Secondi pensieri - 437
zeulig
Com-dividuo – Si fa tesoro del mit- heideggeriano per ribaltare la base
dell’esistenza. Che però era già quella, da quando si pensa (si scrive il
pensiero): dell’identità irriducibilmente multipla, di individui e di geni (famiglie,
società, tribù, poi nazionalità…). Dell’umanità una, certo, e indivisibile. Ma
si vuole e sembra una scoperta, o meglio un progresso nella riflessione.
Nietzsche direbbe che com-dividuo non funziona, dividuo essendo qualcosa che (si) divide. Comunque, e pluribus unum è il rapporto. Di cui si
può rovesciare l’ottica, se e quando privilegiare l’uno o i più, ma non la dialettica, la relazione logica. Io non è solo io, è anche noi. Le persone con cui vive, i luoghi che abita, o che anche non abita ma si figura e desidera/rigetta, gli oggetti che usa o anche non usa - i vestiti come i libri, o le immagini. La vita è di relazione, anche la più solitaria. L’individuo nasce e si qualifica in comunità – famiglia, società, tribù.
Connotandosi peraltro basilarmente di un valore sottostante e non personale, la
libertà. Di giudizio e di azione.
Il meticciato è
tornato all’onore politico, con Léopold Sédar Senghor e il Sartre del razzismo
anti-razzista del 1948, “Orfeo nero”, come acquisizione. Acquisizione della cultura
europea – le istituzioni e la conoscenza - da parte dell’africano. Che porta in
dote il “senziente” piuttosto che il “conoscente”: la natura animata, il ballo
– il ritmo -, il canto, la souplesse,
di corpo e di spirito. Non c’è etnicismo valevole per l’Europa, il più piccolo
dei continenti – peraltro non separato fisicamente dalla Grande Madre Asia, i
“primati” sono roba politica, dell’Ottocento, anche se sono sopravvissuti fin
alla seconda terribile guerra mondiale e alla decolonizzazione. Ma parliamo di
storia, limitata – anche brillante, oltre che mertrière. La condizione umana non è masi stata di isolamento, in
nessuna riflessione e in nessun modo di vivere.
La con-divisione
non è una novità. Si vuole un’ideologia, ma allora è altra cosa: in nome di che
partito, per quali fini?
Coscienza – È, resta, il luogo del
giudizio, anche oggi che ce n’è la nostalgia, dopo il ripudio, nel mezzo di una
comunicazione vacua tanto quanto invasiva. Il deposito di tutte le informazioni possibili, ancorché solo potenziale. Di
accesso libero, cioè, ancorché episodico. E plastica: frammentaria, evolutiva.
Mai intera, o fissa. Curata: è selezionatrice, l’accesso non vi è libero. Ma ad
ogni momento attendibile e inattendibile, neanche per se stessi: in evoluzione
continua, dubita e fa dubitare nel mentre che rassicura..
È facile anche
mutarla, basta un minimo cambio d’umore. Anche indotto, da una luce, un tepore,
un contatto, un elisir.
Emblema – Non è annotazione,
promemoria, è la cosa in sé? Italo Calvino fa parlare in questo senso Marco
Polo e il Gran Kan nelle “Città invisibili”, nel primo momento, quando Marco,
inviato alla scoperta delle città, riferisce e racconta con emblemi, non
conoscendo la lingua del Kan. Era una comunicazione confusa, ma “tutto quel che
Marco mostrava aveva il potere degli emblemi, che una volta visti non si
possono dimenticare né rimuovere”.
E il potere comunicativo
delle cose, sia pure sotto forma di emblemi, è maggiore, più intenso, del
linguaggio parlato? È quello che lo stesso Kan è potato a concludere quando
Marco Polo comincia a saper parlare, ed è preciso, minuzioso. Ogni notizia, per
quanto circostanziata, prende per l’imperatore la forma dell’oggetto o gesto
con cui inizialmente era stata designata. Ma funziona come una trappola: “Il nuovo
dato riceveva un senso da quell’emblema e insieme aggiungeva all’emblema un
nuovo senso”. Al punto da trascinare l’imperatore a dubitare dell’impero e di
sé – o almeno così Marco Polo-Calvino vuole fargli credere: “Forse l’impero,
pensò Kublai, non è altro che uno zodiaco di fantasmi della mente. «Il giorno
in cui conoscerò tutti gli emblemi», chiese a Marco, «riuscirò a possedere il
mio impero, finalmente?» E il veneziano: «Sire, non lo credere: quel giorno
sarai tu stesso emblema tra gli emblemi»”.
Un esercizio di
divinazione (potere), non di logica, quello di Marco. La conoscenza è
imperfetta ma non irrelata. L’emblema non è il sostituto della cosa. La cosa
esiste anche prima di essere parlata, ma è il linguaggio che le dà un senso,
oggi, domani, dopo.
Emozioni – Una forma di conoscenza –
“parte della coscienza” le dice Sartre, “La Psyché”, “le Erlebnisse, che si possono chiamare emozioni”. Intenzionale anche,
voluta. Comunque non autonoma né eterodeterminata - da un evento, un accadimento,
un oggetto, una qualsiasi pietra d’inciampo. Ma parte della coscienza – del
proprio, si direbbe più a proposito, personale, apparato cognitivo.
L’emozione è sempre
singolare, caratteriale. Condizionata da una situazione esterna, ma non
determinata – si può ridere al funerale e piangere alla festa. Parte dell’ego.
Costruito, anche se non voluto a comando. È nell’intimo e spontaneamente la
stessa costruzione che si adopera nell’artificio della rappresentazione, quando
l’attore deve fingerle: ci può arrivare con sussidi esterni, chimici,
meccanici, ma meglio se per lui si cerano – o lui stesso si crea – le condizioni
preliminari all’emozione.
Falso-vero – “Ci sforzavamo di
distinguere il vero dal falso e soprattutto di scoprire se non stavano dicendo
il falso per far credere il vero, o il vero per far credere il falso. C’era il
falso-vero e il vero-falso…”. Ricordando della guerra, la Grande Guerra, la
lettura dei giornali “tra le righe” – “con la fronte aggrottata e lo sguardo
marcio di malizia e diffidenza” – lo scrittore Simenon enuclea in sintesi la sostanza della comunicazione: un
processo selettivo.
Non c’è opinione
vergine, l’opinione pubblica è un processo selettivo..
Memoria – È ridondante –
accrescitiva, fantasiosa, inventiva. Ma anche diminutiva – riduttiva, episodica,
frammentaria. O distruttiva. Consigliera inattendibile.
È il luogo della colpa. Infettivo: se è parte – poiché lo è – della
coscienza, questa diventa una sorta di luogo delle colpe, di deposito di ciò
che non dovrebbe essere. Più a a lungo, con più costanza, e con più peso, delle
realizzazioni, di ciò che dà soddisfazione o orgoglio.
Morte assistita – Si
chiama la buona morte ma commercialmente: è un suicidio a pagamento. Invece che
arruolare le prefiche, il morituro paga medici, infermieri (-re) e cliniche
asettiche, ancorché sorde e grigie. In Svizzera perché vi si parlano quattro
lingue. Anche l’inglese.
Ricerca –Il viaggio di scoperta,
fisico o mentale, è di arricchimento e insieme di indebolimento. Nel passato: “ Arrivando a ogni nuova città il
viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più di avere”, nota Calvino
raccontando Marco Polo a caccia delle
“Città Invisibili”. E “l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più
t’aspetta al varco in luoghi estranei e non posseduti”. E nel futuro, lo stesso
per “i futuri non realizzati”: “I futuri non realizzati sono solo rami del
passato: rami secchi”.
Da qui il carattere demoniaco della ricerca. Certo non angelico, c’è
sempre da perdere qualcosa, nel modo di essere, in carriera, nell’autostima.
È una scommessa. C’è chi si gioca la smorfia, e chi un’ipotesi,
magari a lungo vagliata.
zeulig@antiit.eu
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