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sabato 22 febbraio 2020

La peste è leghista

Salvini non aveva finito di annunciare la denuncia della regione Toscana, la denuncia in Tribunale, per mancata quarantena dei cinesi di Prato, dopo le accuse del virologo del San Raffaele di Milano, Burioni, che la Lombardia è emersa focolare del coronavirus in Italia. Insieme con il Veneto. Con i primi morti e decine di casi acclarati. Per manifesta imprevidenza e incompetenza.
È il caso più grave dell’epidemia in Europa. Nelle regioni leghiste per eccellenza, Lombardia e Veneto. Un caso di giustizia, la vendetta dei cieli – “quod Deus vult perdere dementat prius”? Il clima non è da “Pane, amore e…”, non c’è da ridere: Lombardia e Veneto hanno creato un’emergenza, a rischio epidemia, e c’è solo da lavorare sodo per scongiurarla. Ma è inevitabile, e il latinorum sarà fatto presto valere, al voto tra un mese: a quelli che vuole rovinare Dio toglie prima la ragione.

La sindrome lombarda

Sabato 22 febbraio 2020, il giorno della nuova peste in Lombardia il “Corriere della sera” apre a tutta pagina: “Il virus in Italia: un morto in Veneto”. Milano e dintorni confinando a quattro parole in un affollato “catenaccio”: “In Lombardia 15 casi”.
Non è un infortunio, è calcolo e modo di essere. La spazzatura che la Lombardia produce , abbondante, va buttata al piano di sotto. Si è tentato con la Toscana, ora vediamo.
Se è lecito sorriderne, il “Corriere dela sera” di oggi era già nell’allegro Malaparte di “Benedetti italiani”: “Quando c’è qualche accusa da muovere agli Italiani,sempre quelli di su la scaricano sule spalle di quelli del piano di sotto”, e aggiungeva “specie i lombardi” – che “parlano a voce alta, speso gridando”. Era la Lega, ma lo scrittore non poteva saperlo: era un modo di essere.
L’epidemia lombarda è raccapricciante per imprevidenza e incompetenza, ma anche per leggerezza. A Roma, con le precauzioni, il contagio si isola, e si guarisce anche, a Milano e nel Veneto il contagio si diffonde.

L’eros nella rete

Un’altra vittima del “proibizionismo licenzioso” che si è instaurato nel Millennio, col porno libero a cascata e il proibizionismo femminista-lgbtq. Il contenzioso – le storie d’amore – lasciando agli avvocati. Storie di ieri e già fuori corso, l’erotismo e la fantasia erotica - niente più fantasie, niente più eros: se proprio è necessario, un colpo e via.
Anche Manara sembra soffrirne. Il tratto è lo stesso, leggero, le fantasie eccessive, anche estreme. Come un vaffa al genere.
Tre storie. La prima, “Rivoluzione”, doppiamente classica. La rivoluzione per la poltrona – per cambiare sedere sulla poltrona. Un’avventura al termine della quale la pasionaria, la “donnina” manariana scosciata, mentre i compagni si trasformano in baffute presenze carrieristiche nella sempiterna tv, lascia uno spiraglio alla speranza: la tv si può spegnere e fare altro, anche leggere i fumetti. Una storia tradizionale.
La seconda, “Tre ragazze nella rete”, anch’essa del 2000,  è invece visionaria, anticipando il tempo dei social e della realtà fake. Con la critica, già ventanni fa: chi tir le fila, le ragazze in rete o lo sponsor di cui sono testimonial e merce? Ma ha bisogno del sesso estremo, della violenza – per ridere, ma anche no, per soffrire.
Una storia sul genere del noir, con omicidio, occultamento, e sorpresa finale. Profetica, ma basata sulla rivisitazione delle nozioni ormai remote sull’eros e il pudore: esibirsi in video è un modo “pulito” di prostituirsi o un modo nuovo di vivere la sessualità? La risposta non è difficile – la storia è in realtà di un lesbismo furioso (altre tavole fuori testo in materia accompagnano la pubblicazione), e di voyeurismo al quadrato, di voyeurismo anche nel soggetto, oltre che nella lettura-visione.
La terza storia, “Chris Lean”, 1977, su testi di Raffaele D’Argenzio, per il “Corier Boy”, successore  del “Corriere dei piccoli”, è l’evocazione di un tempo ormai arcaico delle strisce, un fumetto mezzo western, con facce e modi riconoscibili dal cinema. È il debutto di Manara: l’anno dopo scriverà e disegnerà il suo “H.P. e Giuseppe Bergman”, il primo della serie, la prima striscia tutta Manara. Milo Manara, Potere alla tv, Panini, pp. 144, ll. € 11

venerdì 21 febbraio 2020

Il mondo com'è (396)

astolfo


Capitalismo – Si dibatte se il “declino americano” non dipenda dall’assenza di sfide militari globali. L’assunto è semplice: gli Stati Uniti sono cresciuti come superpotenza economica con le guerre del Novecento: le due guerre mondali, quelle di Corea e del Vietnam, seppure non vittoriose, quella del Golfo, e quella agli armamenti nucleari.
Il “declino americano” vuole una precisazione: non è un fatto, è un “discorso”, e sono gli americani che lo fanno, i grandi interessi del capitale per primi – con il supporto dei (pochi) marxisti dogmatici, teorici eterni del declino. Quindi può essere uno schema di discussione e non uno sviluppo. Così è stato in passato in più casi: la non convertibilità del dollaro e la crisi del Vietnam, la crisi petrolifera, la presa iraniana degli ostaggi e la fine del controllo del Medio Oriente, la stessa globalizzazione – che però è stata teorizzata e imposta dagli Stati Uniti.
Se il capitalismo non dipenda dalla guerra è però un filone teorico, anche robusto, tra Otto e Novecento – prima della Grande Guerra. L’economista Lujo Brentano, professore a Breslavia, Strasburgo, Vienna e Lipsia, “socialista cattedratico” (riformista), commissario del Popolo al Commercio nei pochi giorni del governo rivoluzionario dello Stato popolare di Baviera nel dicembre 1918, la teorizzava motore del progresso. Dei salti tecnici e di accumulazione che costituiscono il progresso. Analogamente teorizzata, seppure in ambito letterario e non economico, da Ernst Jünger subito dopo la Grande Guerra, da lui per primo letta e rappresentata come “guerra dei materiali” – della produzione: chi più produce vince, e quindi per vincere bisogna soprattutto produrre.
Una tesi non dimostrata ma plausibile. Paul Samuelson, il primo studioso americano premio Nobel per l’Economia, ne ha abbozzato un calcolo reale, basato sull’economia di guerra, nel volumone “Economics. An Introductory Analysis”, 1948 - per molti anni  testo base nelle scuole di Economia. La “guerra dei materiali” è comunque uscita dalla letteratura, è ormai la sola guerra possibile. In collegamento sicuro, seppure oscuro, col benessere: il Novecento, il secolo del grande balzo mondiale verso la ricchezza, è stato anche un secolo di grandi e continue guerre – la prima e la seconda guerra mondiale, le guerre di Corea e del Vietnam, e soprattutto la guerra dei materiali per eccellenza, quella non combattuta, ma con un armamento fuori da ogni misura, la guerra fredda nucleare, dissuasiva o di deterrenza, con formidabile armamentario missilistico.

Revisionismo – Non si è ancora esercitato sulla seconda guerra mondiale, dopo tre quarti di secolo. Ma urge. Non vi si è ancora esercitata la storia accademica, se non nel primo dopoguerra, con l’americano Charles Beard, intellettuale molto di sinistra, pacifista e isolazionista, e l’inglese A.J.P.Taylor – mentre peraltro a Londra in Parlamento, sia ai Comuni che alla camera dei Lord, si discuteva della moralità e anche della liceità dei bombardamenti “terroristici” come li aveva voluti il maresciallo sir Arthur Harris per la Raf, notturni, massicci, ripetuti e indiscriminati contro le popolazioni. Ma, seppure solo nei giornali e in forma di reportage, di com’eravamo e cosa è successo, le tracce revisioniste sono state aperte. Con una curiosa inversione dei ruoli, si può osservare, rispetto al primo revisionismo: Beard e Taylor, accademici, si trasformarono dopo le loro contestazioni accademiche, in polemisti mediatici. Oggi sono dei giornalisti che scrivono memorie e ricostruzioni.
Beard e Taylor, va aggiunto, criticavano da sinistra. Beard finì per dare la colpa della guerra a F.D.Roosevelt da pacifista incondizionale e isolazionista. Taylor era laburista impegnato, molto apprezzato nel partito - da storico diplomatico aveva esordito come italianista, “The Italian Problem in European Diplomacy 1847-1849”.
La materia in contestazione è ampia. I bombardamenti a tappeto, quotidiani, notturni, senza distinzione di obiettivi, che hanno segnato la seconda guerra, sono campo praticamente inesplorato in Italia e in Giappone. Sarebbero pretesto fertile di narrazioni e immagini, ma sono ignorati. Una trascuratezza che va molto, troppo, al di là della disattenzione. Si direbbe per un senso di colpa introiettato, avallato senza riserve in Italia e in Giappone. Non in Germania, malgrado le dichiarazioni pubbliche.
In Germania i bombardamenti sono stati materia di molte narrazioni, e sono ora materia di ricerca. 
La materia del revanscismo è in Germania enorme. Gli sfollati dalle regioni orientali annesse alla Russia e la Polonia: Prussia, Slesia, Galizia. I bombardamenti, al fosforo, a tappeto, sterminatori. La resa incondizionata. Lo stesso tribunale di Norimberga. E si accresce con tempo - una montagna vulcanica. Mentre si tace, ma prevedibilmente non ancora per molto, della immensa pubblicistica anteguerra contro i “trattati periferici parigini”, i trattati di pace di Versailles e viciniori, già recepiti come “iniqui” da tutti gli studiosi tedeschi di diritto internazionale e di filosofia del diritto.
Il revisionismo del resto è inevitabile. Sullo sterminio si evita, ma solo per opportunismo. Mentre si lavora alacremente sui bombardamenti “totali”, sulla capitolazione (resa senza condizioni), sulla mutilazione delle regioni orientali, con 12 milioni di profughi, e sulla divisione e occupazione militare del Paese, per 45 anni. Già Hannah Arendt un cinquantennio fa (“Sulla rivoluzione”), benché ebrea, perseguitata e espatriata, consigliava di considerare il conflitto “una forma di guerra civile che abbraccia la terra intera”.

Tratta degli schiavi – Fu per molti secoli islamica, e poi africana. I primi mercanti europei (portoghesi) si registrano nella seconda metà dl secolo XVmo. È a partire da fine Cinquecento-primo Seicento che la tratta degli schiavi transatlantica, a opera di trafficanti europei verso le Americhe, diventa predominante. Per due secoli. L’atlante della tratta che Paul E. Lovejoy ha costruito in numerose tabelle della sua “Storia della schiavitù in Africa” dà il traffico atlantico predominante dal 1500 al 1800 – quando si vanno le leggi abolizioniste della tratta.
Il Settecento è stato il secolo europeo più schiavista, il secolo dei Lumi. Su 11 milioni 660 mila schiavi “trattati” dal 14500 al 1800, il 75 per cento, otto milioni 710 mila, fu destinato alle Americhe. Nel Cinquecento la percentuale era molto inferiore, il 31 per cento - il 69 per cento andava al Nord Africa e al Medio Oriente. Nel Settecento, su sette milioni 795 mila schiavi conteggiati, l’83,3 per cento risulta destinato alle Americhe, sei milioni 485 mila. 
Nella tratta europea si distinsero gli inglesi. Sempre nel Settecento, il secolo della tratta europea massima, i trafficanti inglesi trasportarono due milioni 545 mila schiavi, il 39,1 per cento del totale. Seguiti dai portoghesi, col 34 per cento, due milioni 323 mila, dai francesi col 17,5 per cento, un milione 139 mila, e a distanza da olandesi (5,1 per cento), nordamericani (2,9), danesi (1), spagnoli (0,2).

L’abolizione s’impose tra fine Settecento e i primi del Novecento. Gli Stati Uniti misero fuori legge la tratta nel 1791 e nel 1794, ma dovettero aspettare la guerra civile  1861-1865, per eliminarla, di diritto e di fatto. In Gran Bretagna, che ne era stata il maggiore trafficante, la schiavitù abolita nel 1807. In Francia era stata decisa dalla Convenzione, nel 1794. La Danimarca, anche anch’essa traffichicchiava in schiavi, la abolì nel 1802.
Ma vari schemi si adottarono per continuare il traffico malgrado le leggi. In misura ridotta, ma per lungo tempo endemica. La Francia restaurò la schiavitù con i Napoleoni. Con Napoleone Bonaparte scopertamente. Con Napoleone III, quindi nel secondo Ottocento, nominando diversamente gli schiavi – come già si faceva in Brasile e nelle colonie africane del Potogallo (gli schiavi erano ora chiamati libertos, serviçaes, livres, ingenuos).  
Lo stesso in medio Oriente: Turchia ed Egitto abolirono per decreto la tratta attorno a metà Ottocento, ma la continuarono in vari modi, fio alla Grande Guerra.
In Africa centro-occidentale l’abolizione, a opera delle autorità coloniali, francesi e britanniche, si fece per piccoli passi, come in India, per non sconvolgere gli assetti economici. Nacque anzi nei decenni successivi alla colonizzazione un grande mercato di schiavi nell’oceano Indiano, a Zanzibar e Pemba, a opera del sultano dell’Oman che possedeva le isole, per coltivarvi i chiodi di garofano, di cui il mercato era fiorentissimo.
Per tutto il secondo Ottocento, e ancora ai primi del Novecento, missionari e colonie o protettorati europei in Africa centro-occidentale furono centri di rifugio per schiavi fuggiaschi da famiglie e potentati africani. Le cui proteste costrinsero missionari e amministrazioni coloniali a pratiche restrittive delle fughe e a sottili argomentazioni giuridiche per giustificare l’accoglienza.
La Liberia, creata nel 1821 come colonia di ripopolamento con gli schiavi americani liberati, vide arrivare nel primo decennio pochissime navi, e appena 1.430 afro-americani. Un po’ di più ne arrivarono nel decennio successivo, ma il totale fu di 5.722 schiavi liberati. E la maggior parte di questo non proveniva dagli Stati Uniti ma era stata prelevata di forza da navi americane nel golfo di Guinea dai mercantili che li avevano a bordo e sbarcati in Liberia.
La pratica di prelevare militarmente gli schiavi dalla navi negriere era stata avviata dalla Gran Bretagna dopo le leggi per l’abolizione della schiavitù. A loro fu destinato un insediamento in Sierra Leone, già protettorato britannico. Gli schiavi liberati dalle navi negriere e sbarcati in Sierra Leone furono circa 160 mila tra il 1810 e il 1864. Diecimila di essi furono liberati e sbarcati dalla marina americana e da quella francese.
Ma le leggi e gli sbarchi, britannici, americani, francesi, non intaccavano il regime schiavista in Sierra Leone: la schiavitù vi continuò ancora a lungo. Il nome beneaugurante della capitale, Freetown, si applicava solo agli schiavi liberati dalle navi europee. I potentati e l’economia locale continuarono a utilizzare gli schiavi. Il commercio degli schiavi fu abolito in Sierra Leone solo nel 1896. La schiavitù fu posta fuorilegge solo nel 1926. 


astolfo@antiit.eu

Il senso perduto del pudore


Non c’è più. Il pudore – e non c’è nemmeno il sesso, appena uscito dalle catacombe. Non per effetto di repressioni o censure, ma piuttosto di autocensura (silenzio), al punto dell’indifferenza. All’improvviso, con l’età dell’acquario. O di internet, dove addirittura l’osceno si esibisce.
Il candidato sindaco di Parigi ricattato mentre si masturba fa notizia perché è amico di Macron ma non per la cosa - non è un eccentrico, è uno dei tanti. Il revenge porn è un crimine perché è diffusissimo, diffondere immagini spinte di qualcuno, più spesso di qualcuna, lo fanno tutti. E si condanna non l’immagine in sé, o il furto di essa, ma l’esibizione a fini ricattatori, se ci sono. Ed è difficile da dimostrare perché il ricatto è anch’esso slegato dall’osceno, difficilmente collegabile: non essendoci più osceno in luogo pubblico, resta solo da percorrere la traccia dei soldi.
L’esibizionismo è anzi di colpo diventato la norma. Non c’è altra contesa, le immagini e i messaggi circolano autoprodotti e messi in rete liberamente, con ansia anzi da prestazione. Non sono rubate, sono inviate con preghiera di diffusione – i likes  fanno aggio su tutto. 
L’impudicizia è la norma, e titolo di merito. Non c’è il pudore neppure in “senso eccezionale”, non comune - l’unico argine è il politicamente corretto, la forma suprema di ipocrisia.   
Marta vede in atto una controffensiva di bacchettoni contro l’amore libero. Ma allora per un senso del pudore come senso del desiderio. Allo stato i bacchettoni non hanno nulla da temere.
Marta Boneschi, Il comune senso del pudore, Il Mulino, pp. 204 € 15

giovedì 20 febbraio 2020

Ombre - 501

La ministra dell’Interno di Boris Johnson odia - lo dice ridendo in tv - gli europei, gli irlandesi e gli scozzesi. È indiana, figlia di immigrati.

La ministra Pratel è figlia di indiani dell’Uganda. Degli indentured servants, come gli inglesi chiavano gli schiavi dopo l’abolizione della schiavitù, che a fine Ottocento furono deportati nell’Africa di Sud-Est, per lavorare alle ferrovie. Oppure di “baniani”, i mercanti dell’oceano Indiano prima della colonizzazione, che l’Africa delle indipendenze si applicò  a espellere. Non un grande pedigree: si dice l’Inghilterra tornata imperiale, ma con le cioce?

“Le aziende green crescono di più”. Innaffiate coi soldi pubblici. Specie le colture “bio” – molto salutari per proprietari e produttori.

“La prima pietra della metropolitana di Riad, la capitale dell’Arabia Saudita, è stata posta nel 2013. Sei le linee realizzate, per un totale di 179 km., aperte nel 2019”. Da raccontare a Roma – a Riad cinquant’anni fa c’erano solo alcune, poche, lampadine, penzolanti. Poi dice che l’Italia è ancora una potenza economica.

“In migliaia in piazza a Roma contro i vitalizi”. Mille, centomila? Nessuno che lo dica. Nessuno, probabilmente, che ci sia andato, a vedere il bagno di folla dei dimaisti.
Un paio di migliaia – tutti gli attivisti 5 Stelle di Roma, comandati (quelli che sono per Di Maio).

Si mobilitano anche i parlamentari 5 Stelle di Di Maio per la manifestazione contro i vitalizi. Con auto blu e scorta. Abbondante, essendo tutti ministri, vice-ministri, presidenti parlamentari o di commissioni parlamentari.

È anche vero che i 5 Stelle non possono farne a meno, di auto blu e di scorta, abbondante, almeno due macchine, essendo tutti ministri, vice-ministri, e presidenti di qualcosa (Parlamento, commissione, sub-commisisone, municipio). L’antivitalizio assicura carriera rapida.

Emozione per i 5 Stelle in piazza a Roma. Tg tentati quasi dalla diretta, orfani delle manifestazioni oceaniche, e comunque morsi dalla tarantola. In piazza Santi Apostoli, che pur sgombera dalle macchine (la piazza è un parcheggio), resta piccola. Ma rettangolare, lunga, dà facile in immagine idea di grandi folle - basta non inquadrare i lati.
Santi Apostoli veniva usata dai sindacati, per ultima la Cgil una decina d’anni fa, per motivi di sicurezza, si diceva. In realtà per mascherare che c’erano solo i funzionari e i galoppini.

L’assassinio di un carabiniere sette mesi fa a Roma da parte di due americani - con undici coltellate, non un caso – viene addossato ai carabinieri stessi dai cronisti giudiziari di “la Repubblica” e il “Corriere della sera”. Potenza degli avvocati difensori nominati dagli assassini, Francesco Petrelli e Fabio Alonzi. Che non hanno grande fama a Roma, ma sono in grado di fornire dei video e questo basta.
I cronisti giudiziari non hanno coscienza, per definizione. Ma un’etica – un minimo di etica – dei giornali?

Specialmente odiosa la presentazione che ne fa il “Corriere della sera” venerdì. Il,complice dell’assassino bendato in caserma diventa un martire, e la richiesta di parlare, di dire almeno il suo nome, una tortura: “È inimmaginabile che in un paese civile si possa assistere ad un simile trattamento di una persona privata della libertà personale”, afferma l’alta autorità morale di Fiorenza Sarzanini.  Leggere per credere:

Berlusconi si rifà protagonista proponendo un governo di volenterosi  con la sponda di Mattarella – per riproporre fra un anno al Quirinale lo stesso Mattarella. Che si dimise da ministro nel 1990 contro la legge Mammì, che legalizzava le tv – si dimise per provocare la crisi del governo, lui con altri cinque, ma Andreotti fece finta di nulla.

“Trovaroma”, il settimanale di svaghi di “la Repubblica”, offre nella rubrica “Tavola”, forse per san Valentino, una scelta di ristoranti che parte da 250 euro, a persona. Con una decina a 150, un’altra decina a 100, e un’altra decina a 80. Rincuorante: Roma è una città ricca e non lo sapevamo. O le tavole ricche hanno sostituito le principesse?

Anche vedere ricca “la Repubblica”, che è “una comunità”, dice Scalfari, impegnata e benpensante,  è rincuorante: l’impegno fa crescere, anche il portafoglio?

Il cane fedele a scuola di scrittura

National Book Award all’uscita nel 2018 per la narrativa, è in teoria il racconto della vita con un cane ereditato da un amico – il titolo è correttamente tradotto, l’originale è solo “The Friend”, trattandosi di una storia di animali, di gatti e, soprattutto, di un alano, che pesa il doppio della scrittrice. Interpolata con quella del padrone del cane (padrone del cane suona male, va corretto), morto suicida. Uno che era sempre stato sicuro di se stesso, e ancoraggio di molti. Amico della scrivente da una vita, dopo un giovanile coito riuscito male. Entrambi scrittori insegnanti a scuole di scrittura. E con storie da scuole di scrittura. Specie quelle di sesso, che i Regolamenti anti-molestie severi escludono, sia diretto (relazione insegnanti-alievi) sia indiretto (tema di scrittura) – un racconto è delle studentesse che, a scuola di Scrittura, contestano l’interpellazione o intercalare “cara” come aggressione sessuale. La flânerie. Le mogli Una, Due e Tre del defunto. I regolamenti condominiali, i condomini, i vicini di casa, i passanti. E varie questioni di scrittura, di fiction e non fiction, di scrittura in rapporto alla lettura, di insegnamento della scrittura, di insegnamento in sè, sempre più ristretto – mentre crescono a milioni ogni anno gli americani adulti analfabeti di ritorno. E di best-seller, con l’atroce racconto della giovane promessa che a metà del suo primo romanzo vince tutti i premi per esordienti, mezzo milione di dollari, compreso l’anticipo per il secondo romanzo, ma poi il primo, benché servito da ottimi blurb e quindi ottime critiche, non vende, e il secondo lei non riesce più a concepirlo. Nonché i dessous dei Famosi, Rilke, Wittgenstein.
Un divertimento, per cinofili e non. “Trova il tono giusto e puoi scrivere quello che vuoi”, spiega(va) l’amico morto all’autrice. Sulla traccia di Coetzee, per il quale la scrittrice condivide l’ammirazione dell’amico morto, “Vergogna”: l’avventura di un professore sudafricano, David Lurie, che perde il posto per l’accusa di violenza sessuale di un’allieva che lo ha circuito. Ma poi anche questa è abbandonata, e la storia somiglia più a una di amore, con l’amico morto e tuttavia presente a ogni curva, per procura o per contatto col suo cane, intelligente, bello e caldo, anche se un po’ vecchio.
Nunez - un po’ italianista, due volte premio Roma (dell’American Academy in Roma, di cui dovrebbe essere stata borsista ai suoi anni giovani), fan di Natalia Ginzburg, autrice di un “Sempre Susan”, titolo italiano, sui suoi anni in casa Sontag, segretaria di Susan e amante di suo figlio David - si diverte e diverte. Con un non-romanzo che è una satira lieve della critica della morte del romanzo – specialmente fiorente, pare, nelle scuole di scrittura. Nonché dei manuali Sexual Misconduct, del training obbligato in Sexual Misconduct, delle scuole di scrittura, e degli animalisti, a partire dai veterinari.
Il trattamento narrativo del cane ereditato segue quello eponimo di J.R.Ackerley, “My Dog Tulip”, 1956 - la convivenza di Ackerley è con un cane moglie, quella di Nunez con uno marito. Nel quadro della storia di Coetzee: la compulsione erotica, le mogli, la figlia assente, gli animali. Che però qui è un’altra cosa: non un pastiche, proprio un’altra storia. Con un lieto fine che non è lieto.
Un libro anche di citazioni, dichiarate e non. Con qualche ripetizione. Scrivere è una religione è di Rilke o di Edna OBrien? Ma perché non sarebbe di entrambi? Un altro motivo di garrulo spasso, le citazioni non vanno prese sul serio (assolutizzate). 

Sigrid Nunez, L’amico fedele, Garzanti, pp. 221, ril. € 17,60

mercoledì 19 febbraio 2020

Problemi di base tristi - 540

spock

Tifare per Conte, o per Renzi?

Non c’è scelta, non c’è salvezza?

“Le aziende green crescono di più” – con i soldi pubblici?

“L’Italia è il paese con il maggiore saldo commerciale al mondo nella vendita di giostre”, Ermete Realacci?

Non c’è più religione?

La rendita non basta più, bisogna intaccare il capitale?

spock@antiit.eu

Profezia e avvento del mondo piatto


Un testo pubblicato nel 1883, anonimo, ignorato, riscoperto nel 1920, dopo Einstein e la quarta dimensione - il tempo. Abbott spiega il mondo a tre dimensioni, in attesa di una ancora ignota ma possibile quarta dimensione, immaginando il mondo a due dimensioni, in attesa di spessore. Il mondo bidimensionale è di “Linee Rette, Triangoli, Quadrati, Pentagoni, Esagoni e altre figure geometriche”. Una superficie piana, come una carta geografica, su cui le persone sono geometrie piatte, scivolano senza incontrarsi, senza sovrapporsi o urtarsi. Il narratore stesso è una di queste figura, un Quadrato.
Una lettura noiosa, dopo la prima meraviglia. Che però Calvino, “Come scrivere chiaramente” (in “Una pietra sopra”), dice suo personale modello, d’inventio e di ordine o modo di scrittura. E oggi evoca un senso oscuro di realtà – forse per questo è il libro con più edizioni in contemporanea: oltre che nella Bur, ultima della serie, da Adelphi (con una seconda edizione, traduzione di Federica Oddera e introduzione di Claudi Bartocci, dopo quella di Masolino D’Amico e Manganelli nel 1966), Feltrinelli, Einaudi, Bollati Boringhieri tra le case maggiori. Proponendo non una fantasia, o un divertimento mentale, freddo, ma un modo di essere. E non uno eccentrico o marginale, ma comune. Di un’esistenza oggi connotata o determinata dai non luoghi e dall’isolamento, nell’epoca che pure si vuole della Comunicazione e del Grande Mercato. Nel mutismo se non nel silenzio, e nell’impossibilità-incapacità di rapporti. Nei luoghi a questo funzionali: la stazione ferroviaria, l’aeroporto, il centro commerciale, l’ikea, l’ipermercato. Ma anche in quelli ristretti e quasi personali: l’automobile, il bus urbano, il droghiere sottocasa sempe aperto, il bar o il tabaccaio, il pianerottolo, la stessa abitazione, e finalmente internet, che sul telefonino ci segue ventiquattro ore fedele - ci insegue accanito?
La lettura diventa a questo punto coinvolgente, come una minaccia. Il mondo piatto è ordinato secondo una gerarchia rigida. La casta più vile, delle donne, è ridotta a semplici righe, con un occhio in punta, tanto da diventare invisibile - basta alle donne girarsi per svanire. Il rango e la posizione nella scala gerarchia dipendono dal numero di lati. I soldati sono triangoli isosceli. I sacerdoti dei circoli quasi perfetti. Le passioni non sono assenti, ma unidirezionali – avventate, intolleranti.
Con un lieto fine, ma amaro. Quadrato finisce perseguitato come eretico e pazzo. Ma non prima di avere incontrato una sfera, un extraterrestre proveniente da Spacelandia, il mondo a tre dimensioni. La novità lo porta a ipotizzare un mondo a più dimensioni, che c’è ma aspetta di essere scoperto.
Storicizzando, il libello sarebbe una satira della società vittoriana.E uno sberleffo al riduzionismo positivista. Abbott era di professione pedagogo, di una certa fama. Membro di una commissione di studio creata per rinnovare l’insegnamento della matematica, allora badata sulla geometria euclidea. Un racconto distopico, ma anche pedagogico.
Tradotto da Flavio Santini con introduzione di Massimo Marchiori.
Edwin A.Abbott, Flatlandia. Storia fantastica a più dimensioni, Bur, pp. 130 € 10

martedì 18 febbraio 2020

Oneupmanship romana

Succede in una giornata normale di questo assaggio di primavera a Roma di essere aggrediti da un fioraio, che vi contesta un posto di parcheggio che voi non cercate, ma non si smonta e anzi vi mette le mani addosso, malgrado i tremori della ragazzetta che lo serve, africana. E insiste. O da un controllore dell’Atac che emerge dalla fitta conversazione con una vergine ammirata e vuole multarvi: lei ha timbrato dopo che noi siamo saliti, tuona, dopo alcune fermate del tram numero 8, che va lento, mentre siete saliti insieme con lui, alla stessa fermata, dietro di lui che ostruiva l’ingresso, pretendendo il biglietto da chi scendeva, e non può non avervi visto, essendo voi l’unico passeggero in attesa sulla piattaforma.

Si viene catapultati nolenti nella cronaca nera che sembra remota, conati di violenza montando fuori e dentro – da fuori a dentro. Sarà questa la barbarie, quando la cronaca nera esce dagli angiporti delle questure. 
Anche i solleciti telefonici a cambiare operatore o gestore hanno da qualche tempo accenti romaneschi. Non diversi dagli altri, per la verità, ma più importuni, insistenti. E a rischio sicuro di maledizioni a microfono spento. Mentre l’Acea, che si è impadronita dei vostri codice Pod e codice Remi qualche decennio fa, non manca di mandarvi ogni paio d’anni fatture minatorie – quanto serve per metterle a credito nei bilanci.
Il tutto in romanesco di periferia, come vuole il trend – eccetto l’Acea, bisogna dire: l’Acea manda paginate avvocatesche, qualche piccola consulenza a qualche amico\a. Conviene dirsi di periferia, è il nuovo status. Che però è sancito dalla parlata, e quindi è discriminante: lascia senza difese.
Si è diffuso da qualche tempo nella paciosa Roma una sorta di sfida universale contro il mondo, una oneumanship individuale, l’ambrosiano-bossiano “ce l’ho più duro”. Contro nessuno in particolare e contro tutti. Tutti quelli che non pongono problemi per tatuaggi, pettorali, statura, ricchezza, turpiloquio.
Si aggirano queste “periferie”, sociali più che topografiche, di piccola borghesia, come mandrie impazzite, in cerca di non sanno che cosa. Hanno votato in massa Raggi, che gli ha promesso la teleferica e gli ha tolto l’Olimpiade, per “metterla in culo” al mondo. Dormono poco, tormentati dai debiti, che non pagano. Nell’Ottocento, prima e dopo Porta Pia, si accoltellavano, per ubriachezza. Ora non si ubriacano ma le spese hanno molte: tatuaggi, aperitivi, curva Sud, roadster, sfizi e scazzi, che finiscono costosi. Saranno gli insoluti – Roma ne è sempre stata la capitale, per la verità?

La tratta africana degli schiavi

La tratta degli schiavi fu soprattutto, per numeri e durezza, fine ed effetto dei jihad, le guerre islamiche di conquista, del secolo VII a tutto l’Ottocento. Poi degli assetti sociopolitici interni all’Africa, fino a colonizzazione europea inoltrata, ai primi del Novecento. La tratta atlantica viene in terza posizione, per numeri e durata, per due secoli, Sei e Settecento. Una verità semplice, basata su numeri e documenti, e incontestabile. Non polemica: Lovejoy, un americano marxista che professa all’università di York, a Toronto, è soprattutto interessato a questioni di metodo. Certo, sorprendente.
La presentazione è cauta, solo documentata. Questo è il terzo rifacimento in quarant’anni, dopo le prime ricerche degli anni 1970, di quella che è riconosciuta la summa di storia della schiavitù in Africa, a partire dal jihad islamico. Una novità al suo apparire, nel 1983: la schiavitù analizzata in Africa, dopo le tante ricerche sulle Americhe. Rifatta nel 2000. E poi nel 2012, questa edizione. Una storia quindi in costruzione. A mano a mano che la storia dell’Africa a sud del Sahara - del Sudan (bilal-al-Sudan , paese dei neri in arabo), o Africa nera come usava dire - a lungo ritenuta un mondo senza storia, perché senza scrittura, viene emergendo, con l’archeologia e anche con i documenti.
Ma qualcosa è già accertato: c’erano un milione di schiavi africani negli Stati Uniti all’indipendenza, un po’ meno di un milione, ce n’erano altrettanti alla stessa data, un po’ di più, nel regno (califfato) del Sokoto, gli attuali emirati di Kano e Kaduna nel Nord della Nigeria. La differenza, spiega il curatore italiano, Pavanello, è che i ras e i mercanti africani non investivano nella schiavitù, non creavano valore aggiunto. Ma forse no: le piantagioni c’erano, di spezie, cotone, gomma, che la conquista coloniale nella seconda metà dell’Ottocento ha spazzato via, perché non competitive senza la schiavitù. E la conquista coloniale fu facile perché le istituzioni non c’erano, o non c’erano più – eccetto che in Etiopia, stato cristiano, non schiavista. 
L’Africa era schiavista, come e più delle Americhe: “La schiavitù in Africa e il relativo commercio degli esseri umani ebbero la loro maggiore espansione in almeno tre periodi, dal 1350 al 1600, dal 1600 al 1880, e dal 1800 al 1900”. Ma anche prima il commercio era florido. Violento, di conquista,  oppure volontario, per fame.
Lo schiavismo come lo conosciamo è un fatto dell’islam. “Per più di 700 anni prima del 1450 il mondo islamico praticamente costituì l’unica influenza esterna sull’economia dell’Africa”. I jihad fecero subito molti schiavi, europei soprattutto e russi delle steppe meridionali, con qualche africano. Poi, cessata l’espansione attraverso il Mediterraneo, il serbatoio del lavoro servile divenne l’Africa. Di schiavi da indirizzare verso il Nord Africa, il Crescente islamico - oggi Medio Oriente - e l’oceano Indiano. Nei primi cento anni, approssimativamente, dopo la loro discesa “lungo le coste della Mauritania, del Senegambia e dell’alta Guinea”, i portoghesi commerciarono anche gli schiavi, in concorrenza con mediatori islamici, ma per mercati prevalentemente islamici, in Nord Africa, oltre che per le piantagioni di canna da zucchero nelle isole atlantiche, Madeira, Canarie e Capo Verde.
Gli studi sono avanzati, specie negli Stati Uniti, sulla tratta degli schiavi dall’Africa verso le Americhe. Ma la tratta ci fu prima, e forse più importante, verso il Nord Africa e il mar Rosso: “Oltre 12,8 milioni di schiavi lasciarono le rive della costa atlantica dell’Africa; e molti di più furono avviati verso i paesi islamici del Nord Africa, Arabia e Indie orientali”. Diventando anche il mercato più florido, sebbene non produttivo, della stessa Africa.
La tratta fu al centro dell’economia e della società africane per lunghi secoli, è l’altra novità di questa ricerca. Che la documenta con lunghi capitoli. Con la tratta “si consolidò  all’interno del continente africano una struttura politica e sociale ampiamente fondata sulla schiavitù”: ne dipendevano il commercio estero, la produzione, e il potere politico. Anche dopo che altrove si proibiva: negli Stati Uniti fu limitata con leggi del 1791 e 1794, in Gran Bretagna, che ne era stata il maggiore trafficante, abolita nel 1807 (Lovejoy trascura l’abolizione in Francia, decisa dalla Convenzione nel 1794). Fino all’occupazione coloniale, nel secondo Ottocento. A Saint-Louis (Senegal) nel 1875 si censivano 648 schiavi, di cui 98 appartenevano ai francesi e 550 ai residenti africani. In Nigeria, “intorno agli ani sessanta e settanta” dell’Ottocento, “a Ibadan c’erano 104 famiglie che possedevano nel complesso oltre 50 mila schiavi, una media di 500 schiavi a famiglia” – erano “eserciti privati, braccianti nelle piantagioni, artigiani, guardiani di mandrie e greggi, facchini”. Negli anni 1850 nel golfo di Guinea molti schiavi erano padroni di schiavi.
Prima della “scoperta dell’Africa”, più o meno coeva della scoperta dell’America, il traffico di schiavi dal “Sudan” era verso il Nord Africa e al di là dl mar Rosso. “Prima del Seicento, la tratta dell’esportazione attraverso il deserto del Sahara, il mar Rosso e l’oceano Indiano si era mantenuta per secoli a un livello da 5.000 a 10.000 schiavi l’anno”. Tra metà ‘400 e fine ‘500 “circa 410 mila schiavi furono esportati dall’Africa attraverso l’oceano Atlantico”, inclusi quelli sbarcati nelle piantagioni di San Tomé e Capo Verde. Nello stesso periodo “il volume della tratta atlantica fu di circa un terzo della contemporanea tratta islamica attraverso il Sahara, il mar Rosso e l’oceano Indiano”. La documentazione è scarsa, ma “le cifre riportate, 4,82 milioni per la tratta sahariana  tra il 650 d.C e il 1600, e 2,4 milioni per quella del mar Rosso e dell’oceano Indiano tra l’800 d.C e il 1600, potrebbero in realtà essere addirittura raddoppiate”.  
Una ricerca curiosa. Legata, anche in questo terzo rifacimento, a questioni dottrinali in area marxista, di Terray contro Amin, Hirst e Althusser. Ma pratica, piena di dati. Più interessante è la prima parte, storico- statistica. La seconda, più lunga, è una presentazione-dibattito sulle condizioni socio-economiche nelle varie realtà (regni) in Africa, prima e sotto il colonialismo. Molte tabelle riepilogano significativamente i dati noti della tratta: anni o periodi, provenienze, destinazioni, maschi, femmine, bambini, prezzi medi. Aiutano un glossario dei termini locali, delle lingue africane, e una dettagliata cronologia. Restano invece vaghi, rendendo la lettura ardua o insignificante, i dati topografici dei numerosi regni (in Africa di breve durata) e tribù sui quali si articola il racconto.
Tra fine Cinquecento e tutto l’Ottocento le proporzioni fra i due versanti costieri dell’Africa si invertono: su un totale di 11,7 milioni di schiavi “trattati”, il 75 per cento è indirizzato verso l’Atlantico, 8,7 milioni di persone. I più, quattro su dieci, li trattano i mercanti di schiavi inglesi, il 34 per cento i portoghesi, il 17,5 i francesi, un 5 per cento gli olandesi – con un 1 per cento (67 mila) trattato dai danesi, mentre gli spagnoli non praticavano la tratta (se non per 11 mila schiavi in totale nei tre secoli, lo 0,2 per cento).
Ma nell’ultimo secolo del periodo considerato, l’Ottocento, quando sulla rotta atlantica si impose il proibizionismo, i jihad islamici rialimentarono la tratta: “Il XIX secolo fu un periodo di violenti sconvolgimenti nella savana settentrionale e in Etiopia. A partire dal 1804, dal Senegambia a ovest, al mar Rosso a est,una serie di jihad sconvolse la maggior parte di questa regione”, fattore centrale lo schiavismo. Attraverso il Sahara e il mar Rosso “1.650.000 individui furono esportati nel corso del secolo nel Nrdafrica e il Medio Oriente… Inoltre, i jihad comportarono la riduzione in schiavitù di milioni di altre persone”, al lavoro per i nuovi potentati.    
Tabelle circostanziate sono ricostruite anche sulle aree o i paesi di provenienza. A lungo la gran massa degli schiavi avviati alla tratta atlantica provenne dalla parte meridionale del golfo di Guinea, dalle coste dell’odierna Angola, via Luanda e Cabinda – insieme col samba. Nel secondo Ottocento, invece, quando in teoria la tratta degli schiavi era illegale, fu esercitata soprattutto in Africa orientale, attraverso Zanzibar e la costa kenyota di Mombasa. Vi si esercitarono da ultimo anche i regnanti cristiani dell’Etiopia – ma più vi si esercitarono le famiglie meridionali del regno, dei Galla, camiti, mezzo islamizzati.    
Per un lungo periodo alimenteranno la tratta gli Stati africani, nel tentativo di impadronirsi del lucroso commercio. In quattro modi: guerre e razzie, una sorta di “abigeato” umano fra stati confinanti, la “diffusa illegalità” interna, anche qui con rapimenti e razzie, la vendita dei carcerati, condannati o sospettati – “la schiavizzazione divenne la condanna più comunemente inflitta in luogo di ammende pubbliche, compensazioni materiali o pene capitali”. Già subito, dopo la “scoperta dell’Africa”, e poi di più dopo la scoperta dell’America, la tratta fu opera africana. A lungo in esclusiva. Molte tribù o regni si baseranno sulla tratta. A Nord del Golfo si distinguerà il regno del Dahomey. Subentrato dagli asante della Costa d’Oro (Ghana). E il delta del Niger, con i punti d’imbarco di Bony (ora petrolifero) e Calabar, sbocchi degli emirati di Kano e Kaduna, della Nigeria settentrionale. Il Nord del golfo verrà chiamato la Costa degli Schiavi.
Gli schiavi non furono la sola merce d’esportazione africana. “In certe regioni, come la valle del fiume Zambesi, l’Etiopia, l’Alto Nilo, la Costa d’Oro e il Senegambia, erano al secondo posto dopo l’oro”.  Ma furono la merce più ubiqua, a disposizione di tutti, a differenze di quella mineraria, e la più sfruttata, più intensamente e più a lungo. Si scambiavano nei primi secoli, fino a tutto il Seicento, prevalentemente contro conchiglie cauri, usate come monete, tessuti dall’India, i guiné, usati anch’essi prevalentemente come monete, e braccialetti manilla, intrecci di rame e ottone, anche questi usati come monete. Poi, dal primo Settecento, contro armi da fuoco. Che dai primi del Settecento divennero la “moneta” preferita, insieme ai tessuti stampati. 
Il colonialismo è stato paradossalmente la liberazione dell’Africa dalla schiavitù. Cauta, progressiva, per non inimicarsi i potentati locali, a volte ipocrita (i due Bonaparte la restaurarono sotto falso nome), ma le leggi andavano applicate, e i governatori inglesi e francesi si ingegnarono di farlo. “Nel XX secolo, funzionari coloniali e antropologi, spesso incaricati dai governi, scoprirono che la schiavitù era diffusa in quasi tutta l’Africa. Malgrado gli sforzi di descrivere quella schiavitù come qualcosa di diverso dalla schiavitù praticata nelle colonie europee, specialmente nelle Americhe, fu comunque chiaro a tutti che la schiavitù continuava a esistere, sia pure in forme diverse”. Soprattutto complessa fu l’applicazione delle leggi antischiavitù in ambiente islamico, negli ex califfati. Ma con vari accorgimenti – molti funzionari britannici si specializzarono nelle leggi islamiche – anche qui la schiavitù fu rapidamente ridotta e poi eliminata.

Cosa resta? Un deficit demografico e di competenze che ha handicappato il Sudan, il continente africano a sud del Sahara nel Novecento, nel grande balzo verso la ricchezza – malgrado le guerre, grazie alle guerre? Prima e dopo le indipendenze. Un handicap superato ora, sia in demografia che in formazione, da un eccesso in senso opposto, di una esplosione demografica - grazie anche anche alla sanità - e delle competenze. Ma senza infrastrutture e strutture in grado di assorbirle. “Storicamente”, è la sintesi in conclusione, “l’Africa ha vissuto un continuo drenaggio di popolazione”, verso l’esterno e al suo interno. Della popolazione in età produttiva, ridotta in schiavitù, in condizione servile, oppure uccisa al momento delle frequenti razzie.     
Paul E. Lovejoy, Storia della schiavitù in Africa, Bompiani, pp. 572 €  21



lunedì 17 febbraio 2020

L’Ue a tre con Londra sulla Libia, e senza l’Italia


Si chiude la conferenza per la sicurezza a Monaco con un nulla di fatto sulla Libia. Il blocco della vendita di armi, come richiesto dall’Italia per facilitare un cessate il fuoco, interinato dalla conferenza di Berlino sulla Libia a metà gennaio, ha incontrato solo adesioni formali: le vendite  continuano massicce, ha documentato il Rappresentante dell’Onu per la Libia. Da parte di Turchia, Emirati Arabi ed Egitto, che le acquistano  anche in Gran Bretagna e Francia.
Le forniture britanniche e francesi si distinguono perché provengono da due paesi che, con la Germania, costituiscono l’E 3, una sorta di supercomitato europeo. Costituito quindici anni fa nel quadro del negoziato multipolare sulla Bomba atonica iraniana, e poi eretto a foro ufficioso delle politica estera e di difesa della Ue.
L’E 3 è una delle tante asimmetrie Ue. La quale è rigidamente, eccetto che per le cose sostanziali: l’asse franco-tedesco e l’E 3. C’è ancora un’Europa a 3, malgrado la Brexit, l’uscita e festeggiata della Gran Bretagna dalla Ue. Che a dicembre, al vertice Nato di londra, ha discusso della Libia con la Turchia, ma senza l’Italia.
A Monaco il governo tedesco, in rotta parziale con Parigi sul futuro dell’Unione, e senza più la sponda inglese, ha aperto all’Italia. Proponendo e decidendo che il prossimo riesame dell’itinerario di pace in Libia deciso a Berlino a metà gennaio si tenga a a marzo a Roma. Ma niente sulla sostanza: il blocco delle forniture di armi, le pressioni economiche sui contendenti.

Cronache dell’altro mondo - 55


Si premiano con gli Oscar film brutti e bruttissimi. Per fare di Hollywood la capitale del cinema latino-asiatico, nel quadro della politica americana centrata sul Pacifico.
Il processo a Weinstein per le violenze sulle donne, il primo di tanti processi annunciati, si è fermato dopo che la prima teste d’accusa si è rivelata una ex non pagata abbastanza, capace solo di ingiuriare il produttore in udienza.
Milleseicento nuove chiese sono state registrate negli Stati Uni negli anni 2010.
La manipolazione dei serpenti è al centro di numerose comunità religiose , tra Pentecostali, Carismatici e e il movimento metodista della Santità (Holiness). Attive soprattutto nei monti Appalachi, dal Maine all’Alabama, da circa un secolo. Il pastore va in trance con lo Spirito Santo, che lo rende immune ai veleni.
Gli Stati Uniti hanno spiato nel lungo dopoguerra tutti, avversari e alleati. Dapprima dalla Svizzera, con una società di comodo della Cia, fornitrice di strumenti di decrittazione. Poi, negli anni dopo l’11 settembre, con le presidenze Bush jr. e Obama, a raffica, tutte le corrispondenze dell’universo mondo, nel quadro della difesa dal terrorismo.
Il Sessantotto fu in America il ’67: gli studenti occuparono le università. Nel 1968 uccisero – non furono gli studenti – Martin Luther King e Bob Kennedy. Un anno dopo Nixon mandò la guardia nazionale a sparare contro gli studenti della Kent State University in Ohio, che protestavano contro il bombardamento intensivo americano della Cambogia.

Poesia e manicomio


Dal lascito di Oreste Macrì, l’ispanista, che ha aiutato Alda Merini in vari modi, anche finanziariamente, due raccolte a lui indirizzate, più alcune lettere. E una serie di poesie sull’“amore peninsulare” (Giorgioo Manganelli) di Merini con Pierri, a Taranto. Un volume composto all’insegna della pugliesità – Macrì, una vita a Firenze, era di Maglie.
Una singolare pubblicazione. “Confusione di stelle” è titolo redazionale per componimenti per lo  più inediti, qui raccolti per la prima volta, organizzati da Riccardo Redivo. Sempre nell’alveo del fenomeno Merini. L’emozione di una poesia alluvionale, di fronte alla quale lo stesso curatore, cultore della materia, procede frastornato. Di versificazione, immaginativa, controllata, ritmica, anche rimata, fluida, come un linguaggio quotidiano. Qui con punte di professione religiosa. E anche di acredine – solo con figure femminili. A partire da Emily Dickinson: pochi versi ma epigrammatici, velenosissimi.
Un fenomeno ancora in attesa, malgrado la persistenza, e il richiamo esteso, di una sistemazione critica. Redivo, che più di tutti vi si è dedicato (dopo i grandi nomi che accudirono Merini agli esordi, negli anni 1940-1950, e prima del manicomio, Spagnoletti, Corti, Manganelli), trova ancora evidenti difficoltà. Lo scoglio maggiore è la malattia mentale: come si concilia tanta facilità verbale, di versificazione anche complessa, e comunque pregnante (parlante), con la malattia mentale. Dove il problema, però, potrebbe non essere di filologia ma di medicina, della mente. Della “malattia” e non della versificazione – dopo i tanti pazzi ottimi poeti, da Hölderlin a Robert Walser. La psichiatria si è molto affinata da qualche decennio, e ha affinato le sue classificazioni. Ma ancora non ha un percorso per il genio.
Alda Merini Confusione di stelle, Einaudi, pp. XXV + 125 € 12,50

domenica 16 febbraio 2020

Letture - 411

letterautore
Andersch – Lo scrittore italianista, di un romanzo anche su Venezia, “La Rossa” (Venezia), fu in guerra in Italia nel 1943-44, nella Wehrmacht durante l’occupazione, poco sotto la linea Gotica, nella Toscana che fu teatro di molti eccidi. Da dove scriveva divertito alla madre, nell’autunno del 1943, di un viaggio in side-car con un ufficiale superiore: “Pisa, la Torre pendente, la cattedrale … un meraviglioso paesaggio italiano con belle facciate sull’Arno che mi sono passate davanti…. Siamo alloggiati in un carinissimo piccolo villaggio… la sera è mite e tiepida, la bottiglia di Chianti fa il giro. E per tutto questo fare il soldato al 100%. Ma è divertente”.

Costanzo Show – Sarà stato la fucina degli scrittori più amati, seppure in età – senza glamour, o appeal fisico: Camilleri e Merini.

Dante – L’ultimo remake, non tradotto, della “Divina Commedia” sarebbe (è stato così presentato, ed è reputato) di Peter Weiss, 1965, “L’istruttoria”. Un piccolo “Inferno” teatrale, “un “oratorio”, in undici canti. Limitato a un solo gruppo di condannati, i diciassette del primo processo in Germania per la persecuzione degli ebrei, a Francoforte nello stesso anno.

Sebald, “On the natural History of Destruction”, p. 189 (l’edizione anglo-americana, che comprende anche due saggi su Jean Améry e Peter Weiss), lega le pene dell’Inferno a un’esperienza personale che Dante avrebbe maturato, a Parigi: “Dante, bandito dalla città natia sotto pena di morte per fuoco, era probabilmente a Parigi nel 1310, quando cinquantanove Templari furono bruciati vivi in un solo giorno”. Un’esperienza del genere il critico dice necessaria per “la giustificazione della preoccupazione sadomasochistica, la ripetuta e virtuosistica rappresentazione della sofferenza”.

Giallo – Ha molti antenati. Del Buono faceva risalire alla Bibbia pure il giallo. Calvino invece a “Zadig”, il racconto di Voltaire, “la narrazione a procedimento induttivo” - argomentando il 24 ottobre 1972  con Franco Ferrucci, che gli aveva prefato il racconto per la collana Centopagine.

“La gabbia più vera per uno scrittore è il romanzo giallo”, Sciascia confidava a Camilleri (“La testa ci fa dire”, 81). Per imporgli un piano un piano di lavoro, una scrittura a progetto e non rabdomantica.

Italiano – I “Racconti italiani contemporanei”, una antologia di 700 pagine pubblicata in rumeno a Bucarest a maggio del 1964, tirata in ventimila copie, era andata subito esaurita – la traduttrice di Calvino, Despina Mladoveanu, lo comunicava en passant allo scrittore il 25 maggio. 

Mabuse – Il “Dr. Mabuse” di Thea von Harbou e Fritz Lang Sebald vede al finale della “Storia naturale della distruzione” ricalcato sull’ebreo prototipo dei “Protocolli di Sion”: uno di incerta origine che cavalca il potere, speculatore, baro, falsificatore, provocatore, falso rivoluzionario, ipnotista – anche il sesso praticando in forme ignobili.

Montalbano – È Sciascia, e un po’ anche Sgarbi, assicura Camilleri a Sorgi in “La testa ci fa dire”, 105-107, delineando il carattere del personaggio: “In tante cose ho preso da Leonardo Sciascia”. Non dalle opere, dall’uomo:  “Tra quelle riconoscibili, c’è il suo caratteristico impaccio nel parlare in pubblico”. Più il turpiloquio, che invece dice proprio suo, di Camilleri.

Morselli - Ovunque si è trovato contro Vittorini, che tanta pessima letteratura ha promosso da Einaudi, e tanta ottima ha bocciato da Mondadori, il Gattopardo, Živago, Simenon, Grass.
Calvino, che ha pubblicato anche lui boiate immense, ha dedicato al romanzo della vita di Morselli un viaggio in treno fino a Milano, un’ora e mezza da Torino, e gli ha negato la pubblicazione. Ma Torino è fatale, si sa, alla letteratura.

Nievo – Ha estimatore anche Camilleri, “La testa ci fa dire”, 157: “Giustamente si considera un capolavoro «Le memorie (sic!) di un ottuagenario» di Ippolito Nievo, ma nessuno parla più di un altro libro di Nievo, il fantastico «Barone di Nicastro», dal quale nasce tutto intero Calvino”.
Camilleri estimatore in aggiunta allo stesso Calvino, e a Gadda. E a Carducci, che lo ha copiato per la migliore della sue poesie, “La nebbia a gl’irti colli”.

Oscar – “Parasite”, dopo “Roma”, dopo “La forma dell’acqua”, gli Oscar sono un’altra cosa: non premiano il miglior cinema. Film senza soggetto, non degno di memoria, senza sceneggiatura, senza più immagini da repertorio, e anche professionalmente film a tirare via, i vecchi film di serie B, superpremiati. Forse perché la platea dei votanti si è moltiplicata, da tremila a forse diecimila e oltre. Di essi 5.100 erano attivi secondo una inchiesta del “Los Angeles Times” del 2012. E quasi tutti, allora, “caucasici”, cioè americani ed europei. Dopo di allora la platea, tenuta confidenziale, si sarebbe allargata molto all’Asia. Salvatores, uno di quelli che vota sempre (i premiati sono di diritto membri dell’Academy hollywoodiana), pensa che gli aventi diritto siano oltre diecimila.

Pavese – Calvino, “I  libri degli altri”, 545, lo collega a “un nietzschianesimo torinese, che ebbe in Pavese il più originale rappresentante”.

Popolare – Per la musica si è dovuto aspettare Roberto Leydi, che nel 1973 stampò “I canti popolari italiani”. Una sfida: vent’anni prima, quando Lomax realizzò la strepitosa raccolta di canti italiani, e da Einaudi uscì la “Musica Popolare” di Bartók, Calvino sul suo “Notiziario Einaudi” fece scrivere a Mila che Bartók non se ne intende, che la musica popolare non esiste, che quella di Bartók è musica colta volgarizzata. E a Carpitella, che aveva aiutato Lomax e rispettosamente lo segnalava, Mila consigliò di leggersi qualche libro, prima di andare in giro col registratore. Calvino che del popolare si è voluto un paio di anni dopo cultore, di leggende, fiabe, orchi e sirene.
Ma è vero che il popolare è difficile: molti canti della tradizione scozzese inventata da Walter Scott erano di David Rizzio, il segretario della regina Maria, assassinato nel 1566, che era nato Riccio a Torino, ed era stato ambasciatore del duca di Savoia in Scozia - lo riconosce pure Hawkins, nella “General History of the Science and Practice of Music”.

Sciascia – “Quel gioco di verità e impostura – di ascendenza pirandelliana”, in realtà “contestazione cervantino-unamuniana-pirandelliana”, con “il Gogol via Brancati”, ne è la cifra per Calvino”, che gli scrive dopo aver letto la pièce “L’Onorevole”. Vedendolo - lo consiglia in tal senso - “sul punto di liberarsi” della “compostezza manzoniana”: “Non è la compostezza illuminista che devi rompere ma quella manzoniana (Manzoni da Voltaire e Diderot aveva imparato moltissimo, ma Voltaire e Diderot i loro demoni li avevano e come; Manzoni no)”. Personalmente riservandosi con l’amico - non solo lui, anche altri nell’editrice, assicura: “Ma possibile che questo accidente di uomo sia sempre così controllato e cosciente e funzionale nella sua missione di moralista civile, possibile che mai salti fuori in persona col suo demone, il suo momento lirico e privato in contrapposizione a quello pubblico e storico, il suo «mito», la sua «follia»?” Personalmente Calvino lo individua quale “saggista letterario, sociologo della civiltà di massa e riformatore giansenista”.

Torino – Calvino, che vi visse a lungo, forse suo malgrado, non ne ha grande opinione, non come città d’arte o poesia. A Grazia Marchianò, che gli prospettava una pubblicazione sulla “piemontesità” in letteratura, arguisce (“I libri degli altri, pp. 644-645): “Ma, a parte l’abbinamento Zolla-Calvino, che è la Sua tesi, gli atri nomi non pensa che siano messi insieme un po’ a caso? Questo Piemonte, lei è ben convinta che esista?” Anche se obietta in realtà alla scelta dei nomi: “Perché c’è Arpino e non Fenoglio…? …Perché c’è Zolla e non Citati, mentre erano compagni di scuola fin dai banchi del ginnasio…. E Giacomo Debenedetti”? Di fatto la ex capitale è stata terra di geni precoci, Giaime Pintor, Gobetti, lo stesso Gramsci. Negli anni 1930 era fervida capitale delle arti: Lionello Venturi all’università, con forte presenza di architetti /Giuseppe Pagano, Carlo Mollino, Ettore Sottsass, Alberto Sartoris), scultori, pittori e letterati. E intellettuali, Pavese, Soldati, Antonicelli, Ferdinando Neri, Arnaldo Momigliano, Carlo Dionisotti. Negli anni Cinquanta i “ragazzi di via Po” di Cazzullo, i giovani alluniversità , che sono e resteranno fuori dalla costellazione Einaudi (Vittorni-Cavino): Eco, Vattimo, Magris, Furio Colombo, Ceronetti, Sanguineti, Casorati, Cremona, Spazzan. A parte il nazionalpopolare: Gozzano, Guglielminetti, Salgari  eccetera.

letterautore@antiit.eu

L’illuminismo alla prova donna

Una raccolta del 2008, appena ieri, che sembra remotissima. Un manuale preistorico: si leggono a Millennio inoltrato le massime e le spiritosaggini libertine come una raccolta strana, forse per ridere. Il “comune senso del pudore” c’è sempre nel codice penale, per misurare l’“osceno”, ma a nessun fine pratico, giusto per connotare, al caso, che cosa è osceno, e che cosa è pudore, ma non per sanzionare e punire – una legge non normativa.
L’antologia è peraltro più di “saggezza” che di erotismo, e non di qualità. Non c’è molto da aspettarsi da Laclos, Bachaumont, Crébillon, Latouche, Nerciat, Mairobert, Mirabeau, Sade. Ma anche da Diderot? L’effetto è di denudare il Settecento francese, dopo la morte di Luigi XIV. Dalle malizie rosa di Boucher e Fragonard alle “dure e coraggiose verità” (Croce? così dice Reim) di Sade è il  secolo del rococò, “l’epoca d’oro del libertinismo erotico” (Reim). E dell’illuminismo.
Il libertinismo finisce così nel suo contrario, argomenta Reim, nell’illibertà. Col supporto di Giovanni Macchia, il francesista principe oggi dimenticato, che lo trova “ingabbiato nella necessità della natura”. E di Piovene, a proposito di Sade: “L’ultimo esito della coerenza è la disperazione della ragione”. Ma non solo di Sade: Diderot apodittico, fuori dall’argomentazione, suscita solo disagio.
La lettura finisce per essere “vera”al contrario: non un’apologia ma una denuncia. La sezione conclusiva, “Riflessioni politiche e morali”, è di un’indigenza ridicola. La sezione “Donne”, che apre la raccolta, è solo imbarazzante. Diderot c’è poco in questa sezione, ma è il peggiore: “Le donne, per la maggior parte, sono senza carattere; sono mosse con violenza da tre cose: l’interesse, il piacere e la vanità”; “l’incostanza offre una serie di piaceri ignoti a chi è davvero innamorato”; “le donne oneste sono davvero rare, rare all’eccesso”.
Riccardo Reim (a cura di), Aforismi proibiti e libertini, Newton Compton, pp. 167 € 5