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sabato 18 gennaio 2020

Ombre - 496


Per avallare la Consulta Dc che disdice quello che aveva detto nel 1991, “la Repubblica” schiera non il suo costituzionalista, Ainis, ma il romano avvocato professore Massimo Luciani. Questo sito arguiva giovedì che “la legge è democristiana”, inossidabilmente, ed è probabile.

Può anche essere una soluzione: in tempi procellosi meglio ancorarsi alla chiesa, stabile. Lo fa perfino Scalfari, a confessa ogni poche settimane col papa argentino. Dandone conto nello stesso giovedì della Consulta. In tema di clima, ma è un falso scopo.

Era improbabile che Salvini vincesse in Emilia-Romagna. Ora qualche possibilità ce l’ha: la Consulta ha azzerato il potere propositivo delle Regioni, che pure è costituzionale, e dichiaratamente voluto punire Salvini. Che altro favore poteva fargli?

L’attuale Consulta, un po’ dichiaratamente sacrestana, dice no al maggioritario – “richiesta abnorme” - mentre lo aveva solennemente battezzato nel 1992. È vero che la liturgia si aggiorna ogni giorno, ma anche la giurisprudenza? La Dc è immortale?
Per il male sì: ora e sempre è per i governicchi di coalizione, improvvisati, con “responsabili” e “gruppi autonomi”.

Col patrocinio del meticciato il papa sembra avallare e anzi patrocinare, in colloquio con Scalfari su “la Repubblica”, la Conquista, gli europei in America. Naturalmente non è così- e poi questo papa è anti-yanqui . Il papa vuole solo “aggiornare” la chiesa. Di che si parla oggi? Di immigrazione. Bene, tutti immigrati. Facile così, fare il papa.

Stride, nello scontato “siamo tutti fratelli” del papa, l’ignoranza persistente, quasi voluta, dell’Africa e degli africani. Oggetti, sì, assolutamente, di carità: africani, siete tutti noi. Ma, poi, chi sono gli africani e cosa è l’Africa? Un’ignoranza – o indifferenza - che per un missionario è blasfema.

Succede, dovendosi affidare ai notiziari tv, di finire per non sopportare quelli Rai, che i primi dieci minuti, anche quindici, li dedicano a Conte e Di Maio. Con contorno, per riempire il buco, di ministri e sottosegretari degli stessi. Invece, dice “la Repubblica”, i tg Rai sono “pieni di Salvini”. Perché dire bugie, per aiutare Salvini – certo, contro le apparenze?

Dice “la Repubblica” che è l’AgCom a denunciare l’invadenza di Salvini sui tg. Invece l’AgCom, l’autorità di vigilanza sul mercato delle comunicazioni, non lo dice. Il lettore “la Repubblica” vuole fesso? Lo vuole difensore di Salvini? Meglio non leggere?

“Non esiste alcuno Stato in Libia”, premette il ministro degli Esteri di Putin, Lavrov. E per questo Putin combatte per Haftar: per “restaurare lo Stato”. Con le bombe.

Questo Haftar, dice Cremonesi sul Corriere della sera”, è l’autonominato generale di Gheddafi e poi governatore della Cirenaica. Dove, spiega, “sono stati decine gli attivisti per i diritti civili uccisi o desaparecidos”. Forse per questo lui lo ha intervistato tre volte in due anni sul “Corriere della sera”.

Haftar, il generale di Gheddafi, è anche cittadino americano. Proprio così, dal 1990. È facendo affidamento su di lui che Hillary Clinton mise a morte il suo ambasciatore a Tripoli nel 2012. Inviandolo a incontrarlo a Bengasi, la capitale della Cirenaica. Dove fu accolto col mitra.

L’“angelo di Hitler” muore suicida

Una giovane muore per un colpo di pistola ai polmoni. Suicidio? Omicidio? La morte non è immediata, avviene per dissanguamento. Il suicidio maldestro è l’opzione più ovvia. Ma la giovane si chiama Angelika “Geli” Raubal, ed è figlia di Angela Hitler, la sorellastra di Adolf. Del fondatore cioè e capo del partito Nazionalsocialista, che a quella data di settembre 1931 vanta successi elettorali in serie. La morte avviene in casa dello zio, che Geli abita da due anni.
Siamo a Monaco, al Sud della Germania, sotto il Föhn, lo scirocco delle Alpi. E il commissario della polizia criminale, Siegfried Sauer, subito può predire guai. Che si tratti di omicidio – ordinato da chi, per quale motivo, passionale o, peggio, politico? O di suicidio, perché bisogna trovare lettere o testimonianze, e gestirle con cautela. Adolf è tutore della ragazza, orfana di padre, su istanza della madre, dal 1923. E da qualche tempo non se ne separa. Dapprima la porta in giro nelle campagne elettorali, accompagnata dalla madre. Poi, quando la ragazza decide di studiare a Monaco, medicina, o canto, oppure danza, la prende in casa con sé – e dopo morta le creerà attorno un mito. Quanto basta per irrobustire i timori del commissario.
Un romanzo che si annuncia già venduto in mezzo mondo. Parte della “umanizzazione di Hitler”, in atto da qualche tempo. Dell’uomo prima del dittatore. Che la politica ha scoperto tardi, a trent’anni. Sull’onda semplice del risentimento dopo la sconfitta: contro i vincitori, i traditori (il colpo alla schiena), gli ebrei – per l’antisemitismo di cui Vienna lo ha contagiato negli anni di bohème. Le ultime biografie analizzano la storia e il carattere dell’uomo. I narratori la sua vita quotidiana e passionale - Eva Braun, Magda Goebbels, le assaggiatrici, l’architettura. La ventitreenne Geli, piacente e allegrona, di cui Hitler si farà fare dopo la morte ritratti per ogni casa o ufficio, era accudita come una figlia o figlioccia? Era la sua amante, magari rifiutata?
Con una bibliografia, e l’indice dei nomi – dei personaggi, ma tutti hanno nomi reali. “Che cos’è la verità?”, chiede Massimi alla fine. Una è l’inchiesta, “aperta il sabato mattina, chiusa il sabato pomeriggio, riaperta il lunedì mattina, richiusa il lunedì pomeriggio”. Un caso acclarato, di suicidio? Ma no… - che gusto ci sarebbe? Ma il racconto è onesto, anche se lungo, del caso giudiziario.
Fabiano Massimi, L’angelo di Monaco, Longanesi, pp. 493 € 18

venerdì 17 gennaio 2020

Viene da sinistra il vento di poppa al populismo

Avviene negli Stati Uniti e avviene anche in Italia, che il vento della destra sia sospinto dalla sinistra. Che la destra vinca o marci in testa non per proposte proprie ma per le manchevolezze della sinistra.
Negli Stati Uniti il partito Democratico si avvia alle primarie per la presidenza senza una sola idea politica, solo con l’impeachment di Trump. Sapendo che verrà bocciato, dai numeri al Senato che giudica, e dai suoi stessi testimoni, funzionari o avvocati falliti o infedeli. Che l’accusa ha più probabilità di diventare un boomerang. Di un presidente discutibile rischiando di fare un martire.
In Italia non si contano, tra “la Repubblica”, ufficialmente paladina della sinistra, e la Corte Costituzionale, chiaramente confessionale, gli assist e le palle alzate per Salvini. Trasformandolo, al voto in Emilia-Romagna, da sicuro perdente in possibile vincitore. E con una politica dell’immigrazione per la quale non una mezza idea alternativa si oppone a Salvini, eccetto l’accoglienza caritativa.  
Col vento in poppa da sinistra si vede che va la destra, ora di Salvini, anche per la propensione a “strambare”, perdere la direzione.

Se la democrazia fa danni

Votano fra dieci giorni la regione più ricca e quella più povera, l’Emilia-Romagna e la Calabria (l’Emilia-Romagna non è la più ricca in termini di pil o reddito disponibile, ma è quella in cui sono più alte l’aspettativa e la qualità della vita, e migliore l’istruzione e l’innovazione). Entrambe  amministrate dalla sinistra. Ma due mondi agli antipodi.
In crescita costante l’Emilia-Romagna, in decrescita la Calabria, “la regione più povera d’Italia”, e con la peggiore qualità della vita (scuola, sanità, servizi). Non lo era a bocce ferme. Cioè nel dopoguerra, prima della Repubblica – fino agli anni 1950, prima che la Repubblica dispiegasse i suoi effetti perversi, corruzione (sottogoverno) e malavita. Lo testimoniano le statistiche storiche, e i residui borghesi o classe dirigente sparsi per l’Italia, professionali e manageriali.
Un caso, la Calabria, di democrazia che impoverisce. Un caso di studio, che nessuno studia.

Compiti in classe Sellerio

Un esercizio a rischio, la stucchevolezza del compito in classe, anche se da primi della classe. Ma qualche racconto si anima in proprio. Timm soprattutto, che si diverte in scioltezza con Tabucchi – con Pessoa – presente\assente a Lisbona.
Sellerio festeggia i cinquanta anni della sua collana madre con dieci storie dei suoi autori, a partire da Camilleri - la cui ultima storia è però rimasta incompiuta. Una raccolta di racconti su racconti. Ogni autore ha scelto un’opera della collana, e sul titolo, o sul tema, ha imbastito un racconto originale.
Manzini ha scelto Bontempelli, “La scacchiera davanti allo specchio”, un racconto per giovanissimi, su cui celebra la fine del teatro, anche lui divertendosi. Del teatro che faceva pubblico e opinione - il pubblico non manca, anzi si è moltiplicato, manca l’opinione: la critica, il peso specifico (i capi servizio spettacoli nei media fanno fatica a tenerne conto). Giménez Bartlett mette insieme Penelope Fitzgerald, “La libreria”, e la chefmania. Calaciura ha scelto Sciascia, “L’affaire Moro” – in realtà la novella “Il treno ha fischiato” di Pirandello (presenza singolarmente impalpabile nel catalogo Sellerio), di Sciascia è l’aneddoto finale, della psicosi indotta dal “terribilismo” brigatista. Alajmo rifà “Luisa Adorno”, la nuora toscana che racconta la famiglia siciliana nella quale è entrata. Molesini ha un “artista killer” alla Max Aub – anche questo basato su un fatto vero: la ricca vecchietta che lascia erede il cane. Camarrone racconta con Dovlatov, “La valigia”, la grande emigrazione sovietica verso la miseria a New York, un trasloco allo Zen di Palermo, Zona Espansione Nord - roba d’architetti, come tutto il degrado democratico, ma questo dobbiamo saperlo noi: allo Zen 2, disprezzato dallo Zen 1, “con la lapa  senza tettuccio dello zio Antonio”, la motocarrozzetta Ape. Un bozzetto, ma impertinente politicamente, un po
Decisamente impertinente Attanasio, che rievoca con Manzoni una caccia all’untore in Sicilia nel primo Ottocento. Un racconto storico alla Sciascia, con tanto di bibliografia, in aggiunta ai ringraziamenti. Ma perché l’argomento è sensibile: si tratta della “irresponsabile malafede di impreparatissimi e supponenti liberali”. La caccia all’untore è opera dei liberali siracusani del 1820-21, che per alimentare la rivolta isolana contro i Borboni di Napoli dissero la minaccia di colera opera degli stessi regnanti, tramite un agente straniero. Un girovago che proponeva il cosmorama, con la giovanissima moglie a la figlioletta. Non i soli morti linciati o lapidate della cinque giorni siracusana. La rievocazione dello scandalo precedendo con un rinfrescante con Platen, il poeta dimenticato, forse perché scelse di vivere nel Regno.
Fontana va sul filosofico, col “Dell’imperfezione” di Greimas - ma in senso ironico? si muore come si deve, di vecchiaia, inamabili, e si muore andando incontro alla felicità.  
AA.VV., Cinquanta in blu, Sellerio, pp. 378 € 15

giovedì 16 gennaio 2020

La Repubbliche cambiano, la legge è democristiana

1992, la Consulta autorizza il referendum sulla legge elettorale maggioritaria promosso da Segni. 2020, la Consulta boccia il referendum elettorale maggioritario proposto dalla Lega.
In giurisprudenza, specie costituzionale, contano i precedenti: una volta legge sempre legge. Cosa è cambiato? 
Il fatto è che non è cambiata: la Corte Costituzionale è sempre la stessa, a trent’anni, quasi, e due Repubbliche di distanza. È democristiana.
La legge è democristiana.

Secondi pensieri - 407

zeulig
Filioque – La divisione tra le due fedi cattoliche, la latina e la ortodossa, nasce dalla questione teologica, tuttora interminata, dopo dieci secoli, quasi undici, sul “Filioque” nel “Credo”, la preghiera più universale e tradizionale (mai cambiata). Se lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio – dal Padre attraverso il Figlio – oppure se procede unicamente dal Padre (monocratismo). Ma della divisione teologica è rimasto poco, le due chiese procedono separate per motivi politici: le organizzazioni patriarcali sedute sul “Filioque”. Soprattutto quella di Mosca: il patriarcato vi è saldo presidio della nazione russa.

Meticciato – “C’è sempre stato”, sostiene papa Bergoglio con Scalfari oggi su “la Repubblica”: “Si tratta di popoli che cercano in giro nel mondo luoghi e società in grado di ospitarli e addirittura di trasformarli in cittadini del paese nel quale sono arrivati. Probabilmente ad avere moglie e figli in quel paese”. Questo è probabile, ed è all’origine di molti felici incroci creoli e di altro tipo. Ma probabilmente gli indiani d’America, del Nord e del Sud, non sono stati felici di meticciarsi con i conquistatori. O le varie tribù europee con gli unni, e poi con  mongoli.
Quella del papa (del papa in sintonia con Scalfari) è probabilmente una posizione politica, sul tema oggi politico dell’immigrazione irregolare clandestina. Il meticciato è la condizione umana, giacché non esistono popoli o razze “pure”: si nasce per mescolanza di generi, e si vive per mescolanza di famiglie e di etnie. Ma il meticciato, la convivenza pacifica e perfino amorevole tra famiglie e etnie, non giustifica la conquista. Che sia coloniale e imperiale, oppure nata dal bisogno, come probabilmente era degli unni e dei mongoli. Scatta allora, e prevale nel diritto internazionale, l’autodifesa. Sempre sul piano pratico, effettuale.

Mito – Non sarebbe oggi la scienza? Santillana opinava famosamente che il mito è un primo linguaggio scientifico. Primissimo, di origine preistorica, e quindi il primo linguaggio, quando ancora l’alfabetizzazione, nonché il calcolo, erano da venire. Linguaggio scientifico in quanto era una prima elaborazione o idea del cosmo, nonché di “strumenti” di misurazione. La scienza di oggi alimenta miti, dall’intelligenza artificiale al bosone di Higgs, “il quanto di dio”.

Modernità – “Da Racine a Baudelaire, è la nascita di una modernità in cui il Male, prima che colpa, è coscienza di sé”, Carlo Ossola, “Dopo la gloria”, 60.

Poesia – Come la musica, è arte codificata e disciplinata. Dagli inizi. Fin nel mezzo o quarto di sillaba, o fiato. Oppure\eppure arte di sorpresa. Continua, rinnovabile. Per “fiati”, per biscrome e semibiscrome.

Povertà – Uscita fuori perimetro della sociologia – l’ultimo saggio è quello di Ernesto Rossi, 1945 (o forse quello di  Vincenzo Paglia, il curato di Santa Maria in Trastevere ora vescovo di Terni, 1994, aggiornato nel 2014) – dopo il boom postbellico, e quello ancora in corso della globalizzazione. Secondo gli auspici e gli indirizzi progressivi di crescita costante raccolti nel 1944 nella Dichiarazione di Filadelfia (della Ilo, International Labour Organisation dell’Onu): “La povertà, ovunque esista, costituisce un pericolo per la prosperità di tutti”.
Scomparsa in quanto non più condizione endemica o maggioritaria, ma residuale  - si veda da ultimo il “reddito di cittadinanza” governativo italiano, che non è un esercizio di sopravvivenza ma di accorgimento, e anche furberia, legale. Rientra nell’apostolato del papa Francesco, ma più come un fatto politico, a otto secoli di distanza da san Francesco - il vecchio topos della “fame nel mondo” creato da Madison Avenue, anche se senza i “bambini denutriti”. E più in  forma quasi metafisica nella lettura di Carlo Ossola, “Dopo la gloria”, del Cristo nel povero. Del povero immagine di Dio. Della povertà in senso traslato, dell’uomo nudo.
L’uomo nudo è più, o meno, rispettoso della condizione umana? Perché l’uomo dovrebbe essere povero? Di idee? Di forze? Perché indifeso? Ma allora scoraggiato… - che è la vecchia polemica anti-pauperismo.
È l’ideologia della crisi. Nel “never had it so good” – del “never had it so good”. Nel bisogno non sarebbe altra cosa? L’ottica non si rovescerebbe, come è avvenuto, nella riflessione e nella legislazione, fino a non molti decenni fa?

Jaspers ricorda (“La questione della Colpa”) che “un eminente analista” gli disse nell’estate del ‘33: “L’ascesa di Hitler è il maggior atto psicoterapeutico della storia”. Era probabilmente, per di più, un ebreo, ma questo qui non importa. “Questo uso sbagliato di psicologia, psicoterapia, psicoanalisi e il modo a esso collegato di pensare, sono un’epidemia del mondo occidentale”, spiega Jaspers, “a causa della quale innumerevoli uomini sembrano andare in rovina come esseri umani dal punto di vista esistenziale”.

La decadenza nutre pensieri tristi. Una sorta di oblomovismo spengleriano – è pure vero che occidentale è decadente, sono etimologicamente sinonimi.

Sermone – È d’improvviso genere rispettato e quasi richiesto, nel dopo-Suleimani a Teheran – rispettato e richiesto in Italia. I media compunti hanno proposto ayatollah e ministri degli ayatollah che sermoneggiano, come è loro uso. Uso della loro condizione e forse natura, essenzialmente politica, in armi. Escludono vendette e non fanno valere piani militari - che pure ogni giorno applicano implacabili - ma il popolo, le coscienze, l’umanità, le fedi, la pace.
Ce n’è bisogno - del sermone? Evidentemente sì. Ma solo su un piano esotico, come se gli ayatollah fossero fuori dai giochi politici e di guerra – mentre non sono che questo, si sa, ma questo è un altro discorso.
Altre autorità di stampo religioso che parlassero di politica negli stessi termini non sarebbero risentiti come predicatori, insopportabili?
Non è il sermone che ritorna, ma l’odio-di-sé. Perfino in forma di sermone. La voluttà della fine -  Santo Mazzarino l’ha rilevata da storico nella lunga lenta decadenza dell’impero romano. Si amano i critici nelle epoche di decadenza, quando si ha paura di guardarsi attorno.

Sessantotto – Anno fatidico perché composto da sesso, santo e due volte quattro, il numero quadrato o della perfezione?

zeulig@antiit.eu

Cartagine un mito, ma non per tutti

Una mostra bellissima. Ben disposta, ben architettata. Piena di reperti che non è altrimenti possibile vedere, inviati da Ibiza e Beirut soprattutto, e da Malta, Tunisi, Pantelleria, vari siti sardi, Ischia, Pantelleria. Illustrata da didascalie tanto semplici alla lettura quanto straordinariamente centrate e complete. Con ausili video per una volta efficaci invece che tonitruanti e imbonitori. La prima grande mostra – strano ma è così – che si organizza su Cartagine e i Fenici. Ma impossibile da vedere, a meno di molto impegno e caparbietà.
Il sito della mostra dà l’accesso a via Vecchia Salara (basilica Santi Cosma e Damiano) e invece l’accesso è al Colosseo. Nel cafarnao del Colosseo, che uno magari non vorrebbe vedere. Col biglietto (giustamente carissimo) del Colosseo. E con la coda sterminata del Colosseo. Si provi a fare il biglietto online, è praticamente impossibile – anche lo 060608 comunale per le “attività culturali” sa poco della mostra (due risponditrici su tre non sapevano nemmeno che ci fosse). Per accedere alla mostra non ci sono indicazioni, bisogna rifarsi agli addetti alla sorveglianza – molti dei quali la ignorano. La parte centrale della mostra è al secondo piano del Colosseo: un corridoio aperto, gelido. Cui si accede per una sessantina di gradini da trenta centimetri l’uno – l’ascensore è in un angolo remoto, e riservato agli invalidi.
La mostra è ideata e organizzata dalla stessa direttrice del Colosseo, Alfonsina Russo. E come è possible, una mostra per non essere vista? Per aumentare il numero degli ingressi al Colosseo - e battere infine il Louvre? Improbabile – in due ore di mostra si saranno fermate a dare un’occhiata non più di una dozzina di persone.
Per limitare i danni ci si può far bastare il corridoio dei venti del Colosseo, dove è esposto praticamente tutto. La mostra prosegue nel Foro, al tempio di Romolo e alla Rampa imperiale, ma se ne può fare a meno - nel Foro non ci sono indicazioni, e i sorveglianti ne sanno poco o niente.
Il tempio di Romolo espone reperti romani… Li espone perché trovati a Pantelleria, ma più per suonare l’inno d’ordinanza all’uguaglianza, con cui i belli-e-buoni della Repubblica si conquistano il paradiso: che Europa e Africa pari sono, nel grembo del Mediterraneo. Come no, ma non diciamolo agli africani - quante guerre non si fecero, Roma e Cartagine.   
Carthago. Il mito immortale, Parco archeologico del Colosseo, Roma

mercoledì 15 gennaio 2020

Il Nuovo Ordine di Trump

I dati confermano la bontà dell’accordo Usa-Cina dopo la piccola guerra commerciale dei dazi degli ultimi anni. Nel 2019 la Cina ha registrato un surplus nella bilancia commerciale con l’estero di 424 miliardi di dollari, abnorme come sempre, ma in aumento, in un anno di guerra dei dazi con gli Usa, di ben il 21 per cento.
Un exploit incomparabile. Anche perché ottenuto malgrado una forte diminuzione del surplus verso gli Stati Uniti, il maggiore mercato cinese, dell’8,5 per ceto a 295 miliardi. Trump aveva ragione, e la Cina con l’accordo di oggi lo riconosce.
C’è un riallineamento delle correnti di scambio e delle regole della globalizzazione, avviato da Trump come primo suo atto tre anni fa. Delle regole della Wto, organizzazione mondiale del commercio. E dell’interscambio fra Stati Uniti e Cina.
Il riallineamento tocca ora l’Europa. Che invece non attacca e non si difende.


L’Europa disunita

Indirettamente,  il Nuovo Ordine di Trump si farà anche fra Stati Uniti e Unione Europea. Indirettamente, in quanto presumere un’Europa unita, comunque in grado di decidere, è utopistico. Non ne ha le istituzioni, e anche sul piano politico le convergenze ha poche e labili.
Un punto debole è già emerso, che si aggraverà già quest’anno: non c’è più, o non ci sarà, la Wto a proteggere i vari paesi, anche piccoli, con le regole. Bisognerà procedere per trattati o accordi. Questo è uno degli aspetti per i quali la Ue si è fatta, che però latita del tutto: non solo non c’è un coordinamento delle politiche commerciali europee, ma nemmeno una tentativo o un’idea di coordinamento. Se Trump tasserà le auto tedesche, che farà la Francia, che non esporta auto negli Usa? O se bloccherà, magari per ragioni sanitarie, il prosciutto e il parmigiano, che farà la Germania?

Il mondo non va all'ora di Londra

Il principe Harry ha scelto il Canada, ma vi sarà trattato da commoner: dovrà guadagnarsi da vivere. Mentre l’Australia brucia. Anche figurativamente, non è più tempo di Commonwealth, di “anglosfera” come si recita nel vangelo della Brexit. La Gran Bretagna esce dalla Ue tra due settimane, e non ha altro dove andare. Resterà In mezzo al mare, anche in senso figurato.
Non è un’ipotesi naturalmente un futuro agropecuario, quello che ha determinato la Brexit, di una Terra di Mezzo alla Tolkien: la Gran Bretagna, l’Inghilterra specialmente, è sempre stata importatrice di prodotti alimentari – e potrebbe essere peggio se l’Inghilterra resterà nell’Unione sola col Galles, senza Scozia e senza Ulster. Né si può farne una Grande Singapore, o Singapore Globale: con la finanza non si mangia, non in sessanta milioni. Tanto meno oggi che l’ordinamento globale si riassesta su base multilaterale per grandi aree, sotto la diarchia Stati Uniti-Cina.
La Gran Bretagna da sola, se resterà unita, è poco più dell’Italia: nelle stime del Fondo monetario internazionale per il 2018 ha un pil attorno ai 3 mila miliardi di dollari – l’Italia è ferma da tempo a 2.400. In termini di pil, vale un settimo o poco più degli Stati Uniti, un sesto della Cina, un quinto della Ue. Vale quanto la Francia – la Germania è una volta e mezza la Gran Bretagna.

Il silenzio è assordante fra Parigi e Berlino

Forse nascosta dalla fatuità italiana, è l’Europa che balbetta, in Libia come sull’Iran, e sul riassestamento della globalizzazione imposto da Trump. L’asse franco-tedesco che si ritiene la guida del continente di fatto non esiste, su nessuno dei tempi sul tappeto: la difesa (Libia, Ucraina, Iraq, cioè Iran), il commercio internazionale, le istituzioni.  Tra Macron e Merkel, pure grandi parlatori, è sceso il silenzio, assordante.
Macron ha consentito il governo-lampo tedesco a Bruxelles, sotto Ursula von der Leyen, salvo vedersi poi contestate e anche respingere i suoi candidati.  La sua proposta di difesa comune, la Iniziativa europea di intervento (Iei), è stata firmata da Merkel, e lì abbandonata: la Germania non vule impegni esterni, e si ritiene difesa dagli Sati Uniti, anche con Trump. Macron tassa i monopolisti Usa della rete ma vuole Huawei per il 5G, Merkel non vorrebbe.  Per non  dire della Libia, o del negoziato commerciale con Trump.

Povera madre del figlio Nobel

“Dalla beatitudine dell’orrore la beatitudine del ricordo”. Un esercizio crudo in pietas, quindi falso. Sulla madre da poco morta, cinquantenne, suicida. Una dissezione fredda: la costruzione, si sente, di un caso letterario – quarta o quinta uscita dell’allora scandalistico (avanguardistico) Handke, austriaco di campagna, in Carinzia, per maggiore effetto trapiantato a Berlino.
Il 10 aprile 1938, domenica delle Palme dei buoni cattolici austriaci, “il giubilo sembrava non conoscere confini”, all’Anschluss con la Germania hitleriana. Comincia così, con una professione antinazista, il racconto della madre morta, di quando era una ragazzetta: “«Eravamo molto eccitati», raccontava la mamma”. E non si riprenderà: è una sciocca, e perdente. Inafferrabile, una vita non vita.
Una vita che è un pretesto per divagazioni dello scrittore sperimentale – diverso. Poco significanti, non conseguenti: evocazioni. E una strana compassione, in forma di rimbrotto. Costante, perenne. In qualsiasi istante di vita di una donna che, in pochi anni, le aveva passate tutte, ragazza di campagna, Hitler, l’emigrazione, un figlio con uno sposato, Berlino nella sconfitta, che presto diventa Berlino Est, il ritorno al paesello in Austria, un marito presto trascurato, due o tre altri figli, aborti, etilismo del marito, emicranie soffocanti di lei, e botte, sue e del marito. Una storia non esemplare, e non particolare. Sociale, sociologica. Finita la lettura, uno pensa: povera donna, avere avuto un figlio scrittore, ammirato e premio Nobel, così anaffettivo – un pezzo di legno, parlante, un pinocchietto, selvatico.
La narrazione per estraniazione era, e sarà, il segno di Handke, e c’è poco da dire, può non piacere ma gli ha meritato il Nobel. Il personaggio – la madre – è ben definito e sicuramente resta nela memoria, ma per la freddezza che la circonda. Donna avventurosa, che ha lasciato ragazza la campagna per Vienna e la Germania, ha lavorato, si è sempre innamorata, anche se di uomini sbagliati, ha fatto tre o quattro figli, che ha cresciuti, e finisce preda di nevralgie indomabili. Non accudita dai figli, Handke è uno, che la ricorda senza un segno di affetto. La storia si può riassumere così, in senso buono. Ma per rispetto.
Handke è uno dei tanti austriaci grandi e grandissimi scrittori  della finis Austriae che non sono in pace con se stessi, Musil, Th. Bernhard, Jellinek, Ransmayr – Bachmann si salva tedeschizzandosi,  il compleso di colpa annegando nella storia (o nel rapporto con Celan). Nella storia impietosa della madre Handke carica il passato personale della donna, che tutto fa apparire coraggiosa, avventurosa, con quello generazionale dell’Austria. La madre persona dice del resto di aver scoperto solo poco prima che morisse, in una improvvisata estiva, quando la trova discinta sul letto: “Come in uno zoo, giaceva lì davanti a me l’abbandono animalesco fatto carne”. La madre che scopre – all’animalesco segue “l’idiozia della sua vita”- è l’effetto di questa veduta, dell’occhio del figlio.
La storia il racconto finisce per essere dell’insensibilità attorno a lei, del figlio compreso: “Temeva di perdere la ragione. In fretta, prima che fosse troppo tardi, scrisse ancora qualche lettera d’addio”. Senza risposta. È strana, ma sa scrivere lunghe lettere. Senza eco.
Peter Handke, Infelicità senza desideri, Garzanti, pp. 84 € 12

martedì 14 gennaio 2020

La coperta iraniana è corta

All’improvviso gli ayatollah si sono trovati soli, e disarmati. La politica imperiale non regge di fronte ai problemi interni - un paese di cento milioni di persone che si agitano per il pane. Dopo aver speso sui 10-12 miliardi di dollari negli ultimi otto anni per la predominio nel Medio Oriente: la guerra nello Yemen, la guerra in Siria, la dotazione annuale degli Hezbollah in Libano, la sovvenzione di Hamas, La dotazione dei famelici gruppi sciiti in Iraq. Senza contare l’isolamento.
L’appoggio di Putin, determinante in Siria, non sarà mai un’alleanza. La Russia non è un partner, se non per l’aspetto militare. Ma per questo stesso motivo è temuta a Teheran, oggi come sempre. Può essere solo un falso scopo, o una bandiera da spendere nella politica mediorientale, e nulla più. Un rapporto per ora di reciproca convenienza in Siria, che può rompersi già negli sviluppi dei piani nucleari.
Lo stesso peraltro è lo stato degli affari visto da Mosca. Putin non doterà mai Teheran della Bomba. E nella politica mediorientale punta non da ora sull’islam sunnita, il primo nemico degli ayatollah, dalla Turchia alla stessa Arabia Saudita. In Siria ha bloccato e sconfitto la sovversione animata e finanziata dall’Arabia Saudita, ma da ultimo, quando la guerra civile era in stallo, e solo come carta da visita nei riguardi degli stessi sauditi, Putin non ha nessun interesse da far valere nella stabilizzazione in corso a Damasco.
Morto Suleimani, lo stratega della guerra per procura nel “Crescente sciita”, Iraq, Siria, Libano, Bahrein, perfino in Arabia Saudita, tra gli ayatollah torna forte il partito di chi non vuole avventure. E in prospettiva anche una onorevole convivenza col Grande Satana l’America.

Putin nel pantano

All’improvviso la “presenza” russa in Libia finisce nel nulla. Col rifiuto di Haftar, ma di più se Haftar dovesse vincere, imprevedibile, incontrollabile. Come già in Siria, dove Putin ha vinto la guerra per Assad, senza beneficio. L’exploit siriano ha spalancato a Mosca le porte nel mondo arabo, ma nello stesso tempo ha caratteristicamente drizzato molte antenne - in quel mondo la politica funziona così: il successo entusiasma, e allarma.
Ha fatto presto Putin a trovarsi impantanato nel deserto, non solo in Libia: non c’è politica di grande potenza con il mondo arabo, se non per attrazioni remote. E quelle, oggi come ieri, sono occidentali: l’attrazione è dei mercati ricchi e avanzati, di finanza facile.
Putin ha seguito passo passo la decisione di Obama e Hillary Clinton di retrenchment dal Medio Oriente, rafforzata da Trump. Sostituendosi in tutti gli spazi lasciati liberi. Dapprima in Turchia, poi in Siria, da ultimo in Libia. Ha tentato approcci anche verso l’Arabia Saudita e verso Israele. Una espansione diplomatica, che non costa. Forte se necessario di forniture militari avanzate, l’unico settore in cui la Russia è concorrente paritario con gli Usa – forniture che sono in realtà un mercato chiuso, di vendite senza concorrenti, e questo suscita risentimenti più che gratitudine (succedeva pure al tempo dell’Unione Sovietica: “ i compagni russi ci sfruttano”). Ma altro non ci trova.
La “presenza nel Mediterraneo” è residuo ottocentesco. Oggi solo costoso. E sul piano economico non ci sono prospettive, a parte la vendita di armi: su petrolio e gas i due mondi sono concorrenti, mentre la tecnologia e i bond il mondo arabo trova sempre oltre Atlantico.  

Nostalgia di Craxi

La parabola di un uomo solo, un “uomo politico”. Dal suo massimo fulgore – al congresso del partito che dirige, il partito Socialista, può elencare una serie di successi (“l’inflazione è stata abbattuta”, era al 23 per cento, “il pil pro capite dell’Italia è stato nel 1987 superiore a quello della Gran Bretagna, la quinta potenza economica del mondo”…) - il film lo precipita nell’isolamento di Hammamet. Malato. Perseguito dalla giustizia italiana – che lui non riconosce. Autoisolato, più che autoesiliato: uno che comunica con pochi, i ragazzi, le persone povere, i vecchi amici, indifferente o sprezzante con gli altri, perfino con i familiari.
Non è un’apologia di Craxi che Amelio fa. Né ci costruisce sopra un dramma. È un ritratto che tenta, anche se con pochi tratti del personaggio storico. Solo e triste anche quando era al potere. Come Garibaldi della cui memoria è cultore. Che il popolo unicamente stimola, il benessere del popolo – è solo in questi termini che pensa e parla bene della politica, per il resto dileggiando anche quella, che pure è sua passione inesausta, fino a un attimo prima di morire. Uno che da ragazzo in collegio, Amelio fa valere all’inizio e alla fine del racconto, rompeva i vetri con la fionda. Tutto il contrario dell’immagine che se ne coltiva – Craxi Forattini disegnava su “la Repubblica” con gli stivali del Duce.
Ma l’impressione che resta è di un monumento. Forse, più che per la narrazione di Amelio, per la padronanza che Favino mostra del ruolo. Una prova da mattatore, e insieme da Grande Interprete, capace di modulare il personaggio nei dettagli anche minimi, le pause, i toni, il soffio, l’occhio presente e assente. Trascurando sensibilmente, ma questo non è colpa sua, la tragicità dell’uomo: un uomo tutto politica che non ha saputo combattere la battaglia politica. Lasciando a Belzebù, dopo averlo sfidato, l’eredità di un secolo di storia, tutta o quasi in positivo. Del partito Socialista e dello stesso stolido Pci berlingueriano – la sinistra, che contava stabilmente sul 42-45 per cento del voto, si è ridotta al 20, con enormi sacche di astensione e dispersione. Sarebbe stato un altro film, storico forse, o politico, e forse questo non interessava ad Amelio, o al pubblico.

Quale che sia la ragione, il film attrae, benché non ci sia avventura, né sesso, né scandalo, né, si direbbe, niente. E il personaggio sia sempre indigesto ai “trinariciuti”, gli ex fascisti come Travaglio, o il giornale di Scalfari – fa senso vedere il film e leggere nello stesso giorno su “la Repubblica” la rozza rievocazione dello storico Crainz, “Craxi, l’altra faccia del leader”, uno storico che pure si dice nato con Lotta Continua.
Più strano è che il racconto di Amelio attragga un pubblico prevalentemente non di “vecchi compagni” ma di generazioni intermedie e anche giovani. È un bisogno d’informarsi? È in qualche modo la proposta – l’idea – di un’altra concezione della politica? È un film politico in effetti, e forse l’Italia della disinvoltura qualunquista ricomincia a sentirne il bisogno. 
Gianni Amelio, Hammamet

lunedì 13 gennaio 2020

Problemi di base di piazza - 533

spock

Tutti per Suleimani e tutti contro gli ayatollah?

Perché la piazza spiazza?

Perché la piazza si scatena, è incatenata?

E si temono le reazioni della piazza – è la piazza reazionaria?

O non si scende in piazza per passare il tempo?

E quando la piazza è pulita?

“Perché mettersi in piazza” – Manzoni?

spock@antiit.eu

Gide miglior lettore di Proust

A un primo rifiuto sbadato di “Dalla parte di Swann”, in qualità di lettore della Nrf, la casa editrice sua e di Gallimard, Gide fa seguire dopo il successo della pubblicazione con l’editore Grasset una lettera di ammenda con grandi lodi. È l’inizio di una corrispondenza tra i due scrittori. Tutta ammirativa, da una parte e dall’altra. Proust sempre profuso, Gide sintetico e netto.
La parte di Gide, quella restante, è minore nel carteggio. Ma acuta. “La scrittura di Proust è”, non dispiaccia ai Goncourt, “la più artistica che io conosca”. Per “la sovracutezza dello sguardo interiore”, per “l’arte magica che si impadronisce di quel dettaglio per offrircelo incantevole di freschezza e di vita”, eccetera. Un prontuario di quello che sarà il proustismo è nel “Biglietto a Angèle”, una breve saggio in forma di lettera che Gide pubblicherà nel 1921, qui incluso. Sull’arte della frase lunga: le “parole-supporto”, l’“orchestrazione”, il gioco fra “i diversi piani”, la “gratuità”, la costruzione come “una foresta incantata: fin dalle prime pagine vi ci si perde, e si è felici di perdersi”. Entrambi si ricordano reciprocamente Balzac, trascurato dai loro critici.
Charlus Gide opina, non contrastato, sia modellato sul barone Doasan – con una lode-riserva: “Il signor de Charlus è uno stupendo ritratto, con il quale avete contribuito alla confusione che si fa di solito tra l’omosessuale e l’invertito”.
Lettere di un altro mondo, appena un secolo fa.
Nel sottofondo, alluse ma non dette, la diversa posizione politica, e la condivisa “diversità” – omosessualità. Nella prima lettera Gide si scusa della disattenzione con un quasi insulto: vi conoscevo, dice, come un fatuo collaboratore del “Figaro”, “vi credevo – devo confessarvelo? - «dalla parte dei Verdurin»”. Proust cerca la Nrf, anche dopo il rifiuto, e sempre proponendosi per una prima edizione a spese sue, perché la nuova editrice è progressista, e più nell’onda. Gide aveva avviato il cammino che ora Proust intraprende quindici anni prima, firmando, contro il parere di parenti e amici, la petizione Zola a favore di Dreyfus – e quindici anni dopo finirà comunista. Proust arriva al guado confuso: a Gide vanta e propone i suoi vecchi amici, di destra, Lèon Daudet, l’ “Action Française”.
Marcel Proust, Lettere a Gide, SE, remainders, pp. 78 € 6


domenica 12 gennaio 2020

Due o tre cose che (non) si sanno sull’Iran


L’Iran non è un paese arabo. Bisogna dirlo? Sì. E fa differenza? Sì, se ne differenzia in modo radicale, per molti aspetti.
È una società urbana, anche se disseminata sparsamente sul territorio. Istruita. Islamica ma non nemica del mondo. Con un forte senso della cultura – della storia. E con un forte realismo - ben cosciente che non può, e comunque non ha interesse, a fare la guerra agli Stati Uniti, come si crede.
L’Iraq, che si differenzia dall’Iran per una consonante, è all’estremo opposto: una società tribale. Come la Libia nel Mediterraneo, a fronte dell’Egitto - anche della Tunisia.
Gli ayatollah, che governano l’Iran da quarant’anni, sono sicuramente una teocrazia, dalla mano dura, anche se si fanno eleggere. Ma sono persone colte, che amano discutere. Hanno posizioni anche diverse e perfino opposte, su problemi specifici e in generale, anche sul regime, e le fanno valere: tra di loro si rispettano. Il loro governo si può assimilare in Italia a quello degli Stati della chiesa.
In Iraq i capi sciiti, specie quelli che si rifanno agli ayatollah, sono dei ras politici, prevalentemente a base tribale.   
In Iran c’è uno Stato. Un governo che governa, una polizia, le forze armate, in un disegno politico. In Iraq, come in Libia, no. Ci aveva provato Saddam Hussein, e in Libia Gheddafi, ma li hanno abbattuti – l’Occidente li ha abbattuti in nome della libertà, tribale.  
L’Iran è la Persia, di cui eredita la storia - in parte, anche inconsciamente, la fa valere. Quando l’impero persiano è finito, sotto i colpi di Alesandro Magno, dominava una buona metà del mondo conosciuto, dal Mediterrano, Grecia esclusa ma Egitto compreso, fino all’India e nell’Asia centrale. La sconfitta non cancella la Persia, la comunità di cultura e storia. Che è riemersa quale parte intelligente, e spesso dirigente, dell’islam, anche se non ne ha mai ospitato nessuna delle dinastie imperiali – ha avuto ancora re ma non conquistatori.
L’iraq vanta un passato forse ancora più impressionante, l’area dei fiumi, la Mesopotamia: Sumeri, Babilonesi (nella babilonese Ur nacque il padre Abramo), Assiri, poi parte pregiata dell’impero persiano, di quello romano, poi sede per cinque secoli dell’impero islamico abbaside, dal VII al XIImo. Poi più nulla. Il nome deriva dal persiano, per “terre basse”, in raffronto all’altopiano iranico. Con una popolazione sparsa, di 40 milioni. Regolata dalle tribù, dalla creazione dopo la prima guerra fino a oggi. L’Iraq è non meno ricco – non più povero - dell’Iran: il il reddito pro capite medio nei due paesi si aggira sui 5 mila dollari l’anno. Ma senza governo, o Stato.
L’Iran si è risollevato col  disegno imperiale dell’ultimo scià, Reza Pahlavì. Di cui Khomeini si è impadronito, pari pari – modernizzazione forzata esclusa.
Khomeini aveva passato undici anni in autoesilio - contro la modernizzazione dello scià - in Iraq, nel luogo santo di Kerbala, ignorato. Diventò Khomeini in Francia nel 1978, protettto dai servizi segreti francesi, che ne diffusero anche il verbo, attraverso audio e videocassette. E abbatté lo scià, filoamericano.

Non c’è amore senza sesso

Nel film che Pasolini ne ha tratto, 1962, Moravia e Musatti inquadrano, all’inizio e alla fine, una serie di incontri-conversazioni dello stesso autore con vari personaggi, senza nome e di nome, sul sesso. Sulla pratica e il senso del sesso. Non del tipo confessionale naturalmente: senza colpa. E nemmeno in privato, in confidenza, fuori: in treno, al bar, sulla spiaggia, in campagna all’aperto i contadini. Con toni perentori – non inquisitori, Pasolini è gentile, ma non conversa (celia, ammicca, perifrasa).
In realtà non conversazioni ma una serie di imbarazzi. Nessuno vuole raccontare di come fa o pensa al sesso, non a lui, non allo scrittore e regista, non davanti alla macchina da presa. Chissà cosa avrebbero detto se richiesti, per esempio i contadini, di altre cose anche non tanto intime, da estranei per quanto di gran nome, accompagnati da operatore, macchinista, aiuto macchinista, pareti antiriflesso, fari, generatori rumorosi e ingombranti, tutto il trambusto che il cinema richiede.
Pasolini non ci pensa. Trova tutti reticenti, ricchi e poveri, intellettuali e ignoranti. E con l’aiuto delle due M finisce per dire al solito gli italiani, anche per questo verso, brutti, sporchi e cattivi. Ipocriti, ignoranti, razzisti, sessuofobi (gli italiani?).
“La furberia e l’arte di arrangiarsi sono poi in fondo l’unica filosofia italiana”, è anche qui la filosofia di Pasolini. Musatti veramente no: a Moravia in terrazzo obietta che di fronte alla cinepresa “la gente o non risponde o risponde il falso” – oppure si atteggia, perché no, a tutti piace recitare, il palcoscenico, l’esibizione. Ma solo Moravia per la verità sembra credere al cinema-verità. Pasolini, che sembra praticarlo, è sornione. Vuole dare scandalo, piccolo, minimo, e lo dà. Della sua idea dicendo “una sorta di crociata contro l’ignoranza e la paura”.
O non sono questi gli argomenti eterni dei sessuologi, sia pure analisti – altrimenti che ci stanno a far e? Li ripete pari pari oggi, sul “Robinson” di “la Repubblica”, la professoressa Chiara Simonelli conversandone con Massini: “Siamo reticenti, preferiamo le mezze bugie. Ne derivano stereotipi e,  peggio, omofobia e femminicidi”. O: “Il linguaggio dell’insulto ci consegna due archetipi fortissimi: l’uomo è coglione, la donna puttana. Già questo ci dice molto”. Già. Anche dei sessuologi.
Si dice di Pasolini che era un mini-D’Annunzio, in ritardo – fuori epoca. In realtà ha raccolto, scientemente, proprio di mestiere, giornalisticamente e autorialmente, l’eredità di Malaparte. Che qui si vede plateale, oltre che nelle rubriche giornalistiche del tipo “Battibecco”. Di un dannunzianesimo prosastico: legato alla realtà, all’attualità. Sui toni savonaroliani, del contraddittore.
Un libro per il resto da collezione. Con un saggio di Cerami e uno di Foucault, e un articolo di Dario Argento. A cura di Graziella Chiarcossi - che nel film interpreta l’unica scena non documentaria, quella finale del matrimonio con l’abito bianco - e Maria d’Agostini. Con le fotografie di Mario Dondero, che hanno servito per il documentario, e quelle di Angelo Novi, da molti anni non più in circolazione. Con i dialoghi e materiali prepatori – non era meglio un dvd col film, e le foto di scena di Novi e Dondero, o se ne sarebbe vista la pochezza?
Pier Paolo Pasolini, Comizi d’amore, Contrasto, pp. 200, ill., € 19,90