Calvino cartesiano
Un Oscar non si sa se più
prestigioso, con presentazioni e spiegazioni, una qui dello stesso Calvino,
oppure spoiler, guastatore del
piacere della lettura. La presentazione di Calvino, una lezione alla Columbia
University di New York, spiega in dettaglio il suo modo di lavorare – per
appunti occasionali e non per piani di accumulo – e la “costruzione” del libro, delle
singole città invisibili, e poi degli accorpamenti. Dentro un quadro di comodo, i colloqui
di Marco Polo col Gran Khan. Tutto freddo, come sarà la lettura.
La “costruzione” in realtà
Calvino non la spiega. Un mazzo di 55 carte di città. Tagliate in 9 mazzetti,
disposti in linea. Di 10 carte i due esterni, di 5 gli altri 7. Carte di 11segni:
memoria, desiderio, segno, scambi, occhi, nome, morte, cielo, sottili, continue,
nascoste. Ogni segno di 5 semi. Calvino ha costruito il mazzo per frammenti,
lungo molti anni, che poi ha assemblato. Sotto forma di lettere di Marco Polo
al presunto (errato) imperatore dei Tartari Kublai Khan, o in conversazioni con
lui. Con una morale, insomma, una conclusione: la vita è un inferno.
Testi improbabili, le città
invisibili sono inafferrabili. Non filosofici, non fantastici, non stilistici o
filologici, ma che il lettore è presunto magnificare per la loro stranezza panglossianamente
come i migliori dei testi possibili. E senza dimenticare Palazzeschi, di cui Calvino si professava devoto, nelle sue più caratterizzanti sfaccettature, dal futurismo al fantasy. Un Calvino, si direbbe, urbanista - il linguaggio
è quello, da “Domus”, “Casabella”. Cerebrale. Troppo, cioè confuso. Se non è Paul Klee messo in pagina, come Calvino pretende in una delle lezioni americane propriamente dette - dove preende che i suoi racconti germogliano per caso, da una immagine.
Nella narrazione come nella
critica Calvino si vuole nella lezione alla Columbia qui anteposta di regola cartesiana:
leggerezza, chiarezza, necessità. Una necessità di maniera, in linea col
proprio impianto. Anche, per quanto sofisticata, una sorta di regressione al
linguaggio infantile, dei primi anni di linguistica, quando le parole sono
belle, e si concatenano in frasi belle, non importa quanto relate al mondo – alle
cose, ai fatti.
Un’oggettivizzazione estrema,
anche se alleviata da emblemi – o appesantita dai discorsi sugli emblemi. Senza
più funzione emotiva, anche se con compartecipazione dell’autore. Che si
avverte profonda, al limite dell’insouciance,
ma per questo in realtà di rifiuto, quasi ironico. Di rifiuto della parola. Ora:
uno scrittore che rifiuta la parola, seppure per distacco o rifiuto
programmatico, da “ora ti scandalizzo il borghese”? “Borghese” è da ridere, ma
non molti anni fa era riferimento d’obbligo: tutto ciò che l’autore non voleva essere, pur
essendolo – c’è niente di più “borghese” di un “autore”?
Il racconto, il genere racconto,
si radica nella “necessità”, in una certa consecutio,
un certo ordine. Non per Calvino a un certo punto, che invece vuole lasciarlo
aperto – forse in linea col nouveau roman d’oltralpe, benché questa esperienza
non abbia adottata. C’è un racconto aperto? Se stimola la fantasia del lettore sì,
su questa linea sembra muoversi questo “secondo” Calvino.
La lettura in parallelo di Simone
de Beauvoir, dei suoi “Colloqui con Jean-Paul Sartre” nell’estate del 1974 a
Roma, tutto fa scadere però, sotto l’apparenza della logica, nell’improbabile. “Raccontando
si rivelava una necessità”, così Sartre spiega i suoi approcci letterari, “che
era il concatenamento delle parole le une alle altre, che erano scelte per
concatenarsi…E c’era anche, ma molto vagamente, l’idea che ci sono delle buone
parole, delle parole che fanno bello concatenandosi le une alle altre, e che
fanno dopo una bella frase”. Questo succedeva a Sartre bambino – “questo è durato
fino ai dodici anni”.
Di Sartre è, negli stessi colloqui romani, quando passa a scrivere saggi, la regola “delle idee molto cartesiane:
leggerezza, chiarezza, necessità”. Di Calvino invece il progetto è in evidenza, esibito,
in una disincarnazione eccessiva. Di un virtuosismo gelido: la narrazione diventa
un calembour chilometrico,
insopportabile. Non sorprendente né sapiente, insistito. Una tortura. Specie al
confronto, per esempio, con Primo Levi, che ha saputo far parlare gli elementi.
Italo Calvino, Le città invisibili, Sorrisi e Canzoni
Tv + la Repubblica, pp. 165 € 9,90
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