. Dal 1 gennaio 1974, da quando se ne tiene il conto, a fine 2019
sono state denunciate 245 mila scomparse. Su base regionale (i dati disponibili
sono di fine 2018, quindi su un totale di circa 230 mila denunce) il fenomeno
interessa in primo luogo la Sicilia: 26.635 denuncia su 230 mila. Seguivano il
Lazio, con 8.023 casi, la Lombardia, 6.103, la Campania, 4.699, la Calabria,
4.659, e la Puglia, 4.080.
Svanisce l’Italia con la memoria
Si gira per Roma come nel vuoto. Un’impressione più forte che in primavera.
Anche se c’è più gente. Romani, presumibilmente, incupiti, curvi sul cellulare. In primavera s’incontravano meno persone in giro, ma
erano turisti, attardati. Visitatori. Perplessi, ma non scontenti, anzi col sorriso di
sempre, della gente che visita Roma – e Firenze, s’immagina, Venezia. È questa
presenza che “fa” le nostre città, le città simbolo dell’Italia?
La lettura in contemporanea della “Cerimonia degli addii”, in cui Simone de
Beauvoir racconta gli ultimi anni di Sartre, corrobora questa impressione.
Nell’orrida serie di decadimenti corporei che colpirono il filosofo, la vacanza
d’agosto a Roma – con Capri, una volta, un’altra Venezia, o Firenze –
rappresenta sempre una pausa e uno svago: quattro, cinque, sei
settimane di felicità.
Non c’è in effetti, a ripensarci, altra immagine dell’Italia che quella del
turista: del bello, dell’antico, del decoro - non un paese senza una piazza,
una piazza senza una fontana, una fontana senza un putto, o un tritone - e
della luce, del colore, perfino della natura – quello che comunemente s’intende
per natura, i pini, i cipressi, le ville padronali, le colline, le montagne, le
spiagge accoglienti. Era ritornante, negli anni Sessanta, Settanta, negli
incontri fra industriali, imprenditori, politici, la messa a fuoco di una
immagine Italia modernizzante, tecnologica, innovativa, per poter competere fra
i giganti del mercato mondiale - era ancora il tempo di una Italia quinta o
quarta potenza economica. Ci resta lo sguardo del turista.
E un incubo ritorna, nel semi-lockdown, dagli anni 1980, che in “Fuori l’Italia
dal Sud” si poteva così esternare già nel 1992: “Sempre meno stranieri vengono
in Italia. Troppo cara. Troppo sporca. Spiacevolmente disordinata. Vengono
sempre meno anche per le città d’arte. E se un giorno non venissero più, perché
alla pittura e all’architettura della Pietà di Michelangelo debbono preferirsi
i grigi gessi del pietismo nordico? È possibile, il gusto cambia Anche l’asse
del mondo sta cambiando, c’è insofferenza verso il Sud e l’Ovest. Del resto, se
ha bisogno di serietà, è al Nord pensoso che il Sud deve rivolgersi. I greci
antichi già lo sapevano: è tra gli iperborei che Atlante accigliato regge sulle
spalle il mondo. La stessa attrattiva della civiltà romana la dobbiamo al culto
che le hanno votato gli inglesi e i tedeschi. Agli inglesi, che non hano più
soldi per farlo, sono subentrati i francesi. Ora la Germania torna a dare, come
già ai tempi di Wagner e di Hitler, segni di disaffezione, tentata dal Nord e
dall’Est, Grecia compresa. Domani potrebbero disinteressarsene anche i
francesi, e Roma resterebbe una delle tante città del mondo. L’età di mezzo,
Comuni e Rinascimento, deve molto a svizzeri, francesi e americani, della
piccola parte d’America che sta a nord di New York. Ma gli svizzeri da tempo
non se ne occupano più, e l’America è sempre meno New England. L’Italia,
insomma, potrebbe scomparire”.
La Sicilia abbandonata
Si girava per la Sicilia, negli anni 1980-1990 in solitario. Niente
traffico, niente file, niente prenotazioni. Da Capo d’Orlando, la villa dei
Piccolo, a Cefalù, a Segesta, a Selinunte, a Tindari, tutto per noi, soli. A
Trapani, a Siracusa, a Catania, perfino a Taormina lo spazio era ampio, e
l’attenzione delle persone.
Cresciuti con le immagini dei treni delle “svedesi” che arrivavano o partivano,
si scopriva un’altra Sicilia. Centinaia di poliziotti, carabinieri, giudici,
politici trucidati, con centinaia, forse migliaia, di mafiosi, avevano
desertificato l’isola.
La liberazione è avvenuta poi per mano di siciliani coraggiosi, giudici,
giurati, polizie, anche mafiosi pentiti, a partire dal maxiprocesso di metà
anni 1980. Ma ancora nel 1998, o 1999, si poteva assistere a Catania alla
premiazione dell’ex capo della Procura di Palermo Caponnetto in
un Palazzo Municipale chiuso, da cui fuoriuscivano applausi sordi,
mentre la piazza era occupata da un centinaio di torve macchine delle autorità
e delle scorte, con nugoli d’inquieti, sospettosi, autisti. Ma questa era già
l’antimafia.
La scoperta della mafia, antipatica
Non ha richiamato grande pubblico il film Rai sul maxiprocesso alla mafia,
1985, che poi stroncò la mafia stessa. Niente al confronto con gli altri film
siciliani della Rai, quelli di Montalbano, o della Piovra. Si direbbe che se la
mafia non è vincente non attira.
Può essere. Il film di Micciché, “Io, un giudice popolare al processo”, oppone
filologicamente un netto “noi e loro”, le tre civilissime giurate donne al
processo, tuttora sensate, giuste, e i barbari in gabbia, assassini vilissimi,
bruti e brutti, stupidi, non si dice bestioni per non vilipendere le bestie.
Con i giudici, Giordano, Grasso, Ayala, come sono i giudici, appassionati di
procedure. Senza trionfalismo, insomma, ma con mano corretta, ferrea.
Il pubblico non è avvezzo alla verità della mafia, solo alla terribilità – che
è spettacolarità. Perfino Camilleri, lo spregiatore forse massimo della mafia
(l’unico scrittore siciliano che non abbia un “suo” mafioso in pregio – la
sindrome Robin Hood), la ipostatizza, inaccessibile.
I momenti di verità del film sono numerosi. Delle donne giurate che non hanno
paura. Del palazzo-tribunale costruito in pochi mesi. Delle gerarchie mafiose
nelle stesse gabbie. Del silenzio che accoglie la testimonianza di Buscetta: è
un capo. Mentre Contorno, altro pentito, è contestato: non è un capo. Ma
nessuno viene impiccato, o fucilato, non c’è neanche una storia d’amore, come
si fa con la mafia?, è quindi non è spettacolare? La mafia non è spettacolare,
è un corpo freddo. Brutto anche, sporco.
Napoli
“Era una di quelle giornate felici così comuni a Napoli, dove per il brillare
del sole e la trasparenza dell’aria gli oggetti prendono colori che sembrano
favolosi al Nord, e sembrano appartenere piuttosto al mondo del sogno che a
quello della realtà” - Théophile Gautier, che non era tenero con i luoghi
visitati, in “Arria Marcella”: “Chiunque ha visto una volta questa luce d’oro e
d’azzurro ne riporta al fondo della sua bruma una incurabile nostalgia”.
“Arria Marcella” è un racconto del 1852 - dopo un viaggio a Napoli del 1850:
non molto prima dell’anatema che si abbatterà sulla città, ormai da
centosessant’anni.
È stata a lungo, Napoli come il Golfo, trademark speciale, del bello e del
ricco. “Kississana” è nel racconto “Rumori” di Nabokov (il racconto di un
infelice amore dell’autore per una cugina, Tatiana Evghenievna
Segelkranz, bella, colta, snob, e sposata), il nome di “un celebre ristorante
frequentato dagli intellettuali”, nei dintorni di San Pietroburgo.
“A Napoli si dice che siano morti ventimila al giorno”. Morti di peste, riporta
Daniel Defoe, che pure è uno accurato, ma qui è distratto, in mezza riga, là
dove esalta l’organizzazione londinese, nel “Diario dell’anno della peste” a
Londra, 1665. Un diario noioso, in versione integrale, tanto è preciso. Ma i si
dice corrono sempre allegri.
“Se vi è un paese dove i furti e gli assassinii siano frequenti, questi è
Napoli.
“Se vi è un paese dove i furti e gli assassinii restino impuniti,
questi è Napoli”, è l’attacco si A . Dumas, “L’assassinio di rue Saint-Roch” –
Dumas raccontava il malaffare di Parigi ma scriveva da Napoli.
“Certo il nome di Spaventa è un bel nome per un prefetto di
polizia, ma un nome non basta per far paura ai ladri”, è il seguito di Dumas.
In effetti. Silvio Spaventa, poi, non era un prefetto di polizia tra i tanti:
futuro ministro e senatore, primo hegeliano d’Italia e protoliberale, prozio di
Croce, fu ministro di Polizia a Napoli nel governo luogotenenziale, fino cioè
all’annessione, nell’inverno 1860-61 – per conto di Cavour, in lite con i
garibaldini. Dumas dice che la storia non ferma i ladri, il crollo del regno
millenario, Garibaldi, l’Italia.
Giletti su “La 7” mette in scena il contagio in Campania con un’immagine del
Vesuvio, su un mare blu che sputa covid. Proteste. Giletti si giustifica: “Il
grafico è un meridionale”. In effetti, non c’è nulla per cui protestare, ma il
“complesso meridionale” non è solo del Sud.
Al referendum istituzionale del 2 giugno 1946 la circoscrizione
Napoli-Caserta votò al 79 per cento per i Savoia. Non male per una dinastia che
aveva “invaso” Napoli ottant’anni prima.
leuzzi@antiit.eu
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