Ripensare la globalizzazione
Il boom stratosferico delle Borse, nel mezzo
di una crisi, senza precedenti che si ricordino, della produzione e del
reddito, non è certamente sano, ed è il segnale più macroscopico che il mercato
così com’è funziona male. È eccezionalmente selettivo a favore di pochi
fortunati: Ed è distruttivo: di reddito, quindi di produzione e consumo, e
anche di tecnologia.
Un mercato, si direbbe, autodistruttivo. Per
un disegno fallimentare della globalizzazione. Sia per quanto concerne la
produzione e il reddito sia per quanto concerne le aspettative (la finanza). Le
due crisi, del 2000 e del 2007-2008, e una terza ora temuta, con una frequenza
senza precedenti nella storia dei cicli economici, ne sono l’effetto.
La globalizzazione intesa come delocalizazione
verso gli sterminati mercati del lavoro asiatici, del lavoro non protetto, è
suicida. Per le economie che delocalizzano e, in seconda battuta, per gli
stessi mercati che ne beneficiano.
Una forma di imperialismo della merce si è imposta,
a vantaggio di ceti non produttivi - importatori, finanziatori - che la le
stesse debolezze dell’imperialismo politico-militare: l’improduttività. Alla sommatoria,
certo, di passivi e anche di attivi, ma sempre l’imperialismo è tendenzialmente
controproduttivo. Anche ad addobbarlo di disegni di potenza.
La Cina, che sotto la presidenza Xi ha avviato
un progetto imperialista, dichiarato, ne comincia a tirare somme negative, in Africa
e sulla stessa via della Seta. In entrambi i dispiegamenti: nella spesa
ostensiva, e nella borghesia compradora,
affaristica, che ne affianca l’espansione e ora non controlla più l’opinione,
non se ne cura – con ripercussioni negative sulla parte più solida,
tecnologicamente, e più concorrenziale, come la nuovissima telefonia mobile.
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