astolfo
Tommaso “Fedra” Inghirami – Fu lui, direttamente
in contatto con Raffaello, il suggeritore delle storie – del programma
iconografico - della “Stanza della Segnatura”? Mediatore delle “Sententiae ad mentem Platonis” di Egidio da Viterbo. È l’ipotesi
che il Dizionario Biografico della Treccani avvalora, di Inghirami mediatore
tra il frate agostiniano e il pittore.
Originario di Volterra, Inghirami
studiò a Roma, presso l’Accademia Romana di Pomponio Leto. Frequentata anche da
Alessandro Farnese, con cui si legò d’amicizia. Partecipando alla messa in
scena di opere teatrali latine, parte della pedagogia di Pomponio Leto. Il
soprannome Fedra, che si porterà per tutta la vita, gli sarebbe derivato dalla
partecipazione, come Fedra appunto, a sedici anni, nell’aprile 1486, a una
rappresentazione accademica dell’“Hyppolitus” di Seneca, davanti al palazzo del
cardinale Raffaele Riario a Campo dei Fiori, dove continuò a improvvisare, in
versi latini, mentre l’impalcatura crollava. L’aneddoto è ripreso da Erasmo da
Rotterdam in una lettera del 1513, dove dice di averlo appreso direttamente dal
cardinale. Il “Dizionario” Treccani registra il soprannome nelle varianti Phaedrus e
Phaedra, aggiungendo: “Quest'ultima
forse allusiva anche all’orientamento sessuale” dell’Inghirami, attestato in
altre lettere, di Mario Maffei a Jacopo Sadoleto e di Agostino Vespucci a Niccolò
Machiavelli”.
A Roma, dove rimarrà a vivere, in
ambito curiale ma senza prendere gli ordini, curerà diverse rappresentazioni
teatrali, variamente ricordate dai contemporanei – e celebrate dopo la morte,
nel 1516, da Paolo Giovio con parole commosse. Nel 1513, nelle feste romane per
il conferimento della cittadinanza a Giuliano e Lorenzo dei Medici, curò la rappresentazione del
“Poenulus” di Plauto, la commedia dei “mangiapolenta”, o del ragazzo cartaginese
rima schiavo poi affrancato. L’anno dopo, per il carnevale, sovrintese al
corteo di 19 carri allegorici in Agone (piazza Navona),
Nel 1505 era stato nominato anche
direttore (praepositum, prefetto),
della Biblioteca Vaticana. Attorno al 1510 fu ritratto da Raffaello – il ritratto
a palazzo Pitti. Era celebrato come il nuovo Cicerone nella Roma di Leone X, di
ciceronismo imperante - Erasmo lo ricorderà qualche anno dopo come “dictus sui saeculi Cicero”. Sarebbe
morto cadendo da una mula sotto le ruote di un carro carico di sacchi di grano trainato
da bufali.
Napoleone – Ebbe ammiratori
importanti in area germanica, malgrado le tante guerre da lui imposte oltre
Reno, e detrattori radicali in area francese. È con un pamphlet radicale contro Napoleone che Benjamin Constant, svizzero
di Losanna, nato da famiglia di ugonotti francesi rifugiati nel secondo Cinquecento,
esordisce nel 1813, a 46 anni, dopo aver molto viaggiato, e sostenuto un paio
di duelli, “Dello spirito di conquista e dell’usurpazione”. Un’opera, precisa nella
prefazione alla terza edizione - datata Parigi, 22 aprile 1814, a ridosso dell’esilio
di Napoleone - “scritta in Germania nel novembre del 1813, e pubblicata in
gennaio; e ristampata ai primi di marzo in Inghilterra – “la nobile Inghilterra”
della prima prefazione, “asilo generoso del pensiero, illustre rifugio della
dignità umana”.
Nella
prefazione alla prima edizione l’aveva detta “parte di un trattato di politica
terminato da parecchio tempo”. Ma, per quanto trattatistico, spiegava ancora,
era un saggio nato dall’“orrore che mi ispirava il governo di Bonaparte” - e la
“nazione che ne portava il giogo”, senza ribellarsi.
Presentava
se stesso come “uno dei mandatari di un popolo ridotto al silenzio”, da
francese cioè. Esordendo, nella prefazione alla prima edizione, che diceva un
po’ travagliata, in questi termini: “Il continente non era che un vasto carcere”,
finché “a un tratto, dalle due estremità della terra, due grandi popoli si sono
risposti, e le fiamme di Mosca sono state l’aurora della libertà del Mondo”.
Aggiungendo peraltro: “Non c’è, in questo libro, una sola riga che la quasi
assoluta totalità della Francia, qualora fosse libera, non si affretterebbe a
firmare”-
Peste bianca – Fu così detta
la tubercolosi, a lungo in Europa, da metà Seicento a tutto l’Ottocento, la
causa maggiore di morte. Per infezioni di cui non si veniva a capo.
Ne
fa in breve la storia Remo Bernabei, “La
tubercolosi: una lunga storia” (free online):
“Anche in mancanza di dati epidemiologici precisi è nota
l’epidemia di tubercolosi in Europa, che probabilmente iniziò nel
diciassettesimo secolo e che durò duecento anni; era nota come la Grande Piaga
Bianca forse per distinguerla dalla Peste bubbonica (la Morte Nera). Nel 1650
la tubercolosi era la principale causa di morte e morire di tubercolosi era
considerato inevitabile. L’alta densità della popolazione e le condizioni
sanitarie indigenti che caratterizzavano molte città dell’Europa e del Nord
America crearono un ambiente idoneo alla diffusione del morbo. Dal 1600 al 1800
la Tubercolosi causò il 25 per cento di tutte le morti”.
“Nel XIX secolo la tubercolosi fu soprannominata oltre che
“Piaga Bianca”, anche “male di vivere”, e “male del secolo”. Era vista come una
“malattia romantica”. Si pensava che soffrire di Tubercolosi concedesse al
malato una sensibilità nascosta. La lenta progressione della malattia
permetteva una “buona morte” consentendo alle vittime di mettere ordine nei
loro affari. La malattia cominciò a rappresentare la purezza spirituale e la
salute terrena, portando molte giovani donne del ceto alto ad impallidire
volutamente il loro viso per avere un aspetto malato. Il poeta britannico Lord
Byron scrisse, nel 1828, “mi piacerebbe morire di tubercolosi”, aiutando a far
divenire popolare questa malattia come la malattia degli artisti. George Sand
amava ciecamente il suo “tisico” amante, Fryderyk Chopin, lo chiamò il “povero
melanconico angelo”. In Francia, furono pubblicate più di cinque novelle in cui
si narravano gli ideali della Tubercolosi: “La signora delle camelie” di Dumas
figlio, “Scene de la vie de bohème” di Murger,” Les miserables” di Victor Hugo,
“Madame Gervaisais” e “Germinie Lacerteux” dei fratelli Goncourt e “L’aiglon”
di Edmond Rostand. In letteratura la prospettiva della malattia spirituale e
che redime”.
“Si stima che la tubercolosi abbia raggiunto il picco della
prevalenza tra la fine del diciottesimo secolo e il diciannovesimo. Una
giornata lavorativa di almeno 12 ore con un solo giorno di riposo alla
settimana, il consumo di alimenti scadenti con abbondanti dosi di alcool, la condizione
di semi povertà di gran parte del proletariato urbano, unite alla visione di un
capitalismo senza freni inibitori, queste sono le condizioni che provocarono il
passaggio della Tubercolosi da endemica ad epidemica e pandemica nel Regno Unito
tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo”.
Il primo lockdown – limitato – si ebbe a Napoli: “La
convinzione che la tubercolosi fosse una malattia contagiosa trovava sempre
maggiori consensi e a Napoli, nel 1782, Domenico Cotugno sollecitò per questo
motivo la promulgazione di una legge sanitaria per la profilassi sociale della
malattia: Ma due anni dopo re Ferdinando, che rifiutava l’idea della
contagiosità della tisi, revocò alcune delle disposizioni cautelative fatte
approvare da Cotugno”.
“I termini consunzione e tisi continuarono ad essere usati entrambi nei XVII e il XVIII secolo, fino alla metà del XIX
secolo, quando Johann Lukas Schönlein introdusse il termine “tuberculosis”.
“Solo nel 1882 (il futuro, 1905, Nobel) Robert Koch comunicò
alla Società di fisiologia di Berlino di aver scoperto il microrganismo
responsabile della letale Tubercolosi polmonare, che denominò due settimane più
tardi, nella rivista scientifica “Berliner Klinische Wochenscrift”, “Tuberkelvirus”
(cioè virus della Tubercolosi). E descrisse questo microrganismo come ”Sottile,
la cui lunghezza è metà-un quarto del diametro di un globulo rosso, molto
simile al bacillo della lebbra, ma più affilato”. Era stato appena provato che
la tubercolosi era contagiosa.
“Da
quando fu provato nel 1880 che la malattia era contagiosa, la tubercolosi
divenne una malattia conosciuta e le persone infette furono costrette ad
entrare nei sanatori che sembravano prigioni, anche se i sanatori per le classi
media e alta offrivano cure eccellenti e costante attenzione medica. La
Germania fu all’avanguardia in quel periodo perché, grazie alla legge di
assicurazione sociale contro le malattie (1883), furono costruiti numerosi
sanatori ad Hannover (70 letti), a Grabowsee (189 letti), a Oberderg (114
letti), a Stiege (80 letti”).
Nel
New England nel 1800 si contarono 1.600 morti per 100 mila abitanti.
A New York per tutto l’Ottocento moriva di
tubercolosi fra il 4e il 5 per mille della popolazione – 400-500 per 100 mila
aitanti.
Il tasso di mortalità per tubercolosi in Italia
è passato dai 210 decessi per 100 mila abitanti del 1887 a 39 nel 1951.
astolfo@antiit.eu
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