Rumiz rilegge il diario della
pandemia, del primo lockdown, da metà
marzo, che è venuto tenendo per “la Repubblica”. All’ombra del convento
benedettino dell’Isola di San Giorgio a Venezia, dopo “la terrificante acqua alta
del novembre 2019”. Una clausura volontaria dopo quella obbligata. E ne ricava un
altro metro della vita, del mondo. Non poveristico ma critico: del dispendio di
materiali e energie per una vita di commercio, di consumo, di ilare
autodistruzione, convinta.
Un viaggio in surplace. La claustrofobia – il tetto del veliero è la tessa condominiale. La gita in cucina - “c’è il dovere del pessimismo”, ma intanto i fagioli crescono. Gli incontri senza storia e i minimi aneddoti dei mesi della clausura non volontaria. Partendo dalla collera contro
l’Europa, incomprensibile nella pandemia (ma no, è comprensibilissima), che ha
pensato di proteggersi dal virus mettendo dei paletti alle frontiere - e godendo delle disgrazie degli altri, nel
caso dell’Italia, che è stata la prima infettata.
Per il giramondo la scoperta del mondo in cui vive. Della compagna Irene. Dei figli, anche se lontani. Dei nipotini. Le curiose vicinanze che si creano nel distanziamento, nella impraticabilità del movimento. Degli amici anche mai sentiti, lontani. Dei ricordi.
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