Giuseppe Leuzzi
“Guardare
le cose dal fondo, con leggerezza, può riservare sorprese. È un modo per
risolvere problemi complicati, a volte perfino per trovare la felicità”. La
citazione è di un non-personaggio, non autorevole, Serena Malabrocca. Ma una
che se ne intende: suo nonno era Luigi Malabrocca, ciclista al tempo di Coppi e
Bartali. Famoso per farsi un’arte di arrivare ultimo al Giro d’Italia, nella
leggenda della “maglia nera” trovando una miniera, di tifosi e sponsor.
Essere
maglia nera non è una soluzione, e non può dare felicità. Ma guardare con
distacco sì.
Il populismo è
nato a Milano
Si
producono studi, convegni, talk-show, enciclopedie sul populismo. Sulla
riduzione della politica alla lagna, ammantata di rivoluzione, che ammorba
l’Italia. Senza rilevare che è nato, elaborato, diffuso, imposto a Milano e da
Milano. Dalla Lega, che diventò subito la beniamina di Milano 1, la
circoscrizione elettorale dei più ricchi e intelligenti d’Italia, e il secondo partito
lombardo così, per l’uzzolo, quando ancora non si sapeva di che razza era. E da
Mani Pulite, imbroglio populista dichiaratamente bieco (“giustizialista”)”, che
è stata elaborata e gestita da giudici meridionali, Borrelli, Di Pietro,
Davigo, D’Ambrosio, De Pasquale, Ielo, Ilda Boccassini, la nemica di
Berlusconi, ma è pur sempre un fenomeno milanese – ben lombardo era il giudice
esecutivo, quel’Italo Ghitti non abbastanza celebrato, che emetteva ordini di
carcerazione in fotocopia.
È
stata Milano per prima e con più costanza a volersi “liberare dalla politica”.
Anche di milanesi eminenti, di Craxi prima e di Berlusconi poi, altrove non
odiati. Che ha voluto pedinati, intercettati, indagati, condannati, senza
appello. Con la pretesa di una rivoluzione. Che è il populismo.
Si
deve a Milan anche il fascismo.
Anche
il socialismo, ma fino a un certo punto, condiviso con Genova, Napoli, l’Emilia.
Era borbonico il
colera in Sicilia
“È
stata la monarchia sabauda, subito dopo l’unità nazionale, a creare l’idea di
un’omogenea geografia economica e sociale
del Sud, dal Molise alla Sicilia”, Maria Attanasio, “Le colonne scellerate” (in
“Cinquanta in blu”). Vero. E la Repubblica no?
“Nella prima metà dell’Ottocento la parola napoletano nell’isola (la Sicilia,
n.d.r.) era sinonimo di un odioso accentramento politico e di un monopolio
economico che, privilegiando le manifatture della Campania, danneggiava tute le
classi sociali”, id.
Da
qui anche una certa paranoia, o idea del complotto. A giugno del 1837 ci fu
un’epidemia di colera, anche allora asiatico. “In Sicilia”, racconta Attanasio,
“il colera asiatico diventò borbonico, Per sciagurata credenza, ma anche per
politica malizia di un’élite di liberali ideologicamente variegata. Costituzionalisti,
sparuti simpatizzanti della ancora neonata e repubblicana Giovane Italia, e
soprattutto indipendentisti, trovarono nel colera veleno un’unitaria e
populistica parola d’ordine: sua maestà il re delle Due Sicilie il mandante,
che attraverso occulti diffusori avvelenava cibi, acque, aria”. La casa dunque nasceva
male da entrambi i pizzi.
La Lega eletta in
Calabria
Non
c’è solo Salvini senatore della Calabria: la Lega ha radici solide nella
regione più disastrata e disprezzata. Vincenzo Sofo, bello e famoso già come
fidanzato di Marion Le Pen, e oggi come uno dei tre italiani che subentrano agli
europarlamentari britannici dopo la Brexit, è un calabrese di Milano che si è
fatto eleggere per la Lega. In Calabria.
Sofo
è in realtà un milanese, che ha riscoperto la Calabria dei genitori per farsi
eleggere a Strasburgo, d’accordo con Salvini. Spendendo in Calabria un solo
mese, ha raccolto 20 mila preferenze. Miracolo di Milano.
Però,
sempre Sofo, conosce la Calabria – l’avrà imparata dai suoi. A Concetto Vecchio
spiega su “la Repubblica”: “In Calabria
tutti ti chiedono «chi sei?» e «a chi appartieni?» Una sospettosità
ingiustificata?
In
realtà il Sud non ha difese.
Forse
è anche vero quello che “la Repubblica” fa dire a Sofo nei titoli: “Sono un
talebano, sovranista e calabrese”. La confusione c’entra pure: nel 1861 non ci
fu plebiscito unitario più ampio di quello della Calabria, il 99,99 pe cento.
Aspromonte
Grazie
alla “Chanson d’Aspremont” che l’ha tenuto a battesimo, adattamento normanno
del ciclo provenzale poi volgarizzato, col “Guérin Mesclin”, da Andrea di
Barberino e sicuramente nota a Ariosto, era terra di eroismo, nobiltà,
sacrificio, e non di vendette, rapimenti, ferocia, mafie.
Notevolmente, anche pericolosamente,
imbruttito dalla protezione dei Forestali. Piantumati gli alpeggi, con cui la
montagna respirava. Di specie non autotoctone, canadesi, nordiche. Infittite e
mai ripulite le pinete, tutte malate. Rifugi sbarrati, o devastati da decenni.
I film ne hanno sempre trattato come di
un luogo inaccessibile, tenebroso. Mentre il suo bello è di essere una montagna
aperta, dall’orizzonte libero, guardando da tutti i pizzi verso il mare.
Gli ultimi due, “Anime nere” di Munzi e
“Aspromonte – la terra degli ultimi” di Calopresti, che pure dovrebbe conoscere
la Montagna, se è nato a Polistena, ai suoi piedi, ne fanno un mondo buio, di
gente immiserita, abbandonata, sporca, disperata. Mentre è piena di luce.
Succede di passare, rifacendo il
sentiero di ritorno, accanto a una pozza del torrente ancora bianca di calce.
Ieri sera, nel passaggio di andata, s’incrociava nello stesso posto, sotto il
sentiero, una jeep dei Forestali.
La montagna su tre mari – in realtà due,
Jonio e Tirreno, ma dal Montalto se ne vedono tre. La montagna d’estate senza
pioggia – giusto quanto serve ai funghi.
Col mare e la Magna Grecia a mezzora di
macchina.
I
luoghi parlano, si sa. E hanno un’anima, anche se non si sa che cosa l’anima sia
– è cosa complessa, multistrato, in espansione. Hanno personalità tanto forte
che alcuni muoiono se ne sono separati, della stessa malinconia che si vive per
un essere umano molto amato che sia svanito oppure lontano. E di personalità
tanto varia che basta il diletto della loro compagnia per un tempo anche
limitato, il ricordo permanendo durevole, e vivace. Con espressioni anche diverse per ogni parte
del luogo, o per ore differenti o stagioni: un luogo si fa amare in tutte le
ore e in tutte le congiunture, anche nelle disgrazie. Malgrado - nel caso -
terremoti, venti, tempeste, nebbie, e altri inconvenienti geoclimatici. Si è ricostruito
dopo terremoti catastrofici.
Si
passa dai luoghi dei giganti, pinete a perdita d’occhio, al bosco delle ombre,
i faggi di Orazio, che a novembre si tingono di rosso, alle abetaie aperte. Ma
con un senso di continuità. Di una vegetazione, anche fitta, che unisce e non
isola.
Il
pastore (padrone di greggi) Nazzareno conosce della Montagna ogni piega e ne
sente l’aria, i venti, gli odori. Venendo dalla modernità, con la Panda-Jeep,
il giornale sotto il braccio, seppure d’ieri, la giacca di acetato, lavabile,
ingualcibile, la mungitura, il rito mattutino dell’impanata, il trasporto del
latte, la contrattazione, l’ananke
quotidiana, si tiene fuori dal mondo. La calpesta con lo stesso passo, stabile,
come levitasse sulle asperità. Ne è padrone, della natura, come un antico dio.
Parla all’arbusto, all’albero, al fiore, al lupo che lascia le tracce e si
nasconde, all’aquila, che forse è una pojana.
Vagando
per la montagna, la anima in ogni piega delle avventure di Guerrin Meschino, lì
è il castello, lì la fata, lì la strega. Che potrebbe avere appreso in carcere.
Pare che abbia avuto da ragazzo un omicidio.
Antonio il destino avverso, che gli ha impedito il
mestiere del carpentiere, lo ha obbligato al suo sogno di sempre, la guida nel
parco. Il suo liquido amniotico. Anche in senso proprio, è il maggiore esperto
delle sue acque, ne conosce ogni rivolo. E si può dire che nella Montagna
navighi. Tra i monti e le valli chiuse, e improvvise, aperte radure, sul cielo
e sul mare, lontano, laggiù lungo la linea della costa. Dove procede solo,
sempre, anche in gruppo, anche in camionetta. Dentro l’aria, gli odori, la luce
mutevole e parlante. Come uno degli antichi dei, che ha letto erano
nell’arbusto, nella foglia, nel fiore, nell’albero, negli animali del bosco che
si nascondono. Nel falco, nella pojana, o è il pecchiaiolo, che ha nidificato
sul costone, inaccessibile, e vola lungo le pareti a lente ampie volute, e si
fa scambiare per l’aquila.
Effetto
anche dell’amanita muscaria, “sbucciata”, tagliata a strisce sottili, per
evitare un effetto ingombrante, devastante?
leuzzi@antiit.eu