È
il caso più grave dell’epidemia in Europa. Nelle regioni leghiste per
eccellenza, Lombardia e Veneto. Un caso di giustizia, la vendetta dei cieli –
“quod Deus vult perdere dementat prius”? Il clima non è da “Pane, amore e…”, non
c’è da ridere: Lombardia e Veneto hanno creato un’emergenza, a rischio
epidemia, e c’è solo da lavorare sodo per scongiurarla. Ma è inevitabile, e il
latinorum sarà fatto presto valere, al voto tra un mese: a quelli che vuole
rovinare Dio toglie prima la ragione.
sabato 22 febbraio 2020
La peste è leghista
Salvini
non aveva finito di annunciare la denuncia della regione Toscana, la denuncia
in Tribunale, per mancata quarantena dei cinesi di Prato, dopo le accuse del
virologo del San Raffaele di Milano, Burioni, che la Lombardia è emersa
focolare del coronavirus in Italia. Insieme con il Veneto. Con i primi morti e
decine di casi acclarati. Per manifesta imprevidenza e incompetenza.
La sindrome lombarda
Sabato
22 febbraio 2020, il giorno della nuova peste in Lombardia il “Corriere della
sera” apre a tutta pagina: “Il virus in Italia: un morto in Veneto”. Milano e
dintorni confinando a quattro parole in un affollato “catenaccio”: “In
Lombardia 15 casi”.
Non
è un infortunio, è calcolo e modo di essere. La spazzatura che la Lombardia
produce , abbondante, va buttata al piano di sotto. Si è tentato con la
Toscana, ora vediamo.
Se
è lecito sorriderne, il “Corriere dela sera” di oggi era già nell’allegro
Malaparte di “Benedetti italiani”: “Quando c’è qualche accusa da muovere agli
Italiani,sempre quelli di su la scaricano sule spalle di quelli del piano di
sotto”, e aggiungeva “specie i lombardi” – che “parlano a voce alta, speso
gridando”. Era la Lega, ma lo scrittore non poteva saperlo: era un modo di
essere.
L’epidemia
lombarda è raccapricciante per imprevidenza e incompetenza, ma anche per
leggerezza. A Roma, con le precauzioni, il contagio si isola, e si guarisce
anche, a Milano e nel Veneto il contagio si diffonde.
L’eros nella rete
Un’altra vittima del
“proibizionismo licenzioso” che si è instaurato nel Millennio, col porno libero
a cascata e il proibizionismo femminista-lgbtq. Il contenzioso – le storie
d’amore – lasciando agli avvocati. Storie di ieri e già fuori corso, l’erotismo
e la fantasia erotica - niente più fantasie, niente più eros: se proprio è necessario,
un colpo e via.
Anche Manara sembra soffrirne.
Il tratto è lo stesso, leggero, le fantasie eccessive, anche estreme. Come un
vaffa al genere.
Tre storie. La prima, “Rivoluzione”,
doppiamente classica. La rivoluzione per la poltrona – per cambiare sedere sulla
poltrona. Un’avventura al termine della quale la pasionaria, la “donnina”
manariana scosciata, mentre i compagni si trasformano in baffute presenze
carrieristiche nella sempiterna tv, lascia uno spiraglio alla speranza: la tv
si può spegnere e fare altro, anche leggere i fumetti. Una storia
tradizionale.
La seconda, “Tre ragazze
nella rete”, anch’essa del 2000, è
invece visionaria, anticipando il tempo dei social e della realtà fake. Con la critica, già ventanni fa:
chi tir le fila, le ragazze in rete o lo sponsor di cui sono testimonial e
merce? Ma ha bisogno del sesso estremo, della violenza – per ridere, ma anche
no, per soffrire.
Una storia sul genere del noir, con omicidio, occultamento, e
sorpresa finale. Profetica, ma basata sulla rivisitazione delle nozioni ormai
remote sull’eros e il pudore: esibirsi in video è un modo “pulito” di
prostituirsi o un modo nuovo di vivere la sessualità? La risposta non è difficile
– la storia è in realtà di un lesbismo furioso (altre tavole fuori testo in materia
accompagnano la pubblicazione), e di voyeurismo al quadrato, di voyeurismo anche
nel soggetto, oltre che nella lettura-visione.
La terza storia, “Chris Lean”,
1977, su testi di Raffaele D’Argenzio, per il “Corier Boy”, successore del “Corriere dei piccoli”, è l’evocazione di un
tempo ormai arcaico delle strisce, un fumetto mezzo western, con facce e modi
riconoscibili dal cinema. È il debutto di Manara: l’anno dopo scriverà e
disegnerà il suo “H.P. e Giuseppe Bergman”, il primo della serie, la prima
striscia tutta Manara. Milo Manara, Potere
alla tv, Panini, pp. 144, ll. € 11
venerdì 21 febbraio 2020
Il mondo com'è (396)
astolfo
astolfo@antiit.eu
Capitalismo
– Si dibatte se il “declino americano” non
dipenda dall’assenza di sfide militari globali. L’assunto è semplice: gli Stati
Uniti sono cresciuti come superpotenza economica con le guerre del Novecento:
le due guerre mondali, quelle di Corea e del Vietnam, seppure non vittoriose, quella
del Golfo, e quella agli armamenti nucleari.
Il “declino americano” vuole una precisazione:
non è un fatto, è un “discorso”, e sono gli americani che lo fanno, i grandi
interessi del capitale per primi – con il supporto dei (pochi) marxisti
dogmatici, teorici eterni del declino. Quindi può essere uno schema di discussione
e non uno sviluppo. Così è stato in passato in più casi: la non convertibilità
del dollaro e la crisi del Vietnam, la crisi petrolifera, la presa iraniana
degli ostaggi e la fine del controllo del Medio Oriente, la stessa
globalizzazione – che però è stata teorizzata e imposta dagli Stati Uniti.
Se il capitalismo non dipenda dalla guerra
è però un filone teorico, anche robusto, tra Otto e Novecento – prima della
Grande Guerra. L’economista Lujo Brentano, professore a Breslavia, Strasburgo,
Vienna e Lipsia, “socialista cattedratico” (riformista), commissario del Popolo
al Commercio nei pochi giorni del governo rivoluzionario dello Stato popolare
di Baviera nel dicembre 1918, la teorizzava motore del progresso. Dei salti
tecnici e di accumulazione che costituiscono il progresso. Analogamente
teorizzata, seppure in ambito letterario e non economico, da Ernst Jünger
subito dopo la Grande Guerra, da lui per primo letta e rappresentata come “guerra
dei materiali” – della produzione: chi più produce vince, e quindi per vincere
bisogna soprattutto produrre.
Una tesi non dimostrata ma plausibile.
Paul Samuelson, il primo studioso americano premio Nobel per l’Economia, ne ha
abbozzato un calcolo reale, basato sull’economia di guerra, nel volumone
“Economics. An Introductory Analysis”, 1948 - per molti anni testo base nelle scuole di Economia.
La “guerra dei materiali” è comunque uscita dalla letteratura, è ormai la sola
guerra possibile. In collegamento sicuro, seppure oscuro, col benessere: il
Novecento, il secolo del grande balzo mondiale verso la ricchezza, è stato anche
un secolo di grandi e continue guerre – la prima e la seconda guerra mondiale,
le guerre di Corea e del Vietnam, e soprattutto la guerra dei materiali per
eccellenza, quella non combattuta, ma con un armamento fuori da ogni misura, la
guerra fredda nucleare, dissuasiva o di deterrenza, con formidabile
armamentario missilistico.
Revisionismo
– Non si è ancora esercitato sulla seconda
guerra mondiale, dopo tre quarti di secolo. Ma urge. Non vi si è ancora
esercitata la storia accademica, se non nel primo dopoguerra, con l’americano
Charles Beard, intellettuale molto di sinistra, pacifista e isolazionista, e
l’inglese A.J.P.Taylor – mentre peraltro a Londra in Parlamento, sia ai Comuni
che alla camera dei Lord, si discuteva della moralità e anche della liceità dei
bombardamenti “terroristici” come li aveva voluti il maresciallo sir Arthur
Harris per la Raf, notturni, massicci, ripetuti e indiscriminati contro le
popolazioni. Ma, seppure solo nei giornali e in forma di reportage, di com’eravamo e cosa è successo, le tracce revisioniste
sono state aperte. Con una curiosa inversione dei ruoli, si può osservare, rispetto
al primo revisionismo: Beard e Taylor, accademici, si trasformarono dopo le
loro contestazioni accademiche, in polemisti mediatici. Oggi sono dei
giornalisti che scrivono memorie e ricostruzioni.
Beard e Taylor, va aggiunto, criticavano
da sinistra. Beard finì per dare la colpa della guerra a F.D.Roosevelt da
pacifista incondizionale e isolazionista. Taylor era laburista impegnato, molto
apprezzato nel partito - da storico diplomatico aveva esordito come
italianista, “The
Italian Problem in European Diplomacy 1847-1849”.
La materia in contestazione è ampia. I bombardamenti a tappeto, quotidiani, notturni, senza
distinzione di obiettivi, che hanno segnato la seconda guerra, sono campo
praticamente inesplorato in Italia e in Giappone. Sarebbero pretesto fertile di
narrazioni e immagini, ma sono ignorati. Una trascuratezza che va molto,
troppo, al di là della disattenzione. Si direbbe per un senso di colpa
introiettato, avallato senza riserve in Italia e in Giappone. Non in Germania,
malgrado le dichiarazioni pubbliche.
In
Germania i bombardamenti sono stati materia di molte narrazioni, e sono ora
materia di ricerca.
La materia del revanscismo è in Germania enorme. Gli
sfollati dalle regioni orientali annesse alla Russia e la Polonia: Prussia,
Slesia, Galizia. I bombardamenti, al fosforo, a tappeto, sterminatori. La resa
incondizionata. Lo stesso tribunale di Norimberga. E si accresce con tempo -
una montagna vulcanica. Mentre si tace, ma prevedibilmente non ancora per
molto, della immensa pubblicistica anteguerra contro i “trattati periferici
parigini”, i trattati di pace di Versailles e viciniori, già recepiti come
“iniqui” da tutti gli studiosi
tedeschi di diritto internazionale e di filosofia del diritto.
Il revisionismo
del resto è inevitabile. Sullo sterminio si evita, ma solo per opportunismo.
Mentre si lavora alacremente sui bombardamenti “totali”, sulla capitolazione
(resa senza condizioni), sulla mutilazione delle regioni orientali, con 12
milioni di profughi, e sulla divisione e occupazione militare del Paese, per 45
anni. Già Hannah Arendt un cinquantennio fa (“Sulla rivoluzione”), benché
ebrea, perseguitata e espatriata, consigliava di considerare il conflitto “una forma di guerra civile che
abbraccia la terra intera”.
Tratta
degli schiavi – Fu per molti secoli islamica, e poi africana.
I primi mercanti europei (portoghesi) si registrano nella seconda metà dl
secolo XVmo. È a partire da fine Cinquecento-primo Seicento che la tratta degli
schiavi transatlantica, a opera di trafficanti europei verso le Americhe,
diventa predominante. Per due secoli. L’atlante della tratta che Paul E. Lovejoy
ha costruito in numerose tabelle della sua “Storia della schiavitù in Africa”
dà il traffico atlantico predominante dal 1500 al 1800 – quando si vanno le
leggi abolizioniste della tratta.
Il Settecento è stato il secolo europeo
più schiavista, il secolo dei Lumi. Su 11 milioni 660 mila schiavi
“trattati” dal 14500 al 1800, il 75 per cento, otto milioni 710 mila, fu
destinato alle Americhe. Nel Cinquecento la percentuale era molto inferiore, il
31 per cento - il 69 per cento andava al Nord Africa e al Medio Oriente. Nel
Settecento, su sette milioni 795 mila schiavi conteggiati, l’83,3 per cento
risulta destinato alle Americhe, sei milioni 485 mila.
Nella tratta europea si distinsero gli
inglesi. Sempre nel Settecento, il secolo della tratta europea massima, i
trafficanti inglesi trasportarono due milioni 545 mila schiavi, il 39,1 per
cento del totale. Seguiti dai
portoghesi, col 34 per cento, due milioni 323 mila, dai francesi col 17,5 per
cento, un milione 139 mila, e a distanza da olandesi (5,1 per cento),
nordamericani (2,9), danesi (1), spagnoli (0,2).
L’abolizione s’impose tra fine Settecento
e i primi del Novecento. Gli Stati Uniti misero fuori legge la tratta nel 1791 e nel 1794, ma dovettero aspettare la guerra civile 1861-1865, per eliminarla, di diritto e di
fatto. In
Gran Bretagna, che ne era stata il maggiore trafficante, la schiavitù abolita
nel 1807. In Francia era stata decisa dalla Convenzione, nel 1794. La Danimarca, anche anch’essa traffichicchiava in schiavi, la abolì
nel 1802.
Ma vari schemi si adottarono per
continuare il traffico malgrado le leggi. In misura ridotta, ma per lungo tempo
endemica. La Francia restaurò la schiavitù con i Napoleoni. Con Napoleone
Bonaparte scopertamente. Con Napoleone III, quindi nel secondo Ottocento,
nominando diversamente gli schiavi – come già si faceva in Brasile e nelle
colonie africane del Potogallo (gli schiavi erano ora chiamati libertos, serviçaes, livres, ingenuos).
Lo stesso in medio Oriente: Turchia ed Egitto
abolirono per decreto la tratta attorno a metà Ottocento, ma la continuarono in
vari modi, fio alla Grande Guerra.
In Africa centro-occidentale l’abolizione,
a opera delle autorità coloniali, francesi e britanniche, si fece per piccoli
passi, come in India, per non sconvolgere gli assetti economici. Nacque anzi
nei decenni successivi alla colonizzazione un grande mercato di schiavi
nell’oceano Indiano, a Zanzibar e Pemba, a opera del sultano dell’Oman che
possedeva le isole, per coltivarvi i chiodi di garofano, di cui il mercato era
fiorentissimo.
Per tutto il secondo Ottocento, e ancora
ai primi del Novecento, missionari e colonie o protettorati europei in Africa
centro-occidentale furono centri di rifugio per schiavi fuggiaschi da famiglie
e potentati africani. Le cui proteste costrinsero missionari e amministrazioni coloniali
a pratiche restrittive delle fughe e a sottili argomentazioni giuridiche per
giustificare l’accoglienza.
La Liberia, creata nel 1821 come colonia
di ripopolamento con gli schiavi americani liberati, vide arrivare nel primo
decennio pochissime navi, e appena 1.430 afro-americani. Un po’ di più ne
arrivarono nel decennio successivo, ma il totale fu di 5.722 schiavi liberati.
E la maggior parte di questo non proveniva dagli Stati Uniti ma era stata
prelevata di forza da navi americane nel golfo di Guinea dai mercantili che li
avevano a bordo e sbarcati in Liberia.
La pratica di prelevare militarmente gli
schiavi dalla navi negriere era stata avviata dalla Gran Bretagna dopo le leggi
per l’abolizione della schiavitù. A loro fu destinato un insediamento in Sierra
Leone, già protettorato britannico. Gli schiavi liberati dalle navi negriere e
sbarcati in Sierra Leone furono circa 160 mila tra il 1810 e il 1864. Diecimila
di essi furono liberati e sbarcati dalla marina americana e da quella francese.
Ma le leggi e gli sbarchi, britannici,
americani, francesi, non intaccavano il regime schiavista in Sierra Leone: la
schiavitù vi continuò ancora a lungo. Il nome beneaugurante della capitale,
Freetown, si applicava solo agli schiavi liberati dalle navi europee. I
potentati e l’economia locale continuarono a utilizzare gli schiavi. Il commercio
degli schiavi fu abolito in Sierra Leone solo nel 1896. La schiavitù fu posta
fuorilegge solo nel 1926.
astolfo@antiit.eu
Il senso perduto del pudore
Non
c’è più. Il pudore – e non c’è nemmeno il sesso, appena uscito dalle catacombe. Non
per effetto di repressioni o censure, ma piuttosto di autocensura (silenzio),
al punto dell’indifferenza. All’improvviso, con l’età dell’acquario. O di
internet, dove addirittura l’osceno si esibisce.
Il
candidato sindaco di Parigi ricattato mentre si masturba fa notizia perché è
amico di Macron ma non per la cosa - non è un eccentrico, è uno dei tanti. Il revenge porn è un crimine perché è
diffusissimo, diffondere immagini spinte di qualcuno, più spesso di qualcuna, lo
fanno tutti. E si condanna non l’immagine in sé, o il furto di essa, ma
l’esibizione a fini ricattatori, se ci sono. Ed è difficile da dimostrare perché
il ricatto è anch’esso slegato dall’osceno, difficilmente collegabile: non essendoci più osceno in luogo pubblico, resta solo da percorrere la traccia dei soldi.
L’esibizionismo è anzi di colpo diventato la norma. Non
c’è altra contesa, le immagini e i messaggi circolano autoprodotti e messi in
rete liberamente, con ansia anzi da prestazione. Non sono rubate, sono inviate
con preghiera di diffusione – i likes fanno aggio su tutto.
L’impudicizia è la
norma, e titolo di merito. Non c’è il pudore neppure in “senso eccezionale”, non
comune - l’unico argine è il politicamente corretto, la forma suprema di
ipocrisia.
Marta
vede in atto una controffensiva di bacchettoni contro l’amore libero. Ma allora
per un senso del pudore come senso del desiderio. Allo stato i bacchettoni non
hanno nulla da temere.
Marta
Boneschi, Il comune senso del pudore,
Il Mulino, pp. 204 € 15
giovedì 20 febbraio 2020
Ombre - 501
La
ministra dell’Interno di Boris Johnson odia - lo dice ridendo in tv - gli
europei, gli irlandesi e gli scozzesi. È indiana, figlia di immigrati.
La
ministra Pratel è figlia di indiani dell’Uganda. Degli indentured servants, come gli inglesi chiavano gli schiavi dopo
l’abolizione della schiavitù, che a fine Ottocento furono deportati nell’Africa
di Sud-Est, per lavorare alle ferrovie. Oppure di “baniani”, i mercanti dell’oceano Indiano prima della colonizzazione, che
l’Africa delle indipendenze si applicò a
espellere. Non un grande pedigree: si
dice l’Inghilterra tornata imperiale, ma con le cioce?
“Le
aziende green crescono di più”. Innaffiate coi soldi pubblici. Specie le
colture “bio” – molto salutari per proprietari e produttori.
“La
prima pietra della metropolitana di Riad, la capitale dell’Arabia Saudita, è
stata posta nel 2013. Sei le linee realizzate, per un totale di 179 km., aperte
nel 2019”. Da raccontare a Roma – a Riad cinquant’anni fa c’erano solo alcune,
poche, lampadine, penzolanti. Poi dice che l’Italia è ancora una potenza economica.
“In
migliaia in piazza a Roma contro i vitalizi”. Mille, centomila? Nessuno che lo
dica. Nessuno, probabilmente, che ci sia andato, a vedere il bagno di folla dei
dimaisti.
Un
paio di migliaia – tutti gli attivisti 5 Stelle di Roma, comandati (quelli che
sono per Di Maio).
Si
mobilitano anche i parlamentari 5 Stelle di Di Maio per la manifestazione
contro i vitalizi. Con auto blu e scorta. Abbondante, essendo tutti ministri,
vice-ministri, presidenti parlamentari o di commissioni parlamentari.
È
anche vero che i 5 Stelle non possono farne a meno, di auto blu e di scorta,
abbondante, almeno due macchine, essendo tutti ministri, vice-ministri, e
presidenti di qualcosa (Parlamento, commissione, sub-commisisone, municipio).
L’antivitalizio assicura carriera rapida.
Emozione
per i 5 Stelle in piazza a Roma. Tg tentati quasi dalla diretta, orfani delle
manifestazioni oceaniche, e comunque morsi dalla tarantola. In piazza Santi Apostoli,
che pur sgombera dalle macchine (la piazza è un parcheggio), resta piccola. Ma rettangolare,
lunga, dà facile in immagine idea di grandi folle - basta non inquadrare i lati.
Santi Apostoli veniva usata dai sindacati, per ultima la Cgil una decina d’anni fa,
per motivi di sicurezza, si diceva. In realtà per mascherare che c’erano solo i
funzionari e i galoppini.
L’assassinio
di un carabiniere sette mesi fa a Roma da parte di due americani - con undici
coltellate, non un caso – viene addossato ai carabinieri stessi dai cronisti
giudiziari di “la Repubblica” e il “Corriere della sera”. Potenza degli
avvocati difensori nominati dagli assassini, Francesco Petrelli e Fabio Alonzi.
Che non hanno grande fama a Roma, ma sono in grado di fornire dei video e
questo basta.
I
cronisti giudiziari non hanno coscienza, per definizione. Ma un’etica – un
minimo di etica – dei giornali?
Specialmente
odiosa la presentazione che ne fa il “Corriere della sera” venerdì. Il,complice
dell’assassino bendato in caserma diventa un martire, e la richiesta di
parlare, di dire almeno il suo nome, una tortura: “È inimmaginabile che in un
paese civile si possa assistere ad un simile trattamento di una persona privata
della libertà personale”, afferma l’alta autorità morale di Fiorenza Sarzanini. Leggere per credere:
Berlusconi
si rifà protagonista proponendo un governo di volenterosi con la sponda di Mattarella – per riproporre
fra un anno al Quirinale lo stesso Mattarella. Che si dimise da ministro nel
1990 contro la legge Mammì, che legalizzava le tv – si dimise per provocare la
crisi del governo, lui con altri cinque, ma Andreotti fece finta di nulla.
“Trovaroma”,
il settimanale di svaghi di “la Repubblica”, offre nella rubrica “Tavola”,
forse per san Valentino, una scelta di ristoranti che parte da 250 euro, a
persona. Con una decina a 150, un’altra decina a 100, e un’altra decina a 80.
Rincuorante: Roma è una città ricca e non lo sapevamo. O le tavole ricche hanno
sostituito le principesse?
Anche
vedere ricca “la Repubblica”, che è “una comunità”, dice Scalfari, impegnata e
benpensante, è rincuorante: l’impegno fa
crescere, anche il portafoglio?
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Il cane fedele a scuola di scrittura
National Book Award
all’uscita nel 2018 per la narrativa, è in teoria il racconto della vita con un
cane ereditato da un amico – il titolo è correttamente tradotto, l’originale è
solo “The Friend”, trattandosi di una storia di animali, di gatti e,
soprattutto, di un alano, che pesa il doppio della scrittrice. Interpolata con
quella del padrone del cane (padrone del cane suona male, va corretto), morto
suicida. Uno che era sempre stato sicuro di se stesso, e ancoraggio di molti.
Amico della scrivente da una vita, dopo un giovanile coito riuscito male.
Entrambi scrittori insegnanti a scuole di scrittura. E con storie da scuole di
scrittura. Specie quelle di sesso, che i Regolamenti anti-molestie severi
escludono, sia diretto (relazione insegnanti-alievi) sia indiretto (tema di
scrittura) – un racconto è delle studentesse che, a scuola di Scrittura,
contestano l’interpellazione o intercalare “cara” come aggressione sessuale. La
flânerie. Le mogli Una, Due e Tre del
defunto. I regolamenti condominiali, i condomini, i vicini di casa, i passanti.
E varie questioni di scrittura, di fiction
e non fiction, di scrittura in
rapporto alla lettura, di insegnamento della scrittura, di insegnamento in sè,
sempre più ristretto – mentre crescono a milioni ogni anno gli americani adulti
analfabeti di ritorno. E di best-seller,
con l’atroce racconto della giovane promessa che a metà del suo primo romanzo
vince tutti i premi per esordienti, mezzo milione di dollari, compreso
l’anticipo per il secondo romanzo, ma poi il primo, benché servito da ottimi blurb e quindi ottime critiche, non
vende, e il secondo lei non riesce più a concepirlo. Nonché i dessous dei Famosi, Rilke,
Wittgenstein.
Un divertimento, per cinofili
e non. “Trova il tono giusto e puoi scrivere quello che vuoi”, spiega(va)
l’amico morto all’autrice. Sulla traccia di Coetzee, per il quale la scrittrice
condivide l’ammirazione dell’amico morto, “Vergogna”: l’avventura di un professore
sudafricano, David Lurie, che perde il posto per l’accusa di violenza sessuale
di un’allieva che lo ha circuito. Ma poi anche questa è abbandonata, e la storia
somiglia più a una di amore, con l’amico morto e tuttavia presente a ogni curva,
per procura o per contatto col suo cane, intelligente, bello e caldo, anche se
un po’ vecchio.
Nunez - un po’ italianista,
due volte premio Roma (dell’American Academy in Roma, di cui dovrebbe essere
stata borsista ai suoi anni giovani), fan
di Natalia Ginzburg, autrice di un “Sempre Susan”, titolo italiano, sui suoi
anni in casa Sontag, segretaria di Susan e amante di suo figlio David - si
diverte e diverte. Con un non-romanzo che è una satira lieve della critica
della morte del romanzo – specialmente fiorente, pare, nelle scuole di
scrittura. Nonché dei manuali Sexual Misconduct, del training obbligato in
Sexual Misconduct, delle scuole di scrittura, e degli animalisti, a partire dai
veterinari.
Il trattamento narrativo del
cane ereditato segue quello eponimo di J.R.Ackerley, “My Dog Tulip”, 1956 - la
convivenza di Ackerley è con un cane moglie, quella di Nunez con uno marito. Nel
quadro della storia di Coetzee: la compulsione erotica, le mogli, la figlia
assente, gli animali. Che però qui è un’altra cosa: non un pastiche, proprio un’altra storia. Con un lieto fine che non è lieto.
Un libro anche di citazioni, dichiarate e non. Con qualche ripetizione. Scrivere è una religione è di Rilke o di Edna O’Brien? Ma perché non sarebbe di entrambi? Un altro motivo di garrulo spasso, le citazioni non vanno prese sul serio (assolutizzate).
Un libro anche di citazioni, dichiarate e non. Con qualche ripetizione. Scrivere è una religione è di Rilke o di Edna O’Brien? Ma perché non sarebbe di entrambi? Un altro motivo di garrulo spasso, le citazioni non vanno prese sul serio (assolutizzate).
Sigrid Nunez, L’amico fedele, Garzanti, pp. 221, ril.
€ 17,60
mercoledì 19 febbraio 2020
Problemi di base tristi - 540
spock
spock@antiit.eu
Tifare per Conte, o per Renzi?
Non c’è scelta, non c’è salvezza?
“Le aziende green crescono di più” – con i soldi pubblici?
“L’Italia è il paese con il maggiore saldo commerciale al
mondo nella vendita di giostre”, Ermete Realacci?
Non c’è più religione?
La rendita non basta più, bisogna intaccare il capitale?
spock@antiit.eu
Profezia e avvento del mondo piatto
Un testo pubblicato nel 1883,
anonimo, ignorato, riscoperto nel 1920, dopo Einstein e la quarta dimensione - il tempo. Abbott spiega il mondo a tre dimensioni, in attesa di una ancora
ignota ma possibile quarta dimensione, immaginando il mondo a due dimensioni,
in attesa di spessore. Il mondo bidimensionale è di “Linee Rette, Triangoli,
Quadrati, Pentagoni, Esagoni e altre figure geometriche”. Una superficie piana,
come una carta geografica, su cui le persone sono geometrie piatte, scivolano
senza incontrarsi, senza sovrapporsi o urtarsi. Il narratore stesso è una di
queste figura, un Quadrato.
Una lettura noiosa, dopo la
prima meraviglia. Che però Calvino, “Come scrivere chiaramente” (in “Una pietra
sopra”), dice suo personale modello, d’inventio
e di ordine o modo di scrittura. E oggi evoca un senso oscuro di realtà – forse
per questo è il libro con più edizioni in contemporanea: oltre che nella Bur, ultima della serie, da Adelphi (con una seconda edizione, traduzione di Federica Oddera e
introduzione di Claudi Bartocci, dopo quella di Masolino D’Amico e Manganelli
nel 1966), Feltrinelli, Einaudi, Bollati Boringhieri tra le case maggiori. Proponendo
non una fantasia, o un divertimento mentale, freddo, ma un modo di essere. E
non uno eccentrico o marginale, ma comune. Di un’esistenza oggi connotata o
determinata dai non luoghi e dall’isolamento, nell’epoca che pure si vuole della Comunicazione e del
Grande Mercato. Nel mutismo se non nel silenzio, e
nell’impossibilità-incapacità di rapporti. Nei luoghi a questo funzionali: la
stazione ferroviaria, l’aeroporto, il centro commerciale, l’ikea,
l’ipermercato. Ma anche in quelli ristretti e quasi personali: l’automobile, il
bus urbano, il droghiere sottocasa sempe aperto, il bar o il tabaccaio, il
pianerottolo, la stessa abitazione, e finalmente internet, che sul telefonino ci segue ventiquattro ore fedele - ci insegue accanito?
La lettura diventa a questo
punto coinvolgente, come una minaccia. Il mondo piatto è ordinato secondo una
gerarchia rigida. La casta più vile, delle donne, è ridotta a semplici righe,
con un occhio in punta, tanto da diventare invisibile - basta alle donne
girarsi per svanire. Il rango e la posizione nella scala gerarchia dipendono
dal numero di lati. I soldati sono triangoli isosceli. I sacerdoti dei circoli
quasi perfetti. Le passioni non sono assenti, ma unidirezionali – avventate,
intolleranti.
Con un lieto fine, ma amaro.
Quadrato finisce perseguitato come eretico e pazzo. Ma non prima di avere
incontrato una sfera, un extraterrestre proveniente da Spacelandia, il mondo a
tre dimensioni. La novità lo porta a ipotizzare un mondo a più dimensioni, che
c’è ma aspetta di essere scoperto.
Storicizzando, il libello
sarebbe una satira della società vittoriana.E uno sberleffo al riduzionismo
positivista. Abbott era di professione pedagogo, di una certa fama. Membro di
una commissione di studio creata per rinnovare l’insegnamento della matematica,
allora badata sulla geometria euclidea. Un racconto distopico, ma anche
pedagogico.
Tradotto da Flavio Santini
con introduzione di Massimo Marchiori.
Edwin A.Abbott, Flatlandia. Storia fantastica a più
dimensioni, Bur, pp. 130 € 10
martedì 18 febbraio 2020
Oneupmanship romana
Succede in una giornata normale di questo assaggio di primavera a Roma di essere aggrediti da
un fioraio, che vi contesta un posto di parcheggio che voi non cercate, ma non
si smonta e anzi vi mette le mani addosso, malgrado i tremori della ragazzetta
che lo serve, africana. E insiste. O da un controllore dell’Atac che emerge dalla fitta
conversazione con una vergine ammirata e vuole multarvi: lei ha timbrato dopo
che noi siamo saliti, tuona, dopo alcune fermate del tram numero 8, che va lento, mentre siete saliti insieme
con lui, alla stessa fermata, dietro di lui che ostruiva l’ingresso,
pretendendo il biglietto da chi scendeva, e non può non avervi visto, essendo voi l’unico passeggero in attesa sulla piattaforma.
Si viene
catapultati nolenti nella cronaca nera che sembra remota, conati di violenza
montando fuori e dentro – da fuori a dentro. Sarà questa la barbarie, quando la
cronaca nera esce dagli angiporti delle questure.
Anche i solleciti telefonici a cambiare operatore o gestore
hanno da qualche tempo accenti romaneschi. Non diversi dagli altri, per la
verità, ma più importuni, insistenti. E a rischio sicuro di maledizioni a
microfono spento. Mentre l’Acea, che si è impadronita dei vostri codice Pod e codice
Remi qualche decennio fa, non manca di mandarvi ogni paio d’anni fatture
minatorie – quanto serve per metterle a credito nei bilanci.
Il tutto in romanesco di periferia, come vuole il trend – eccetto l’Acea, bisogna dire:
l’Acea manda paginate avvocatesche, qualche piccola consulenza a qualche
amico\a. Conviene dirsi di periferia, è il nuovo status. Che però è sancito
dalla parlata, e quindi è discriminante: lascia senza difese.
Si è diffuso da qualche tempo nella paciosa Roma una sorta
di sfida universale contro il mondo, una oneumanship
individuale, l’ambrosiano-bossiano “ce l’ho più duro”. Contro nessuno in particolare
e contro tutti. Tutti quelli che non pongono problemi per tatuaggi, pettorali, statura,
ricchezza, turpiloquio.
Si aggirano queste “periferie”, sociali più che
topografiche, di piccola borghesia, come mandrie impazzite, in cerca di non
sanno che cosa. Hanno votato in massa Raggi, che gli ha promesso la teleferica
e gli ha tolto l’Olimpiade, per “metterla in culo” al mondo. Dormono poco, tormentati
dai debiti, che non pagano. Nell’Ottocento, prima e dopo Porta Pia, si
accoltellavano, per ubriachezza. Ora non si ubriacano ma le spese hanno molte: tatuaggi,
aperitivi, curva Sud, roadster, sfizi e scazzi, che finiscono costosi. Saranno
gli insoluti – Roma ne è sempre stata la capitale, per la verità?
La tratta africana degli schiavi
La
tratta degli schiavi fu soprattutto, per numeri e durezza, fine ed effetto dei jihad, le guerre islamiche di conquista,
del secolo VII a tutto l’Ottocento. Poi degli assetti sociopolitici interni all’Africa,
fino a colonizzazione europea inoltrata, ai primi del Novecento. La tratta
atlantica viene in terza posizione, per numeri e durata, per due secoli, Sei e
Settecento. Una verità semplice, basata su numeri e documenti, e
incontestabile. Non polemica: Lovejoy, un americano marxista che professa all’università
di York, a Toronto, è soprattutto interessato a questioni di metodo. Certo,
sorprendente.
La
presentazione è cauta, solo documentata. Questo è il terzo rifacimento in
quarant’anni, dopo le prime ricerche degli anni 1970, di quella che è
riconosciuta la summa di storia della
schiavitù in Africa, a partire dal jihad islamico.
Una novità
al suo apparire, nel 1983: la schiavitù analizzata in Africa, dopo le tante
ricerche sulle Americhe. Rifatta nel 2000. E poi nel 2012, questa edizione. Una
storia quindi in costruzione. A mano a mano che la storia dell’Africa a sud del
Sahara - del Sudan (bilal-al-Sudan ,
paese dei neri in arabo), o Africa nera come usava dire - a lungo ritenuta un
mondo senza storia, perché senza scrittura, viene emergendo, con l’archeologia
e anche con i documenti.
Ma
qualcosa è già accertato: c’erano un milione di schiavi africani negli Stati
Uniti all’indipendenza, un po’ meno di un milione, ce n’erano altrettanti alla
stessa data, un po’ di più, nel regno (califfato) del Sokoto, gli attuali
emirati di Kano e Kaduna nel Nord della Nigeria. La differenza, spiega il
curatore italiano, Pavanello, è che i ras e i mercanti africani non investivano
nella schiavitù, non creavano valore aggiunto. Ma forse no: le piantagioni
c’erano, di spezie, cotone, gomma, che la conquista coloniale nella seconda
metà dell’Ottocento ha spazzato via, perché non competitive senza la schiavitù.
E la conquista coloniale fu facile perché le istituzioni non c’erano, o non
c’erano più – eccetto che in Etiopia, stato cristiano, non schiavista.
L’Africa
era schiavista, come e più delle Americhe: “La schiavitù in Africa e il
relativo commercio degli esseri umani ebbero la loro maggiore espansione in
almeno tre periodi, dal 1350 al 1600, dal 1600 al 1880, e dal 1800 al 1900”. Ma
anche prima il commercio era florido. Violento, di conquista, oppure volontario, per fame.
Lo
schiavismo come lo conosciamo è un fatto dell’islam. “Per più di 700 anni prima
del 1450 il mondo islamico praticamente costituì l’unica influenza esterna
sull’economia dell’Africa”. I jihad
fecero subito molti schiavi, europei soprattutto e russi delle steppe
meridionali, con qualche africano. Poi, cessata l’espansione attraverso il
Mediterraneo, il serbatoio del lavoro servile divenne l’Africa. Di schiavi da
indirizzare verso il Nord Africa, il Crescente islamico - oggi Medio Oriente -
e l’oceano Indiano. Nei primi cento anni, approssimativamente, dopo la loro
discesa “lungo le coste della Mauritania, del Senegambia e dell’alta Guinea”, i
portoghesi commerciarono anche gli schiavi, in concorrenza con mediatori
islamici, ma per mercati prevalentemente islamici, in Nord Africa, oltre che
per le piantagioni di canna da zucchero nelle isole atlantiche, Madeira,
Canarie e Capo Verde.
Gli
studi sono avanzati, specie negli Stati Uniti, sulla tratta degli schiavi dall’Africa
verso le Americhe. Ma la tratta ci fu prima, e forse più importante, verso il
Nord Africa e il mar Rosso: “Oltre 12,8 milioni di schiavi lasciarono le rive
della costa atlantica dell’Africa; e molti di più furono avviati verso i paesi
islamici del Nord Africa, Arabia e Indie orientali”. Diventando anche il
mercato più florido, sebbene non produttivo, della stessa Africa.
La
tratta fu al centro dell’economia e della società africane per lunghi secoli, è
l’altra novità di questa ricerca. Che la documenta con lunghi capitoli. Con la
tratta “si consolidò all’interno del
continente africano una struttura politica e sociale ampiamente fondata sulla
schiavitù”: ne dipendevano il commercio estero, la produzione, e il potere
politico. Anche dopo che altrove si proibiva: negli Stati Uniti fu limitata con
leggi del 1791 e 1794, in Gran Bretagna, che ne era stata il maggiore
trafficante, abolita nel 1807 (Lovejoy trascura l’abolizione in Francia, decisa
dalla Convenzione nel 1794). Fino all’occupazione coloniale, nel secondo
Ottocento. A Saint-Louis (Senegal) nel 1875 si censivano 648 schiavi, di cui 98
appartenevano ai francesi e 550 ai residenti africani. In Nigeria, “intorno
agli ani sessanta e settanta” dell’Ottocento, “a Ibadan c’erano 104 famiglie
che possedevano nel complesso oltre 50 mila schiavi, una media di 500 schiavi a
famiglia” – erano “eserciti privati, braccianti nelle piantagioni, artigiani,
guardiani di mandrie e greggi, facchini”. Negli anni 1850 nel golfo di Guinea
molti schiavi erano padroni di schiavi.
Prima
della “scoperta dell’Africa”, più o meno coeva della scoperta dell’America, il
traffico di schiavi dal “Sudan” era verso il Nord Africa e al di là dl mar
Rosso. “Prima del Seicento, la tratta dell’esportazione attraverso il deserto
del Sahara, il mar Rosso e l’oceano Indiano si era mantenuta per secoli a un
livello da 5.000 a 10.000 schiavi l’anno”. Tra metà ‘400 e fine ‘500 “circa 410
mila schiavi furono esportati dall’Africa attraverso l’oceano Atlantico”,
inclusi quelli sbarcati nelle piantagioni di San Tomé e Capo Verde. Nello
stesso periodo “il volume della tratta atlantica fu di circa un terzo della
contemporanea tratta islamica attraverso il Sahara, il mar Rosso e l’oceano
Indiano”. La documentazione è scarsa, ma “le cifre riportate, 4,82 milioni per
la tratta sahariana tra il 650 d.C e il
1600, e 2,4 milioni per quella del mar Rosso e dell’oceano Indiano tra l’800
d.C e il 1600, potrebbero in realtà essere addirittura raddoppiate”.
Una
ricerca curiosa. Legata, anche in questo terzo rifacimento, a questioni
dottrinali in area marxista, di Terray contro Amin, Hirst e Althusser. Ma
pratica, piena di dati. Più interessante è la prima parte, storico- statistica.
La seconda, più lunga, è una presentazione-dibattito sulle condizioni
socio-economiche nelle varie realtà (regni) in Africa, prima e sotto il
colonialismo. Molte tabelle riepilogano significativamente i dati noti della
tratta: anni o periodi, provenienze, destinazioni, maschi, femmine, bambini,
prezzi medi. Aiutano un glossario dei termini locali, delle lingue africane, e
una dettagliata cronologia. Restano invece vaghi, rendendo la lettura ardua o
insignificante, i dati topografici dei numerosi regni (in Africa di breve
durata) e tribù sui quali si articola il racconto.
Tra
fine Cinquecento e tutto l’Ottocento le proporzioni fra i due versanti costieri
dell’Africa si invertono: su un totale di 11,7 milioni di schiavi “trattati”,
il 75 per cento è indirizzato verso l’Atlantico, 8,7 milioni di persone. I più,
quattro su dieci, li trattano i mercanti di schiavi inglesi, il 34 per cento i
portoghesi, il 17,5 i francesi, un 5 per cento gli olandesi – con un 1 per cento
(67 mila) trattato dai danesi, mentre gli spagnoli non praticavano la tratta
(se non per 11 mila schiavi in totale nei tre secoli, lo 0,2 per cento).
Ma
nell’ultimo secolo del periodo considerato, l’Ottocento, quando sulla rotta
atlantica si impose il proibizionismo, i jihad
islamici rialimentarono la tratta: “Il XIX secolo fu un periodo di violenti
sconvolgimenti nella savana settentrionale e in Etiopia. A partire dal 1804,
dal Senegambia a ovest, al mar Rosso a est,una serie di jihad sconvolse la maggior parte di questa regione”, fattore
centrale lo schiavismo. Attraverso il Sahara e il mar Rosso “1.650.000
individui furono esportati nel corso del secolo nel Nrdafrica e il Medio
Oriente… Inoltre, i jihad comportarono
la riduzione in schiavitù di milioni di altre persone”, al lavoro per i nuovi
potentati.
Tabelle
circostanziate sono ricostruite anche sulle aree o i paesi di provenienza. A
lungo la gran massa degli schiavi avviati alla tratta atlantica provenne dalla
parte meridionale del golfo di Guinea, dalle coste dell’odierna Angola, via
Luanda e Cabinda – insieme col samba. Nel secondo Ottocento, invece, quando in
teoria la tratta degli schiavi era illegale, fu esercitata soprattutto in
Africa orientale, attraverso Zanzibar e la costa kenyota di Mombasa. Vi si
esercitarono da ultimo anche i regnanti cristiani dell’Etiopia – ma più vi si
esercitarono le famiglie meridionali del regno, dei Galla, camiti, mezzo
islamizzati.
Per
un lungo periodo alimenteranno la tratta gli Stati africani, nel tentativo di
impadronirsi del lucroso commercio. In quattro modi: guerre e razzie, una sorta
di “abigeato” umano fra stati confinanti, la “diffusa illegalità” interna,
anche qui con rapimenti e razzie, la vendita dei carcerati, condannati o
sospettati – “la schiavizzazione divenne la condanna più comunemente inflitta
in luogo di ammende pubbliche, compensazioni materiali o pene capitali”. Già
subito, dopo la “scoperta dell’Africa”, e poi di più dopo la scoperta
dell’America, la tratta fu opera africana. A lungo in esclusiva. Molte tribù o
regni si baseranno sulla tratta. A Nord del Golfo si distinguerà il regno del
Dahomey. Subentrato dagli asante della Costa d’Oro (Ghana). E il delta del
Niger, con i punti d’imbarco di Bony (ora petrolifero) e Calabar, sbocchi degli
emirati di Kano e Kaduna, della Nigeria settentrionale. Il Nord del golfo verrà
chiamato la Costa degli Schiavi.
Gli
schiavi non furono la sola merce d’esportazione africana. “In certe regioni,
come la valle del fiume Zambesi, l’Etiopia, l’Alto Nilo, la Costa d’Oro e il
Senegambia, erano al secondo posto dopo l’oro”. Ma furono la merce più ubiqua, a disposizione
di tutti, a differenze di quella mineraria, e la più sfruttata, più
intensamente e più a lungo. Si scambiavano nei primi secoli, fino a tutto il
Seicento, prevalentemente contro conchiglie cauri,
usate come monete, tessuti dall’India, i guiné,
usati anch’essi prevalentemente come monete, e braccialetti manilla, intrecci di rame e ottone,
anche questi usati come monete. Poi, dal primo Settecento, contro armi da
fuoco. Che dai primi del Settecento divennero la “moneta” preferita, insieme ai
tessuti stampati.
Il
colonialismo è stato paradossalmente la liberazione dell’Africa dalla
schiavitù. Cauta, progressiva, per non inimicarsi i potentati locali, a volte
ipocrita (i due Bonaparte la restaurarono sotto falso nome), ma le leggi
andavano applicate, e i governatori inglesi e francesi si ingegnarono di farlo.
“Nel XX secolo, funzionari coloniali e antropologi, spesso incaricati dai
governi, scoprirono che la schiavitù era diffusa in quasi tutta l’Africa.
Malgrado gli sforzi di descrivere quella schiavitù come qualcosa di diverso dalla
schiavitù praticata nelle colonie europee, specialmente nelle Americhe, fu
comunque chiaro a tutti che la schiavitù continuava a esistere, sia pure in forme
diverse”. Soprattutto complessa fu l’applicazione delle leggi antischiavitù in ambiente
islamico, negli ex califfati. Ma con vari accorgimenti – molti funzionari
britannici si specializzarono nelle leggi islamiche – anche qui la schiavitù fu rapidamente
ridotta e poi eliminata.
Cosa
resta? Un deficit demografico e di competenze che ha handicappato il Sudan, il continente africano a sud del Sahara nel Novecento, nel grande balzo verso la ricchezza – malgrado le guerre, grazie
alle guerre? Prima e dopo le indipendenze. Un handicap superato ora, sia in
demografia che in formazione, da un eccesso in senso opposto, di una esplosione
demografica - grazie anche anche alla sanità - e delle competenze. Ma senza
infrastrutture e strutture in grado di assorbirle. “Storicamente”, è la sintesi
in conclusione, “l’Africa ha vissuto un continuo drenaggio di popolazione”, verso
l’esterno e al suo interno. Della popolazione in età produttiva, ridotta in
schiavitù, in condizione servile, oppure uccisa al momento delle frequenti
razzie.
Paul
E. Lovejoy, Storia della schiavitù in
Africa, Bompiani, pp. 572 € 21
lunedì 17 febbraio 2020
L’Ue a tre con Londra sulla Libia, e senza l’Italia
Si chiude la conferenza per la
sicurezza a Monaco con un nulla di fatto sulla Libia. Il blocco della vendita
di armi, come richiesto dall’Italia per facilitare un cessate il fuoco,
interinato dalla conferenza di Berlino sulla Libia a metà gennaio, ha
incontrato solo adesioni formali: le vendite continuano massicce, ha documentato il
Rappresentante dell’Onu per la Libia. Da parte di Turchia, Emirati Arabi ed
Egitto, che le acquistano anche in Gran
Bretagna e Francia.
Le forniture britanniche e francesi si
distinguono perché provengono da due paesi che, con la Germania, costituiscono
l’E 3, una sorta di supercomitato europeo. Costituito quindici anni fa nel
quadro del negoziato multipolare sulla Bomba atonica iraniana, e poi eretto a
foro ufficioso delle politica estera e di difesa della Ue.
L’E 3 è una delle tante asimmetrie Ue.
La quale è rigidamente, eccetto che per le cose sostanziali: l’asse franco-tedesco
e l’E 3. C’è ancora un’Europa a 3, malgrado la Brexit, l’uscita e festeggiata
della Gran Bretagna dalla Ue. Che a dicembre, al vertice Nato di londra, ha
discusso della Libia con la Turchia, ma senza l’Italia.
A Monaco il governo tedesco, in rotta
parziale con Parigi sul futuro dell’Unione, e senza più la sponda inglese, ha aperto
all’Italia. Proponendo e decidendo che il prossimo riesame dell’itinerario di
pace in Libia deciso a Berlino a metà gennaio si tenga a a marzo a Roma. Ma
niente sulla sostanza: il blocco delle forniture di armi, le pressioni economiche
sui contendenti.
Cronache dell’altro mondo - 55
Si premiano con gli Oscar film brutti e
bruttissimi. Per fare di Hollywood la capitale del cinema latino-asiatico, nel
quadro della politica americana centrata sul Pacifico.
Il processo a Weinstein per le violenze
sulle donne, il primo di tanti processi annunciati, si è fermato dopo che la
prima teste d’accusa si è rivelata una ex non pagata abbastanza, capace solo di
ingiuriare il produttore in udienza.
Milleseicento
nuove chiese sono state registrate negli Stati Uni negli anni 2010.
La
manipolazione dei serpenti è al centro di numerose comunità religiose , tra
Pentecostali, Carismatici e e il movimento metodista della Santità (Holiness). Attive soprattutto nei monti
Appalachi, dal Maine all’Alabama, da circa un secolo. Il pastore va in trance con
lo Spirito Santo, che lo rende immune ai veleni.
Gli
Stati Uniti hanno spiato nel lungo dopoguerra tutti, avversari e alleati. Dapprima
dalla Svizzera, con una società di comodo della Cia, fornitrice di strumenti di
decrittazione. Poi, negli anni dopo l’11 settembre, con le presidenze Bush jr.
e Obama, a raffica, tutte le corrispondenze dell’universo mondo, nel quadro
della difesa dal terrorismo.
Il
Sessantotto fu in America il ’67: gli studenti occuparono le università. Nel
1968 uccisero – non furono gli studenti – Martin Luther King e Bob Kennedy. Un
anno dopo Nixon mandò la guardia nazionale a sparare contro gli studenti della Kent
State University in Ohio, che protestavano contro il bombardamento intensivo americano
della Cambogia.
Poesia e manicomio
Dal lascito di Oreste Macrì,
l’ispanista, che ha aiutato Alda Merini in vari modi, anche finanziariamente,
due raccolte a lui indirizzate, più alcune lettere. E una serie di poesie sull’“amore
peninsulare” (Giorgioo Manganelli) di Merini con Pierri, a Taranto. Un volume
composto all’insegna della pugliesità – Macrì, una vita a Firenze, era di
Maglie.
Una singolare pubblicazione.
“Confusione di stelle” è titolo redazionale per componimenti per lo più inediti, qui raccolti per la prima volta,
organizzati da Riccardo Redivo. Sempre nell’alveo del fenomeno Merini. L’emozione
di una poesia alluvionale, di fronte alla quale lo stesso curatore, cultore della
materia, procede frastornato. Di versificazione, immaginativa, controllata,
ritmica, anche rimata, fluida, come un linguaggio quotidiano. Qui con punte di
professione religiosa. E anche di acredine – solo con figure femminili. A
partire da Emily Dickinson: pochi versi ma epigrammatici, velenosissimi.
Un fenomeno ancora in attesa,
malgrado la persistenza, e il richiamo esteso, di una sistemazione critica. Redivo,
che più di tutti vi si è dedicato (dopo i grandi nomi che accudirono Merini agli
esordi, negli anni 1940-1950, e prima del manicomio, Spagnoletti, Corti,
Manganelli), trova ancora evidenti difficoltà. Lo scoglio maggiore è la malattia
mentale: come si concilia tanta facilità verbale, di versificazione anche
complessa, e comunque pregnante (parlante), con la malattia mentale. Dove il
problema, però, potrebbe non essere di filologia ma di medicina, della mente.
Della “malattia” e non della versificazione – dopo i tanti pazzi ottimi poeti,
da Hölderlin a Robert Walser. La psichiatria si è molto affinata da qualche
decennio, e ha affinato le sue classificazioni. Ma ancora non ha un percorso
per il genio.
Alda Merini Confusione di stelle, Einaudi, pp. XXV
+ 125 € 12,50
domenica 16 febbraio 2020
Letture - 411
letterautore
Torino – Calvino, che vi visse a lungo, forse suo malgrado, non ne ha grande
opinione, non come città d’arte o poesia. A Grazia Marchianò, che gli prospettava
una pubblicazione sulla “piemontesità” in letteratura, arguisce (“I libri degli
altri, pp. 644-645): “Ma, a parte l’abbinamento Zolla-Calvino, che è la Sua
tesi, gli atri nomi non pensa che siano messi insieme un po’ a caso? Questo
Piemonte, lei è ben convinta che esista?” Anche se obietta in realtà alla
scelta dei nomi: “Perché c’è Arpino e non Fenoglio…? …Perché c’è Zolla e non
Citati, mentre erano compagni di scuola fin dai banchi del ginnasio…. E Giacomo
Debenedetti”? Di fatto la ex capitale è stata terra di geni
precoci, Giaime Pintor, Gobetti, lo stesso Gramsci. Negli anni 1930 era fervida
capitale delle arti: Lionello Venturi all’università, con forte presenza di
architetti /Giuseppe Pagano, Carlo Mollino, Ettore Sottsass, Alberto Sartoris),
scultori, pittori e letterati. E intellettuali, Pavese, Soldati, Antonicelli,
Ferdinando Neri, Arnaldo Momigliano, Carlo Dionisotti. Negli anni Cinquanta i
“ragazzi di via Po” di Cazzullo, i giovani all’università , che sono e resteranno fuori dalla
costellazione Einaudi (Vittorni-Cavino): Eco, Vattimo, Magris, Furio Colombo,
Ceronetti, Sanguineti, Casorati, Cremona, Spazzan. A parte
il nazionalpopolare: Gozzano, Guglielminetti, Salgari eccetera.
Andersch – Lo scrittore italianista, di un romanzo anche su Venezia, “La Rossa” (Venezia), fu in guerra in Italia nel 1943-44, nella
Wehrmacht durante l’occupazione, poco sotto la linea Gotica, nella Toscana che
fu teatro di molti eccidi. Da dove scriveva divertito alla madre, nell’autunno
del 1943, di un viaggio in side-car con un ufficiale superiore: “Pisa, la Torre
pendente, la cattedrale … un meraviglioso paesaggio italiano con belle facciate
sull’Arno che mi sono passate davanti…. Siamo alloggiati in un carinissimo
piccolo villaggio… la sera è mite e tiepida, la bottiglia di Chianti fa il
giro. E per tutto questo fare il soldato al 100%. Ma è divertente”.
Costanzo Show – Sarà stato la fucina degli
scrittori più amati, seppure in età – senza glamour,
o appeal fisico: Camilleri e
Merini.
Dante – L’ultimo remake, non tradotto, della “Divina Commedia”
sarebbe (è stato così presentato, ed è reputato) di Peter Weiss, 1965, “L’istruttoria”.
Un piccolo “Inferno” teatrale, “un “oratorio”, in undici canti. Limitato a un
solo gruppo di condannati, i diciassette del primo processo in Germania per la
persecuzione degli ebrei, a Francoforte nello stesso anno.
Sebald, “On the natural History of Destruction”,
p. 189 (l’edizione anglo-americana, che comprende anche due saggi su Jean Améry
e Peter Weiss), lega le pene dell’Inferno a un’esperienza personale che Dante
avrebbe maturato, a Parigi: “Dante, bandito dalla città natia sotto pena di
morte per fuoco, era probabilmente a Parigi nel 1310, quando cinquantanove
Templari furono bruciati vivi in un solo giorno”. Un’esperienza del genere il
critico dice necessaria per “la giustificazione della preoccupazione
sadomasochistica, la ripetuta e virtuosistica rappresentazione della
sofferenza”.
Giallo – Ha molti antenati. Del Buono
faceva risalire alla Bibbia pure il giallo. Calvino invece a “Zadig”, il
racconto di Voltaire, “la narrazione a procedimento induttivo” - argomentando
il 24 ottobre 1972 con Franco Ferrucci,
che gli aveva prefato il racconto per la collana Centopagine.
“La gabbia più vera per uno scrittore è il
romanzo giallo”, Sciascia confidava a Camilleri (“La testa ci fa dire”, 81). Per
imporgli un piano un piano di lavoro, una scrittura a progetto e non
rabdomantica.
Italiano – I “Racconti italiani
contemporanei”, una antologia di 700 pagine pubblicata in rumeno a Bucarest a
maggio del 1964, tirata in ventimila copie, era andata subito esaurita – la traduttrice
di Calvino, Despina Mladoveanu, lo comunicava en passant allo scrittore il 25 maggio.
Mabuse – Il “Dr. Mabuse” di Thea
von Harbou e Fritz Lang Sebald vede al finale della “Storia naturale della distruzione”
ricalcato sull’ebreo prototipo dei “Protocolli di Sion”: uno di incerta origine
che cavalca il potere, speculatore, baro, falsificatore, provocatore, falso
rivoluzionario, ipnotista – anche il sesso praticando in forme ignobili.
Montalbano – È Sciascia, e un po’ anche
Sgarbi, assicura Camilleri a Sorgi in “La testa ci fa dire”, 105-107, delineando
il carattere del personaggio: “In tante cose ho preso da Leonardo Sciascia”. Non
dalle opere, dall’uomo: “Tra quelle
riconoscibili, c’è il suo caratteristico impaccio nel parlare in pubblico”. Più
il turpiloquio, che invece dice proprio suo, di Camilleri.
Morselli - Ovunque si è trovato contro Vittorini, che tanta
pessima letteratura ha promosso da Einaudi, e tanta ottima ha bocciato da
Mondadori, il Gattopardo, Živago, Simenon, Grass.
Calvino,
che ha pubblicato anche lui boiate immense, ha dedicato al romanzo della vita di
Morselli un viaggio in treno fino a Milano, un’ora e mezza da Torino, e gli ha
negato la pubblicazione. Ma Torino è fatale, si sa, alla letteratura.
Nievo – Ha estimatore anche
Camilleri, “La testa ci fa dire”, 157: “Giustamente si considera un capolavoro
«Le memorie (sic!) di un ottuagenario» di Ippolito Nievo, ma nessuno parla più
di un altro libro di Nievo, il fantastico «Barone di Nicastro», dal quale nasce
tutto intero Calvino”.
Camilleri estimatore
in aggiunta allo stesso Calvino, e a Gadda. E a Carducci, che lo ha copiato per
la migliore
della sue poesie, “La nebbia a gl’irti colli”.
Oscar – “Parasite”, dopo “Roma”,
dopo “La forma dell’acqua”, gli Oscar sono un’altra cosa: non premiano il
miglior cinema. Film senza soggetto, non degno di memoria, senza sceneggiatura,
senza più immagini da repertorio, e anche professionalmente film a tirare via,
i vecchi film di serie B, superpremiati. Forse perché la platea dei votanti si è
moltiplicata, da tremila a forse diecimila e oltre. Di essi 5.100 erano attivi
secondo una inchiesta del “Los Angeles Times” del 2012. E quasi tutti, allora,
“caucasici”, cioè americani ed europei. Dopo di allora la platea, tenuta
confidenziale, si sarebbe allargata molto all’Asia. Salvatores, uno di quelli
che vota sempre (i premiati sono di diritto membri dell’Academy hollywoodiana),
pensa che gli aventi diritto siano oltre diecimila.
Pavese – Calvino, “I libri degli altri”, 545, lo collega a “un nietzschianesimo
torinese, che ebbe in Pavese il più originale rappresentante”.
Popolare – Per la musica si è dovuto
aspettare Roberto
Leydi, che nel 1973 stampò “I canti popolari italiani”. Una sfida: vent’anni prima,
quando Lomax realizzò la strepitosa raccolta di canti italiani, e da Einaudi
uscì la “Musica Popolare” di Bartók, Calvino sul suo “Notiziario Einaudi” fece
scrivere a Mila che Bartók non se ne intende, che la musica popolare non
esiste, che quella di Bartók è musica colta volgarizzata. E a Carpitella, che
aveva aiutato Lomax e rispettosamente lo segnalava, Mila consigliò di leggersi
qualche libro, prima di andare in giro col registratore. Calvino che del
popolare si è voluto un paio di anni dopo cultore, di leggende, fiabe, orchi e
sirene.
Ma è vero che il popolare è difficile: molti canti
della tradizione scozzese inventata da Walter Scott erano di David Rizzio, il
segretario della regina Maria, assassinato nel 1566, che era nato Riccio a
Torino, ed era stato ambasciatore del duca di Savoia in Scozia - lo riconosce
pure Hawkins, nella “General History of the Science and Practice of Music”.
Sciascia – “Quel gioco di verità e
impostura – di ascendenza pirandelliana”, in realtà “contestazione
cervantino-unamuniana-pirandelliana”, con “il Gogol via Brancati”, ne è la
cifra per Calvino”, che gli scrive dopo aver letto la pièce “L’Onorevole”. Vedendolo - lo consiglia in tal senso - “sul punto
di liberarsi” della “compostezza manzoniana”: “Non è la compostezza illuminista
che devi rompere ma quella manzoniana (Manzoni da Voltaire e Diderot aveva
imparato moltissimo, ma Voltaire e Diderot i loro demoni li avevano e come;
Manzoni no)”. Personalmente riservandosi con l’amico - non solo lui, anche altri
nell’editrice, assicura: “Ma possibile che questo accidente di uomo sia sempre
così controllato e cosciente e funzionale nella sua missione di moralista
civile, possibile che mai salti fuori in persona col suo demone, il suo momento
lirico e privato in contrapposizione a quello pubblico e storico, il suo
«mito», la sua «follia»?” Personalmente Calvino lo individua quale “saggista letterario,
sociologo della civiltà di massa e riformatore giansenista”.
letterautore@antiit.eu
L’illuminismo alla prova donna
Una
raccolta del 2008, appena ieri, che sembra remotissima. Un manuale preistorico:
si leggono a Millennio inoltrato le massime e le spiritosaggini libertine come una
raccolta strana, forse per ridere. Il “comune senso del pudore” c’è sempre nel
codice penale, per misurare l’“osceno”, ma a nessun fine pratico, giusto per connotare,
al caso, che cosa è osceno, e che cosa è pudore, ma non per sanzionare e punire
– una legge non normativa.
L’antologia
è peraltro più di “saggezza” che di erotismo, e non di qualità. Non c’è molto
da aspettarsi da Laclos, Bachaumont, Crébillon, Latouche, Nerciat, Mairobert,
Mirabeau, Sade. Ma anche da Diderot? L’effetto è di denudare il Settecento
francese, dopo la morte di Luigi XIV. Dalle malizie rosa di Boucher e Fragonard
alle “dure e coraggiose verità” (Croce? così dice Reim) di Sade è il secolo del rococò, “l’epoca d’oro del
libertinismo erotico” (Reim). E dell’illuminismo.
Il
libertinismo finisce così nel suo contrario, argomenta Reim, nell’illibertà.
Col supporto di Giovanni Macchia, il francesista principe oggi dimenticato, che
lo trova “ingabbiato nella necessità della natura”. E di Piovene, a proposito
di Sade: “L’ultimo esito della coerenza è la disperazione della ragione”. Ma
non solo di Sade: Diderot apodittico, fuori dall’argomentazione, suscita solo
disagio.
La
lettura finisce per essere “vera”al contrario: non un’apologia ma una
denuncia. La sezione conclusiva, “Riflessioni politiche e morali”, è di un’indigenza
ridicola. La sezione “Donne”, che apre la raccolta, è solo imbarazzante.
Diderot c’è poco in questa sezione, ma è il peggiore: “Le donne, per la maggior
parte, sono senza carattere; sono mosse con violenza da tre cose: l’interesse,
il piacere e la vanità”; “l’incostanza offre una serie di piaceri ignoti a chi
è davvero innamorato”; “le donne oneste sono davvero rare, rare all’eccesso”.
Riccardo
Reim (a cura di), Aforismi proibiti e
libertini, Newton Compton, pp. 167 € 5
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