sabato 23 maggio 2020

Appalti, fisco, abusi (173)

Il segnale di fiducia sul debito pubblico venuto dall’asta del Btp questa settimana è tanto più rilevante in quanto interviene in un momento in cui il risparmio si mantiene liquido. L’Italia è il paese che, con la Francia, secondo i dati della Banca centrale europea, ha più accresciuto i depositi in banca nel mese di marzo - il primo del blocco degli spostamenti e dei consumi.
Ne hanno beneficiato subito le grandi banche, in Borsa e negli attivi, Intesa, Unicredit. Ma anche le medie e piccole, buone e cattive che siano, tutte rafforzati negli attivi.
 
Avevano appena provato a ripartire alla grande, le banche e le imprese, col credito pubblico assicurato dalla Sace, che lo stesso governo che ha aperto questo canale per il recupero del blocco della produzione lo chiude. Non lo chiude, ma praticamente sì, sottoponendolo al potere politico. Nella persona del 5 Stelle Buffagni, vice-ministro dell’Industria, commercialista della Cattolica: un altro del corpaccione ex democristiano.
Erano ripartite con un ruolo attivo anche qui le grandi banche, Intesa, Unicredit, ma pure quelle regionali, Mps, Bper, Bpm. E quindi a beneficio di tutto il Sistema Italia.
 
Singolare, negli obiettori del finanziamento agevolato, la messa in stato d’accusa del dividendo. Della remunerazione del capitale di rischio. Singolarissimo per l’ex ministro Calenda, che è stato dirigente d’azeinda, prima di rifarsi un avvenire in politica, e il dividendo dice un furto. Nel 2020.
Singolare anche perché senza dividendo le fondazioni ex bancarie, che sono uno dei perni del sottogoverno, non hanno risorse da spartire.
 
Le farmacie vendono le mascherine (FFP2), non lavabili, a € 7,90, l’una. Il gel disinfettante, il contenitore minimo, 150 cl., a € 6,90. Mentre il commissario Arcuri si sbraccia a dire che sono disponibili a un decimo, anzi a un quindicesimo.
Roba col bolino CE ma senza indicazione di provenienza - la Cina probabilmente,  per l’inevitabile errore di spelling inglese (probabilmente di  Hong Kong, il produttore essendo una Ltd.).


Andreotti o la santità della mediocrità

Trent’anni fa, gorno più giorno meno, si annotava:
“Elogi a tutto campo a Giulio Andreotti , abilità, umanità, cultura, sapienza, eccetera, alla presentazione del suo ultimo libro, “Gli Usa visti da vicino”, da Ugo Stille e Furio Colombo (Andreotti ha replicato: «Dovrei forse farmi un po’ di autocritica, criticarmi io stesso, ma abbiamo poco tempo perché devo correre alla Camera»).
“Un po’ incide la captatio benevolentiae del potente. Ma più incide la popolarità del tipo Dc. Stille e Colombo sono, per la storia personale, anti-Dc, ma a Andreotti si sono prosternati.
“C’è ormai un’identificazione del paese con la Dc, asta che assuma la faccia arguta di Andreotti, non ci affoghi nella crisi economica, e nella corruzione, non uccida troppe persone. Scompaiono, nonché le pretese di riforma, perfino le richieste di buongoverno, o razionale uso delle risorse, di una politica che non intralci così robustamente il benessere.
“Forse l’Italia non cambia perché non vuole cambiare. È un figlio cresciuto che non ha più la voglia, nonché il coraggio, di fare una sua vita indipendente. È inevitabile, 45 anni sono due generazioni, l’Italia diversa si fa sempre più rara. Per l’alternativa ci vorrà prima uno scossone molto forte: crisi economica, scandalo, strage.
“Così, nella palude, Andreotti diventa il «segnato di Dio», poiché ha potuto fare e disfare con una percentuale di obbrobrio altissima  (80-90 per cento? La gestione della Difesa negli anni Sessanta, il governo con i missini, Moro… sono abissi non colmabili). E dimostrarci che non c’è nulla di meglio della mediocrità. Di più popolare”.


L’autore ordina il caos

A cura di Ottavio Fatica, raggruppa due titoli - “Nel territorio del diavolo”, sul mistero di scrivere,  e “Sola a presidiare la fortezza”, una raccolta di lettere, sempre sul mestiere di scrivere - della stessa editrice. Che confermano, messi assieme, la singolarità di Frances O’Connor, narratrice sempre. Non solo con i corrispondenti, misteriosi e evanescenti, come potrebbero essere i personaggi di un romanzo, manovrabili come pedine. Ma anche nei saggi, otto – che nell’edizione originale s’intitolano “Mistery and Manners”. Lezioni più che saggi, quindi ancora più aride tematicamente, più ardue da trattate - i romanzi del romanziere, la narrazione del narratore, o le tecniche espressive. Da maestra di scuola, di scrittura. Cose aride, che però si animano.
Il personaggio aiuta – come già si notava in questo sito
http://www.antiit.com/2016/10/sul-mistero-di-scrivere.html
http://www.antiit.com/2017/04/la-fede-al-tempo-della-miscredenza.html
Di cultura articolata, e di fede professata – “cattolica” è il suo brand, tanto più eccentrico nel Sud biblico: “La Chiesa e lo scrittore di narrativa” è uno dei testi, “Il romanziere cattolico nel Sud protestante” un altro. Ma arguta, vivace, brillante, acuta. Attratta dall’irragionevole, nel quale riscontra la superiora razionalità del mistero - della fede. Crociana, senza saperlo: “Quando si scrive, si vede come il modo di costruire qualcosa governi il suo significato globale e ne sia inseparabile. La forma dà al racconto un significato che qualsiasi altra forma cambierebbe”.
Con due ottimi saggi. Una prefazione di Christian Raimo, che resta il miglior contributo italiano alla lettura di O’Connor. E una postfazione di Ottavio Fatica, cui si deve la scoperta e la traduzione,  già nel 1983, di “Mistery and Manners”, che circolava per la scuole di scrittura come opera cult - la traduzione fu in realtà di gruppo, del corso di inglese della Seti, Scuola Europea di Traduzione Letteraria, coordinato da Fatica: un gruppo nutrito, di tutte donne.
Frances O’Connor, Un ragionevole uso dell’irragionevole, minimum f ax, pp. 376 € 16


venerdì 22 maggio 2020

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (426)

Giuseppe Leuzzi
“Per anni mio marito, barese, si è ostinato  salutare i vicini milanesi, ricevendone una sovrana indifferenza”, racconta “Elasti”, Claudia de Lillo, sul settimanale “D la Repubblica”. È vero? È verosimile, molto.
Il marito, “economista marxista barese”, insegna a Londra ma la metà del tempo è a Milano.
 
“Sono di Reggio Calabria e a RegGio non cambiamo idea facilmente!”. Così Fubini fa esordire sul “Corriere della sera” Domenico Arcuri, il commissario del governo per l’emergenza. Usava dire-dirsi del calabrese che è “testardo”. Cocciuto, e quindi affidabile. Ma dev’essere una specie che si è perduta – insomma, poiché c’è Arcuri, si sta perdendo.
 
Arcuri non aveva finito di parlare che le farmacie hanno reso infine reperibili le mascherine, che epr settimane avevano sottratte al commissario governativo, ma imponendo il prezzo che usavano prima sottobanco: € 7,50 a mascherina, quindici volte il prezzo equo di Arcuri. Per un prodotto senza provenienza e senza garanzia. Il seme delle teste dure in Calabria si va perdendo, senza che la Calabria cominci a scoprire l’Italia.
 
Niente tamponi e niente drammi (distanziamento, mascherine, chiusure) per il contagio in Svezia. Che per questo viene ad avere, benché relativamente isolata, uno dei tassi di mortalità più alti per contagio in rapporto alla popolazione – quattromila su dieci milioni di persone. È un altro modo di concepire la vita, singola (la Svezia pratica pure l’eugenetica sui nascituri) e in comunità. Più o meno felice? Sicuramente più ricca.
 
 “A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza, e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. È criptico il vangelo di Matteo, 13,12. Ma una cosa è chiara: il sottosviluppo è una battaglia con se stessi – checché il Vangelo voglia dire.
 
La ruga calabrese
Una stranezza  del romanzo di Scalfari, “La ruga sulla fronte”, 2001, è l’uso in alcuni episodi del dialetto calabrese. Che è diventato materia di un paio di film recenti - come lingua, quindi in traduzione nei sottotitoli - ma mai nella narrativa, anche di narratori localistici, come Criaco e Gangemi. Si trovano forme espressive calabresi in narratori italo-americani, italo-canadesi, italo- australiani, ma non in italiano.
Scalfari lo usa nella forme del vibonese, attorno a Stefanaconi. Quindi a memoria, dai due anni che vi trascorse a fine guerra, dopo il 1944. Dopo, cioè, cinquant’anni. E per averlo solo ascoltato, molto probabilmente, all’epoca ma non praticato. Per un periodo breve. Ma con appropriatezza, semantica, se non fonetica e lessicale. Il dialetto della parlata borghese, quindi addolcito. Anche articolato e pieno, non asintattico. Né gutturale quale usa - per suoni tronchi. Ma “naturale”, filologicamente espressivo, e preciso.
Preciso anche nei caratteri. Il lamento funebre del vecchio, che piange la moglie morta, è piccolo capolavoro di filologia Sociale, linguistica, espressiva, significativa. E della figlia: “Matri, tu ‘ndi facisti e ‘ndi criscisti…”. Lo usa per caratteri fermi, stabili. Bene o male che si indirizzino. Un ricordo – un tributo? – probabilmente paterno: del padre presente-assente, che ha fatto nella vita quello che ha voluto (è stato l’inventore e l’animatore della fortuna turistica e mondana di Sanremo, negli anni 1930, da direttore del casinò), senza considerazioni di opportunità o di semplice prudenza. Molto in carattere.

Pasolini leghista
Il poemetto “L’umile Italia”, spiega l’ottima voce “Pasolini” di Wikipedia, “apparve nell’aprile del 1954 su «Paragone-Letteratura» e rappresenta la contrapposizione tra la cupa tristezza dell’Agro romano e la limpida luminosità del settentrione”. Il Nord, il cui emblema sono le rondini, è puro e umile e il Meridione è “sporco e splendido”. Con qualche attenuazione, ma alla fine con durezza: “È necessità il capire/ e il fare: il credersi volti/ al meglio”, cercando di lottare nella sofferenza, senza lasciarsi andare alla “rassegnazione - furente marchio/ della servitù e del sesso -/ che il greco meridione fa/ decrepito e increato, sporco/ e splendido”.
È questa una figura del linguaggio, “sottospecie dell’oxymoron, che l’antica retorica chiamava sineciosi”, annota Fortini - che la dice “la più frequente figura del linguaggio di Pasolini” - “con la quale si affermano, d’uno stesso soggetto, due contrari”. Per non dire nulla, giusto un po’ d’irritazione?
Pasolini, è vero,fa sempre una distinzione netta fra “Italia del Nord” e “Italia del Sud”. I giovani sono “del Nord” e “del Sud”. La storia lo è. È diverso l’operaio della Breda da un disoccupato romano o un bracciante calabrese . Il che è solo ovvio ma non in virtù dei meridiani: che ha in comune l’operaio della Breda con i contadini di Olmi? Anche se molto, poi, ce l’hanno in comune, tutti questi simboli.
Anche il fascista è diverso al Nord e al Sud, Pasolini spiega il 19 novembre 1960 su “Vie Nuove” (ora in “Le belle bandiere”, p.83), a proposito dei suoi “amici” friulani: “Mentre si può dire quasi con l’assoluta certezza che un fascista centro-meridionale è un disonesto, un profittatore, o, nel migliore dei casi, uno che si arrangia servendo, questo giudizio non vale sempre per un fascista settentrionale, e, nella specie, friulano. Spesso, nella condotta, nel lavoro, nella vita privata i nazionalisti o fascisti di lassù sono delle persone oneste e inappuntabili”.
Il Sud di Pasolini è Napoli e la Calabria. Di Napoli apprezza tutto, anche il manolesta che gli ruba il portafoglio in un rapporto intimo. Della Calabria gli dà fastidio quasi tutto, malgrado lo stretto rapporto con Ninetto Davoli, il premio Crotone, un riconoscimento da lui molto apprezzato, e la sua stessa volontà. Più per esteso ne parla il 10 dicembre 1960 su “Vie Nuove” (anche questo articolo ora in “Le belle bandiere”, pp. 90-92): “Tra tutte le regioni italiane la Calabria è forse la più povera: povera di ogni cosa: anche, in fondo, di bellezze naturali”. Ed è stata, “oltre che bestialmente sfruttata, anche abbandonata”, per millenni: “Da questa vicenda storica millenaria non può che risultare una popolazione molto complessa, o per dir meglio, con linguaggio tecnico, «complessata». Un millenario complesso d’inferiorità, una millenaria angoscia pesa nelle anime dei calabresi, ossessionate dalla necessità, dall’abbandono, dalla miseria”. E poiché “i «complessi» psicologici impediscono uno sviluppo normale della personalità”, i calabresi “sono molto infantili e ingenui”. Questo per quanto riguarda il popolo.
Pasolini, è vero,fa sempre una distinzione netta fra “Italia del Nord” e “Italia del Sud”. I giovani sono “del Nord” e “del Sud”. La storia lo è. È diverso l’operaio della Breda da un disoccupato romano o un bracciante calabrese . Il che è solo ovvio ma non in virtù dei meridiani: che ha in comune l’operaio della Breda con i contadini di Olmi? Anche se molto, poi, ce l’hanno in comune, tutti questi simboli.
Anche il fascista è diverso al Nord e al Sud, Pasolini spiega il 19 novembre 1960 su “Vie Nuove” (ora in “Le belle bandiere”, p.83), a proposito dei suoi “amici” friulani: “Mentre si può dire quasi con l’assoluta certezza che un fascista centro-meridionale è un disonesto, un profittatore, o, nel migliore dei casi, uno che si arrangia servendo, questo giudizio non vale sempre per un fascista settentrionale, e, nella specie, friulano. Spesso, nella condotta, nel lavoro, nella vita privata i nazionalisti o fascisti di lassù sono delle persone oneste e inappuntabili”.
Il Sud di Pasolini è Napoli e la Calabria. Di Napoli apprezza tutto, anche il manolesta che gli ruba il portafoglio in un rapporto intimo. Della Calabria gli dà fastidio quasi tutto, malgrado lo stretto rapporto con Ninetto Davoli, il premio Crotone, un riconoscimento da lui molto apprezzato, e la sua stessa volontà. Più per esteso ne parla il 10 dicembre 1960 su “Vie Nuove” (anche questo articolo ora in “Le belle bandiere”, pp. 90-92): “Tra tutte le regioni italiane la Calabria è forse la più povera: povera di ogni cosa: anche, in fondo, di bellezze naturali”. Ed è stata, “oltre che bestialmente sfruttata, anche abbandonata”, per millenni: “Da questa vicenda storica millenaria non può che risultare una popolazione molto complessa, o per dir meglio, con linguaggio tecnico, «complessata». Un millenario complesso d’inferiorità, una millenaria angoscia pesa nelle anime dei calabresi, ossessionate dalla necessità, dall’abbandono, dalla miseria”. E poiché “i «complessi» psicologici impediscono uno sviluppo normale della personalità”, i calabresi “sono molto infantili e ingenui”. Questo per quanto riguarda il popolo.
La borghesia, in Calabria, “è forse la peggiore d’Italia: appunto perché in essa c’è un fondo di disperazione che la irrigidisce, la mantiene, come per autodifesa, arroccata su posizioni dolorosamente antidemocratiche, convenzionali, servili”. E con essa la gioventù: “Sarà forse un caso, ma tutti i giovani che ho incontrato casualmente o che mi sono stati presentati in Calabria sono fascisti”.
Pasolini è partito dicendo che il suo reportage dalle coste italiane dell’estate precedente – seimila chilometro in 48 ore per il mensile “Successo” - non ha detto della Calabria, di Cutro in particolare, ciò che ha detto. “Una calunnia”, protesta, “umiliante per i calabresi e ingiusta per me”, che “ha creato uno dei più esasperati equivoci che possano capitare a uno scrittore”. Ma ne pensa, nella bontà, peggio.

Uno degli epigrammi de “La religione del mio tempo”, sotto il titolo “Alla bandiera rossa”, è catastroficamente odioso:
“Per chi conosce solo il tuo colore, bandiera rossa,
tu devi realmente esistere, perché lui esista:
chi era coperto di croste è coperto di piaghe,
il bracciante diventa mendicante,
il napoletano calabrese, il calabrese africano”.
Dove anche della bandiera rossa, la degradazione non si sa se sia una sua insufficienza (colpa), o un suo effetto (delitto).

Nel 1975, nel famoso articolo delle lucciole sul “Corriere della sera”, Pasolini mette l’Italia all’inferno con la solita differenza: gli italiani “sono divenuti in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale”.

Sicilia

Jean-Noël Schifano, lo scrittore, si vuole”franco-siciliano”, la memoria del padre riscoprendo con l’età, “muto come tutti i siciliani” - nonchè “italianista di eccellente fama, amico di Moravia, di Morante e di Malaparte, tra i tanti”.
 
Il tramonto è esercizio retorico amato e vastamanente praticato nella Sicilia a ponente, da Palermo a Trapani, Mazara e oltre – di tutti i motivi d’interesse era quello più caldamente consigliato dal vecchio proprietario dell’albergo Sole di Trapani.  Ma che dire di Carducci, “La chiesa di Polenta”: “Una di flauti lenta melodia passa invisibil…. un oblio lene de la faticosa vita, un pensoso\ sospirar quïete, una soave volontà di pianto…”. Il tramonto non distingue.
 
De Amicis ha gli “occhi siciliani”, nel suo ultimo scritto, “Ricordi d’un viaggio in Sicilia, “così profondi, così acutamente scrutatori,così pieni di sentimento e di pensiero, e pur così misteriosi”. Ma, aggiunge, “quando il loro sguardo non è spiegato dalla parola, o animato da una passione determinata”. Allora, non ci può “esser dubbio”. Ma forse si sbagliava, lo sguardo dice di più, e senza dubbio.
 
Però, aggiunge da viaggiatore accorto, quegli occhi sono “l’espressione visibile della profondità e della complessità del carattere siciliano, così difficile a definirsi, così vario in sé medesimo, e pieno di contraddizioni, di disarmonie, di lacune”. Incontournable, si direbbe in francese, irriducibile, inafferrabile.
 
Il siciliano, “disse uno scrittore dell’isola”, annota ancora De Amicis, “pensa e sente come un arabo, agisce come un greco,concepisce la vita come uno spagnuolo”. Cioè?
“Strano carattere”, conclude l’autore di “Cuore”, “violento e tenace nella passione, debole e mutevole nella volontà, facile egualmente all’entusiasmo e allo scetticismo”. Entusiasta e scettico insieme, per questo ingovernabile?
 
Il “fortissimo sentimento individuale”, trova ancora De Amicis, che altrove “è il più grande propulsore di iniziative”, in Sicilia “produce l’effetto di far curvare l’individuo di fronte all’individuo, di far idolatrare la forza, di assoggettare la moltitudine a pochi padroni”. E, questo è vero, “di perpetuare lo spirito del feudalismo nella politica, nelle amministrazioni, in tutti i campi della vita pubblica!”.
 
Garibaldi volle tornare a Palermo nel 1882, invecchiato, incurvato. Fu ricevuto da una folla immensa, e silenziosa. Per “non recargli molestia”, scrissero le cronache. O non era già a lutto? Per Garibaldi?  
 
Non ha posto per Verga. Non da ora. Che fu pure scrittore boulevardier, come da qualche tempo va di moda – e rispettabile (senza gara al confronto coi Notari o i Lucio d’Ambra, perfino con un certo D’Annunzio). E poi forte verista – più “vero” (riuscito) di Zola, che invece la Francia sempre celebra.
Non ne parlano Sciascia e Camilleri, per motivi etnici (provinciali), appesi a Pirandello, a Agrigento – Verga è di Catania. Ma non ne parla il catanese – e boulevardier per eccellenza – Brancati. E non ne parlano i siciliani un po’ apolidi, Vittorini, Tomasi di Lampedusa, Bufalino.


Dei due dirigenti pubblici anti-coronavirus arrestati a Palermo per corruzione, uno, Antonino Candela, il più intraprendente, aveva la scorta, come esponente di punta dell’antimafia, e ha avuto una medaglia d’argento “al Merito della Sanità Pubblica” dal presidente Mattarella. 
Alti due esponenti antimafia sono a processo in Sicilia: la giudice Saguto e l’ex presidente di Confindustria Sicilia Montante. Il fiuto degli affari non manca, ma s’indirizza al peggio per il carattere siciliano o per il carattere dell’antimafia? 


leuzzi@antiit.eu


Appalti, fisco, abusi (172)

Asta Btp record, per ammontare, e per quota sottoscritta dal pubblico, tre quarti di 22 miliardi e rotti. Per l’interesse che il Btp paga, anche se minimo. Ma, di più, per la fiducia: nessuna paura di perdere il capitale. È la riprova che le agenzie di rating non sono affidabili – a meno che non lavorino nel losco, per la speculazione: allora avrebbero una razionalità.


L’Italia è affidabile come Panama, per Standard & Poor’s. Come le Filippine. Meno del Botswana. O del Messico, del Perù, della Malesia. Molto meno del Giappone - che invece è raccomandato, pur avendo un debito al 300 per cento del pil, o poco ci manca. Anche se l’Italia ha anche le terze riserve monetarie in oro al mondo, dopo gli Usa e la Germania.
Fitch ricalca le valutazioni di S & P’s. Moody’s mette l’Italia, in fatto di affidabilità, alla pari con Ungheria e Romania, e col Kazakistan. Ma peggio di Panama e le Filippine. E molto peggio del Botswana. Sempre valutando ottimamente, meglio di S & P’s, il Giappone – oltre che il Botswana.


Il Kazakistan al livello dell’Italia introduce un’altra dimensione del rating: la corruzione. I rating delle agenzie non si basano su criteri standard e chiari, sono valutazioni politiche. Che prescindono però anche dalla politica – il Kazakistan è una dittatura, regime incerto per eccellenza – se la committenza paga.
Il criterio base del rating è l’affare, quanto l’agenzia ci guadagna. Nelle valutazioni di banche e gruppi economici dichiaratamente, per contratto. Nelle valutazioni dei paesi per criteri oscuri.


Parte il finanziamento agevolato, con fidejussione assicurativa pubblica, per gli investimenti delle aziende colpite dal coronavirus. Con un ruolo anche qui attivo delle banche, le grandi, Intesa, Unicredit, e anche quelle regionali, Bper, Mps, Bpm, etc.. E quindi a beneficio di tutto il Sistema Italia. Ma partono pure critiche feroci. Non da parte di chi fa dell’anticapitalismo una missione. Da parte del corpaccione del potere - e dello stesso governo. 

Da parte dell’ex ministro dell’Industria Calenda. Del deputato di plurime legislature e titolare di vari dicasteri nella XVIIma, Andrea Orlando. Di un paio di altri politici. Tutti del Pd, che però finora è stato, da Prodi a D’Alema, Bersani, Renzi, il partito del capitale, ed è l’asse del governo in carica, che ha deciso il finanziamento agevolato. 


L’obiezione è all’automatismo legislativo: se c’è automatismo, si indebolisce il controllo politico, il sottogoverno. Sfuggono le aziende e sfuggono, soprattutto, le banche, beneficiarie indirette della nuova corsa agli investimenti.



Roma, sesso e rock ‘n roll

Momenti di svago, con colonna sonora – i Beatles del titolo e altri, heavy, metal, anche pop, ma poco. Sotto forma di educazione sentimentale tra i diciotto e i venti anni. Con i diciassettenni suicidi, le bevute, la scuola, le passeggiate interminabili, e le conversazioni. C’è pure il pozzo, manufatto e simbolo, la firma di H. Murakami. Con variegate figure femminili, e pratiche di sesso – ogni cinquanta pagine, in media. Scritti in buona parte in Italia nel 1986-87, tra la Sicilia e Roma Parioli, guardano l’Olimpico e il Tevere, musica di fondo “Il giardino sotto la pioggia” di Debussy (titolo di lavorazione), e questo è il principale motivo d’interesse.
Giorgio Amitrano, yamatologo murakamalogo, richiama in prefazione il “Copperfield”, ma non ce n’è bisogno: in tempi di lockdown la lettura scivola via che è un piacere, senza ingombro.  
Murakami Haruki, Norwegian Wood, Corriere della sera, pp. 393 € 8,90


giovedì 21 maggio 2020

Problemi di base del nulla - 567

spock

Come pensare (immaginare) il nulla?

 

Il nulla non prova la creazione?

 

 “Un niente può venire da un qualcosa”, Alceo, fr. 320V.?

 

“Se hai trovato un risposta a tutte le tue domande, vuol dire che quelle domande non erano quelle giuste”, Oscar Wilde?

 

Meglio non essere che essere?

 

Ci può essere l’essere senza il non-essere?


spock@antiit.eu

Le croci di Tozzi

Tre croci, per tre destini avversi. Peggio che avversi, falliti. Per incapacità e per disgrazia – le due cose non sono disgiunte nei “miserabili” del senese Tozzi. Con una modesta luce finale nel cupo mortorio, e un invito alla pietà: le nipoti dei tre morti romperanno il salvadanaio per comprare tre croci, che i defunti abbiano un ricordo, almeno al cimitero.
Il romanzo di un fatto di cronaca. I tre fratelli che in modi diversi muoiono rovinati, anche nella rispettabilità, non sono i suoi soliti miserabili, sono conoscenti e forse amici di Tozzi: i tre fratelli Giulio (suicida), Niccolò ed Enrico Torrini. Eredi incapaci di un apprezzato antiquario di Siena. Ma poco o niente resta oltre l’aneddoto.
Giacomo Debenedetti ha caricato Tozzi di troppi pesi: psicologismo pre-freudiano, simbolismo, pregnanza linguistica. Borgese, che fece la fortuna di Tozzi proprio con la critica di questo racconto, lo diceva “un capolavoro di realismo”, accostandolo a Verga. Qualche sorpresa la lettura però riserva: il racconto ha lo stesso taglio – personaggi, vicende, rappresentazione – di letture più recenti, di Flannery 
O’Connor. Che non c’entra nulla con Tozzi, ma la provincia, indelebile, è comune, nei caratteri e nel linguaggio, e il cattolicesimo da catecumeni.

Federigo Tozzi, Tre croci, Garzanti, pp. XXXII +105, € 8


mercoledì 20 maggio 2020

Letture - 421

letterautore

Adorno - Di padre ebreo luterano e di madre cattolica. È passato come il barone (universitario) modello, benché a lungo in esilio, negli anni di Hitler, negli Stati Uniti: carriere, chiamate, minigonne, intransigenza. Questa specialmente con i dotati: Dahrendorf è uno, Krahl, che ha portato alla morte, lo sarebbe stato.
Chiamò la polizia all’università a Berlino contro Hans-Jürgen Krahl, il suo allievo prediletto. Adorno accusò Krahl di “fascismo di sinistra”, la polizia lo arrestò durante lo sgombero dell’università occupata, e al processo il professore testimoniò contro di lui. Il giudice lo condannò a due anni ma lo scarcerò, e Krahl, montato in macchina, andò a schiantarsi contro un paracarro. Il professore intanto, in vacanza in Svizzera, vi era morto d’infarto.

Bimini – È l’isola – la fonte – della giovinezza. Juan Ponce de Leon, compagno di Colombo nel secondo viaggio, scoprì la Florida, navigando a Nord da Hispaniola (oggi metà Haiti, metà Repubblica Dominicana), primo europeo a mettere piede sulla terraferma americana. Ma la Florida non gli interessava, cercava la fonte della giovinezza degli indiani di Hispaniola. Il luogo leggendario che anche il diffusissimo “Romanzo di Alessandro” aveva fatto sognare a molti nel tardo Medio Evo.
Cercato invano dal navigatore-conquistatore, fu scoperto da Heine, “Ultime poesie”. “Bimini” è il lungo poema portato avanti da Heine alla fine della sua vita: il nome è dell’isola dove scorre il fiume della giovinezza. Il poema, scritto nel 1852, è confluito nel “Romanzero. Poesie. 1853 e 1854. Lascito poetico”.

Cantanti francesi – Vanno famose per il timbro sonoro, molto. La cosa angustiava già Rousseau, e fu anzi la spinta maggiore ad abbracciare la musica italiana. “Sostenere in misura suoni uguali e giusti”, dice Julie infine contenta dopo la scoperta, invece degli “scoppi di voce ai quali ero abituata”.

Diritti d’autore – “Il nome della rosa” di Umberto Eco, il romanzo e l’autore più di cassetta della storia italiana (cinquanta milioni di copie del romanzo in tutto il mondo, di cui sette in Italia), furono acquistati con un anticipo di seimila dollari in America, da Harcourt Brace, e di quattromila sterline dall’editore inglese Secker. Niente a paragone col mezzo milione e il milione di anticipi che si danno a autori in America anche sì esordienti. Le cifre dà Mario Andreose sul “Domenica” del “Sole 24 Ore” senza scandalo, anzi come a dire di una sorta di successo immediato. Ricordando tra l’altro che il romanzo fu respinto in Francia dall’editore di Eco, e ha con difficoltà, per caso, trovato un altro editore. 

Germania - “C’è oggi una Germania efficiente, economicamente aggressiva e culturalmente scialba – asettica, come certe donne perfette, bellissime e  indesiderabili” – Claudo Magris, “L’infinito viaggiare”, 159 – 13 febbraio 1993.

Gotico – L’architettura tedesca, la nostra architettura”, il giovane Goethe, ma già viaggiatore in Francia, la dice in “Shakespeare”: “Mentre gli italiani non ne hanno alcuna da vantare come propria e ancor meno i francesi”.

Leni Riefenstahl – O dei bei corpi – di Nubiani, ossessivamente fotografati. Non si sa se infatuata della bellezza scultorea oppure del razzismo – anche lei, come Heidegger, non ha voluto parlare di Hitler dopo la sconfitta. O dell’una e dell’altra cosa. Specialista dell’immagine, se ne può capire l’infatuazione per i negri alti, forti e belli. A partire da Owens all’Olimpiade di Berlino, che (pure) ha immortalato – pure, regnante Hitler.

Lukáks – Aveva la particella nobiliare, von. Di ricca famiglia di banchieri, ebrei. Mite d’aspetto e di modi soavi, da commissario del popolo del governo di Béla Kun firmò la condanna a morte di molti intellettuali non in linea. Fu poi salvato dall’estradizione, al crollo della repubblica dei Soviet, dagli intellettuali tedeschi, Thomas Mann in testa.

Sereno – Il portiere di notte madrileno, in attività ancora a fine Novecento, a cui bisognava fare capo per accedere anche a casa propria una volta chiuso il portone principale, c’era pure a Vienna ancora di recente: Joseph Roth se ne lamenta molto, e ne ha fatto anche un trattatello, “La metamorfosi del pedaggio al custode”, lamentando “quanto ci manchi, per sentirci veramente liberi, la chiave del portone” – il sereno austriaco, oltre a curiosare nella vita degli altri, esigeva due corone per aprire il portone.

Swann – È un danzatore che la madre di Natalie Clifford Barney, l’“Amazzone” americana a Parigi Fine Secolo, ha visto e apprezzato in America, e che “lavora ora all’Ambassador di Londra”, le scrive. Raccomandandoglielo per i suoi spettacolini domestici - saffici.

Swann è anche il traduttore inglese dei “Promessi sposi”: Carlo Swann, che abita a Pisa, anni 1820. 

Translatio studii – O l’inculturazione dei tempi remoti: è il meccanismo fondamentale che nel Medio Evo ha consentito la sopravvivenza e la trasmissione delle culture, messe a rischio dalle continue invasioni. L’idea della trasmissione dei saperi, partendo dalla Grecia – ma probabilmente già dall’Egitto e Babilonia alla Grecia. Dalla Grecia a Roma – “Graecia capta ferum victorem coepit”, detto dai latini e non dai greci. Da Roma trasmessi a innumerevoli popoli. Dapprima con l’impero, poi con la Chiesa. Lo sradicamento circostanziale – fattuale – si trasforma in radicamento culturale e ideologico.

Vaiasseide – “Vaiassa!”, lo scambio di contumelie qualche anno fa tra  Alessandra Mussolini e Mara Carfagna, ha un precedente letterario illustre, un poema eroicomico, la “Vaiasseide”, di Giulio Cesare Cortese, contemporaneo e compagno di Giambattista Basile, l’autore del “Cunto di li cunti”. Compagno di burle: Cortese a un certo punto s’ingegnò di farsi sapere morto, con tanto di funerale, cui Basile tributò in “orazion picciola” un addio commosso, per accrescere se possibile la sua fama. Prima di “morire”, ritirandosi a vita nascosta, Cortese aveva riunito e pubblicato le opere su cui impiantava la sua fama, tra esse “La Vaiasseide”. Un componimento, spiega Salvatore Silvano Nigro, “Quell’arte cortese di sparire”, “sulle legittime prurigini delle «vaiasse», o serve napoletane, insorte contro i padroni, per rivendicare, tra potenza di reni e lietissimi grembi, feste, duelli, prime notti con prova di sangue, parti, fatture, fortune e disgrazie, virtù e prostituzione, malattie e male suocere, il riconoscimento al diritto al matrimonio con dote”. Una farsa eroicomica cui Basile aveva partecipato, per aiutare l’amico, in qualità di personaggio in commedia, con lettere in tono.

Vienna – “La più vera Vienna sopravvive forse nell’esilio”, C.Magris, “L’infinito viaggiare”. Nell’esilio mentale dei germanisti? Non si trovano Vienne in giro per il mondo, né i palazzi e le chiese risultano spostati. La Mitteleuropa è un fantasma, dei germanisti.

Voir dire - L’interrogatorio preliminare dei giurati nel processo americano, da parte del giudice ma anche della difesa, per appurarne l’equanimità, senza pregiudizio (senza un giudizio preconcetto), si chiama voir dire. Anglo-normanno, cioè vecchio francese, residuo della procedura inglese. Che prende senso legando voir non al senso che ha in francese di “vedere”, da latino “videre”, ma al francese voire, proprio, propriamente. Derivato sempre dal latino, ma da “verum”. Dire la verità.

letterautore@antiit.eu


Il mistero del racconto nascosto

Anticipato dal “Robinson”, con una presentazione di Paolo Mauri, qui con la postfazione  di Mario Barenghi, che ne spiega il recupero e lo sintonizza nell’opera e la vita di Calvino, “Flirt” è un racconto curioso per tre motivi. Si legge d’un fiato pur essendo lungo. Non sfigura tra gli scritti noti di Calvino, pur essendo probabilmente il suo primo racconto compiuto, prima dei “Sentieri dei nidi di ragno” con cui debuttò nel 1947. Ed è il primo tentativo di raccontare la Resistenza. Non in termini eroici, ma come racconto di formazione, di un giovane fra i tanti: con una certa coscienza politica ma non un militante, alieno dalle armi e dall’azione, e anche dall’avventura. E allora: perché inedito?
Nella prefazione al rifacimento dei “Sentieri” nel 1964, Calvino si identifica con Fenoglio, “Una questione privata”, un racconto “costruito con la geometrica tensione d’un romanzo di follia amorosa”. Come l’“Orlando Furioso”, suo romanzo di riferimento. In “Flirt” tutto questo c’è. In piccolo, senza la follia, coi ritmi minuti e le tensioni circoscritte che saranno la cifra di Bassani, del “racconto borghese”, ma c’è. E notevole, tanto più per un’opera prima, di Calvino. Ma tanto più pone allora la domanda: perché lasciarlo inedito?
L’innamoramento del giovane Attilio di “Flirt”, un autoritratto nudo, fisico e mentale, dell’autore, viene troncato sulla considerazione che lei, Vanda, la più bella della spiaggia, è inguaribilmente una borghese. Non una che, come lui, non sa nulla della lotta armata, e il rapporto col ragazzo magro e ombroso che lei ha prescelto concepisce come a due, mi ami?, non mi ami? Tanto più per essere una ragazza in vacanza, tra i bombardamenti alleati e i rastrellamenti tedeschi, tra le coetanee svagate che solo s’ingegnano di pettegolare - come Calvino ventenne sa già illustrare in una delle scene più vivide del racconto. Se non che Calvino è borghese: lo era prima di salire in montagna col fratello sedicenne, lo riscoprirà qualche anno dopo, lo è nella conduzione del racconto. Nella prefazione del 1964 lo ricorda: “Ero stato, prima d’andare coi partigiani, un giovane borghese sempre vissuto in famiglia; il mio tranquillo antifascismo era prima di tutto opposizione al culto della forza guerresca, una questione di stile, di «sense of humour», e tutt’a un tratto la coerenza con le mie opinioni mi portava in mezzo alla violenza partigiana, a misurarmi su quel metro. Fu un trauma”. Il primo di una serie – la partigianeria Calvino viveva con disagio. E allora: perché lasciare “Flirt” inedito? L’avrà riletto con vergogna, invece che con orgoglio: è lui il borghese, non la bella, innocua, Vanda.
È Attilio che riduce con Vanda la lotta partigiana a “una vita pittoresca”, non richiesto. Di lei dicendosi: “Era una società che moriva in costume da bagno”. E di sé: “Egli non era un vinto”. Orgoglioso, naturalmente, quando i compagni operai trovano Vanda “una donna fenomenale”. Conscio di un suo proprio “residuo dell’ombrosa adolescenza, quando la donna è una terra misteriosa e irraggiungibile”. La vita in montagna dicendo poi di armi inceppate, il “favoloso Thompson”, fame, e randagismo. Salvo quando, avendo mangiato, non avendo camminato troppo nella giornata, e dormendo accanto al fuoco, “ci si sveglia” al mattino, con bellissima immagine, “sgombri e spumanti con una letizia come d’ancore salpate”. E “si prende a parlare di ragazze, con i compagni stesi nella paglia, e si racconta e ci si passa le fotografie”.
Un racconto, riscorrendo “Il sentiero dei nidi di ragno”, tanto più veritiero di quello: “Il sentiero” si riscopre pieno di affettazione, nei nomi, nei personaggi, perfino bozzettistici, negli eventi. E già, in tema di borghesie, presago della pacificazione anni 1990: della Resistenza derubricata a guerra civile, tra giovani, più che altro confusi. Dei volontari repubblichini, per restare sul terreno letterario, sicuramente democratici: Fo, Albertazzi, Buzzati, Mastroianni, Gianni Brera, Del Boca. Kim, il commissario politico, è “terribilmente chiaro, dialettico”, Kim “è logico”, che ragiona così: “Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro… L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio…”. Non c’è la ragione e il torto, cioè no, c’è, ma non ci sono colpevoli.
Con un pizzico, già, del populismo di oggi. Il personaggio detto Carabiniere è sicuro: “Gli studenti sono stati!”, a volere la guerra. E insiste: “Nel ’40, a Napoli, sissignore, c’è stata una grande battaglia tra gli studenti e i carabinieri! E se noi carabinieri gliele avessimo date, la guerra non ci sarebbe stata! Ma gli studenti volevano bruciare i municipi” Mussolini è stato costretto a fare la guerra!” E non deflette, il suo concetto di classe è ben antiborghese: “Ci sono due forze in lotta, i carabinieri, povera gente che vuole tenere l’ordine, e gli studenti, la razz dei pezzi grossi, dei cavalieri, degli avvocati, dei dottori, dei commendatori…”.     
Ma, poi, è il solito Calvino, onesto. Nella prefazione 1964 spiega che i racconti della Resistenza furono scritti, da lui e gli altri, dopo aver letto, finita la censura, “Per chi suona la campana”, di Hemingway. Con un pizzico di sovietismo: l’irregolare Babel de “L’armata a cavallo”, e “La disfatta” di Fadeev – lo scrittore, suicida alla destalinizzazione, che era subentrato a Gor’kij a capo dell’Unione Scrittori, per andare ai congressi della Pace nel dopoguerra e acclamato dire: “Se gli sciacalli imparassero a scrivere a macchina e le iene a usare la biro, scriverebbero le stesse cose di Henry Miller, Eliot, Malraux e i vari Sartre”. Ma poi, aggiunge, “mettendomi a scrivere qualcosa come «Per chi suona la campana» di Hemingway, volevo insieme scrivere qualcosa come «L’isola del tesoro» di Stevenson”. Una vera opera prima, vorace. Con un omaggio a Pavese: “Indovinò dal «Sentiero» tutte le mie predilezioni letterarie. Nominò anche Nievo, a cui avevo voluto dedicare un segreto omaggio ricalcando l’incontro di Pin (Calvino, n.d.r.) con Cugino sull’incontro di Carlino con lo Spaccafumo nelle «Confessioni di un italiano»”.
Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, con il racconto inedito Flirt prima di battersi, Oscar p. 216 € 13,50


martedì 19 maggio 2020

Cronache dell’altro mondo

Il candidato democratico alle presidenziali americane di novembre, Biden, tace. Parla in sua vece l’ex presidente Obama. Ottenuta la nomination un mese e mezzo fa, Biden non ha più parlato. Nemmeno del coronavirus, che da allora ha preso a impazzare negli Stati Uniti.
Il coronavirus farà perdere a Trump la rielezione o gliela faciliterà?, si chiede il “Washington Post”. E non sa darsi la risposta, benché si collochi in prima linea contro Trump. Dovendo constatare che la politica di denuncia della globalizzazione senza paletti - la politica di Trump - potrebbe non essere sbagliata. Un effetto della globalizzazione senza limiti dopo Tienanmen, nota il quotidiano, è la delocalizzazione, oltre che di milioni di posti di lavoro, di farmaci e forniture mediche di prima necessità – di produzioni strategiche. In Cina costano meno ma non sono sicure: non lo sono i prodotti e non lo sono le forniture.
Michael Moore, ecologista, è scomunicato per avere documentato in un film l’ecobusiness. A partire dall’Earth Day, la festa della Terra, proclamata nel 1969 dall’industria petrolifera. Tutto quello che si sa, che le macchine elettriche e ibride vanno comunque a combustibili fossili, che il beneficio dell’elettricità da fonti rinnovabili è minimo al confronto dei danni al paesaggio e alla natura, e che si tagliano foreste per farne biomasse. Tutte cose che si sanno, ma non si possono dire: i padri dell’Earth Day sanno come fare l’opinione.


Il silenzio del Lazio

Parlano tutti , i presidenti di regione, per un motivo o per l’altro, nella gestione del contagio. A Milano, a Genova, a Bologna, a Napoli, nel Veneto, a Torino, a Bari, a Cagliari, presidenti e assessori di sinistra e di destra. Tace il Lazio: Zingaretti è come se non ci fosse, i suoi assessori pure.
Tace pure, a Roma, la sindaca Raggi, prima e per altri versi molto presenzialista. Non ha dato nemmeno istruzioni precise ai vigili urbani durante il lockdown, che infatti hanno agito di testa propria – hanno perfino fermato davanti all’edicola chi all’edicola andava per comprare il giornale.
Il silenzio di Zingaretti è singolare anche perché lui è il segretario del Pd, il partito al governo. Aveva promesso, uno o due mesi fa, prove sierologiche per tutti. Le prove non si sono fatte. Zingaretti non ha più parlato.
Usava dire un tempo dell’America Latina, che si governava “meglio di notte, quando i governanti dormono”.


Pd contro Fca, tra anticapitalismo e vecchia Dc

Fca chiede un prestito – un prestito, non un contributo a fondo perduto – con garanzia dell’assicurazione pubblica Sace, come previsto da uno di tanti decreti Conte anti-virus. Che Banca Intesa, riconoscente per la ripresa d’iniziativa, si affretta a perfezionare, anche perché del prestito beneficeranno le produzioni automotive, lombardo-venete, che sono il cuore della sua clientela. E questo non va bene alla politica. Ma di un certo tipo.
La garanzia Sace ha un costo, irrisorio (Fca onorerà il debito). Ma non è questo che alimenta la polemica. Contestano il prestito neo-vecchi anticapitalisti ex Pci: Fassina, ora Leu, Orlando e Felice, Pd. Ma in contrasto col sindacato, Cgil compresa. La vera contestazione è di Calenda, l’ex ministro capo di Azione: non si può dare un prestito a garanzia pubblica a una società che paga il dividendo. Un’assurdità, ma dal senso politico evidente.
Calenda, che in passato è stato anche dirigente Ferrari, cioè Fca, lo dice da capopartito. Di un partito – la matrice è la vecchia Dc – che non concepisce un mondo della produzione autonomo. Sa che il dividendo non è un furto, è una remunerazione. E che il mancato dividendo precipiterebbe Fca, come qualsiasi azienda, nel deprezzamento patrimoniale, delle agenzie di rating, e dei singoli investitori, grandi e piccoli. Ma parla da “padrone” politico, di una certa filosofia politica.
Con lui scalpita anche la parte ex democristiana del Pd che non ha seguito Renzi. Che si suole dire anticapitalista anche questa, ma in realtà è “sovranista”: vuole controllare gli affari.
Quello che chiede Calenda è quello che ha sempre fatto la Dc, quando esisteva, e quando si è reincarnata, con Prodi nell’Ulivo e con Renzi nel Pd. Con le Partecipazioni Statali quando esistevano, e con le banche e le industrie private. Ora attraverso le Autorità di controllo del mercato.
Per le banche, la Banca d’Italia di Carli, e dopo, proponeva per le nomine un trittico, dove due su tre papabili si riconoscevano da tempo, per atti o omissioni, nella Dc. Alle industrie private il morso veniva stretto attraverso i contributi,  prima che diventassero europi e anche dopo, per il Sud (e per il Nord), per la sicurezza, per l’ambiente.  


Scalfari, o dell’inquieta felicità

Il protagonista ha l’età dell’autore. Che lo segue, nell’infanzia tormentosa, nell’adolescenza, poi in guerra, a El Alamein nientemeno, e nel dopoguerra capitano d’industria, onesto per quanto può. Di temperamento oblomoviano, se non per le decisioni obbligate. Di pochi o scarsi affetti, confusi. La storia scandendo per grandi blocchi, il più sostanzioso naturalmente è il dopoguerra, della “crescita”, fino al terrorismo. Che non intacca la solidità su cui il personaggio si adagia – la semplicità, della cosa giusta da fare – ma ne accentua l’isolamento, per quanto orgoglioso.
Già pubblicato con Rizzoli, nel 2001, dopo il ritiro della gestione di “Repubblica, prima delle prove filosofiche e le incursioni poetiche, il romanzo di Scalfari sembra un’esplorazione dei propri mezzi. Partendo da mademoiselle de Scudéry, “la noia si porta nel cuore e per non annoiarsi mai bisogna sfuggire se stessi”, e quindi dal lezioso, un po’ saccente. Finendo con “I sepolcri”, ma per chi sa,  con un accenno minimo: “Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,\ ultima Dea, fugge i sepolcri”. Le generazione del dopoguerra, industriosa e costruttiva, si perde alla maturità, negli anni 1980, tra la corruzione e il terrore. Scalfari la guarda da remoto, prossimo ottuagenario, lui stesso poco felice – poco sicuro della sua felicità.
Il protagonista sa “di possedere contemporaneamente molte personalità, anzi d’esserne posseduto”. E avrà una vita – il romanzo – pessoviana, di “affollata solitudine”. Con  una propensione marcata per il ménage à trois - in Scalfari, più che nel personaggio – come in Goethe (strane coincidenze rivelano letture occasionali, n.d.r.): la co-protagonista ne ha visione fuggevole, alla penultima pagina, di “tre persone su tre collinette disposte a triangolo”. Affollata di personaggi dal vero, riconoscibili sotto i nomi di fantasia: Tibaldi-Mattioli, il banchiere scanzonato e risolutivo, il “de Breteil” presidente di Confindustria, produttore di bretelle (Alighiero De Micheli), il primo centro-sinistra, quello vero delle riforme, la Montecatini, poi Montecatini-Edison, infine le Generali, al centro degli affari per due lunghe decadi. Con originali, esclusive, attaches calabresi: in un paio di personaggi, nei peperoni verdi “berretta”,  e nell’uso del dialetto, una novità nella narrativa italiana - reminiscenza dei due anni che Scalfari passò a Vibo, per evitare la possibile epurazione del padre, funzionario pubblico, e la penuria alimentare.
Un romanzo sconclusionato. Scalfari le prova tutte, anche la battaglia al secondo capitolo, come il Fabrizio di Stendhal – rifà Alamein, in dettaglio: un’esercitazione sulle tante ricostruzioni che ne sono state fatte. Gli amori non amori, per reticenza, per sfortuna. Gli affari che vanno bene e vanno male per asserita razionalità – mentre si sa che vanno a caso. Il racconto di una vita felice – l’intermezzo calabrese la sintetizza. La madre sognata. Gli affari buoni. Gli amori quanto basta. 
Un Eugenio divertito e divertente – come avrebbe voluto essere, scanzonato – “calabrese”? “Anche tu stai diventando vecchio”, scrive il pigmalione americano in un lettera-testamento dal buen retiro  in Missouri dove si è ritirato a pescare all’ex giovane capo azienda per il quale ha lavorato, “hai una bella famiglia, sei potente e rispettato.Per essere felice ti è mancata la cosa più importante: la capacità di amare e di ricevere amore”. Sic transit gloria mundi è la chiusa del romanzo, un altro capriccio di Scalfari?
Eugenio Scalfari, La ruga sulla fronte, Einaudi, pp. 281 € 11,50



lunedì 18 maggio 2020

Cronache virali

È specialmente alto in Italia il numero dei decessi in rapporto ai contagi da coronavirus, quasi 32 mila a oggi, su 225.500 circa contagi: il 14 per cento. Probabilmente un record mondiale, alla pari con la Gran Bretagna.
Ci dev’essere almeno un metro tra un tavolo e l’altro al ristorante? Perché, prima c’era meno di un metro?
Lo stesso in spiaggia: ci vogliono almeno tre metri tra gli ombrelloni. E prima no?
“I virologi ci dicono che il coronavirus non ha mutato struttura, dinamica, virulenza. Ci crediamo. Gli epidemiologi affermano che non ha perso la sua capacità diffusiva. Crediamo anche a loro. Ma la terza voce, quella dei clinici, che vedono i malati, ci racconta che l’aggressività del virus appare ridotta e che l’organismo umano reagisce meglio” – Giorgio Cosmacini.


Appalti, fisco, abusi (171)

Mustier ha strafatto? Unicredit, il gruppo transborder, è alla frutta? Non si capisce, il mercato non si fida: venerdì Unicredit era in piazza Affari la banca che aveva perso di più, il 41 per cento su base annua. Un po’ meno di Banca Popolare Emilia-Romagna, Bper, che arretrava del 47 per cento, ma a a meno 55 per cento negli ultimi tre mesi, al 15 maggio – come Bper. Staccatissime, per fortuna, le altre banche.

Ora che si ha un quadro delle trimestrali di tutte le banche, si vede anche che Unicredit è il solo gruppo a denunciare perdite stratosferiche. Il Monte dei Paschi postfallimento segue ma a distanza, con meno 244 milioni. Le altre maggiori banche sono ancora in positivo, Intesa addirittura per 1.151 milioni.

Le perdite accantonate da Mustier sono di fine marzo, a metà panedemia o lockdown. Cosa ne sarà nel secondo trimestre, che comincia a ripartire solo oggi?

Le Regioni “hanno 21 indicatori sanitari da mandare a Roma ogni settimana”, denuncia Vincenzo De Luca, presidente della Regione Campania: “Una cosa demenziale”. Non per alleggerire il contagio, ma per accrescere la burocrazia.

Il coronavirus non ha migliorato ma peggiorato le inefficienze del sistema sanitario. Forse inevitabile che l’emergenza abbia messo in secondo piano l’efficienza. Ma si sono “stipulate velocemente convenzioni con operatori privati forse non strettamente indispensabili”, Ferruccio de Bortoli, “L’Economia” – “e così è avvenuto sul versante delle assunzioni anche in Regioni a basso contagio”.

L’amore è solitario

“Dolce cosa è l’amore”, che tuttavia non si compie - al dunque si sfarina. C’è già il san Valentino, nel 1409-1410. Al tempo in cui l’amore si scriveva, per decine, centinaia di lettere, sempre vecchie e sempre nuove. Le missive alternando alle conversazioni, di battute veloci, un verso l’uno, di concetti argomentati, una strofe l’uno. Ma sempre vivendo l’amore nel rinvio. Finché non si perde, in questa storia tra i pettegolezzi. Il racconto della solitudine in amore: “Soletta sono e soletta voglio essere”, la dama spesso protesta, finché l’amante infine ritorna, ripetuto proclama il suo amore, ma non resiste ai pettegolezzi.  
Un racconto movimentato nella sua semplicità: il corteggiamento, reciproco, il ritrovamento, la separazione, il nuovo incontro, le gelosie, l’abbandono. Concluso da un lungo “Lamento di donna”. Un racconto profusamente cantato. In versi cioè, di varia forma, ottonari o endecasillabi in ottave, in quartine, in distici, tutti rigorosamente in rima semplice, baciata o al più alternata. La formula del romanzo cavalleresco o d’avventura adattata alle pene d’amore.  
Christine de Pisan è in realtà Cristina, figlia di un matematico e astrologo bolognese che professava a Veneza, dove Crisina nacque, invitato a Parigi dal re Carlo V. Quando lei aveva quattro anni. A quindici si era sposata. A venticinque era già vedova, e decise, invece di risposarsi, di mantenersi da sé, scrivendo. Per avere grande facilità di rima – una sorta di Patrizia Valduga d’antan. Mantenendo il patronimico, “da Pizzano”, dal borgo bolognese di cui il padre era originario. Quando il padre cadde in disgrazia a corte, seppe mantenere la numerosa famiglia con i suoi scritti. Che diffondeva in proprio. Un profluvio di storie e ballate, culminate nel poema “La città delle donne”, e in testi vari, di morale, costume, comportamento – perfino un trattato di arte militare. Ebbe anche influenza politica rilevante, a corte e in città.
Fu celebrata da Marot, Verdier, e da Jean Mabillon nel suo “Viaggio in Italia”. Ma le storie letterarie otto-novecentesche l’hanno snobbata. Gustave Lanson ne fa scempio nella sua “Storia della letteratura francese”, che ha fatto testo nel primo Novecento, straordinariamente misogino: “Una dele più autentiche bas-bleu della nostra letteratura, la prima di questa insopportabile sfilza di donne-autore alle quali nessuna opera su nessun soggetto costa, e che, per tutta la vita che Dio concede loro, non hanno altro da fare che moltiplicare le prove della loro infaticabile facilità, uguale alla loro universale mediocrità”. Recuperata solo da una quarantina d’anni, dalla storica medievista Régine Pernoud, nel quadro degli studi di genere.
La Christine di Lanson è però, allo specchio, quello che lei stessa presumeva della sua opera, il suo stesso progetto. Di scrittrice di programma prolifica, ma di figura sempre “orgogliosetta”. Il modello femminile delineato da Froissart, derivato dalla “belle dame sans merci”dei trovatori e di Chartier, la bella che non vuole amare per non essere ingannata. Con un pizzico di spregiudicatezza: la dama di Christine vuole amare, vuole innamorare. È parte attiva nel gioco dell’amore, senza infingimenti – cinque-sei anni prima, nella “Città delle donne”, lamentava ad arte: “Ahimè, mio Dio, perché non mi hai fatto nascere maschio? Tutte le mie capacità sarebbero state al tuo servizio, non mi sbaglierei in nulla e sarei perfetta in tutto, come gli uomini dicono di essere”. E il racconto movimenta linguisticamente. Infiorettandolo di parole rare, calembour, giochi di parole. Vezzi del tardo Medioevo, ma dispensati con sapienza. La numerologia. Il gioco del nome: Cristina, Cristo, cri, grido. Gli anagrammi creintis, con cui firma alcune raccolte (“Epistre au Dieu d’amour”, “Livre du dit de Poissy”), e en escrit, che chiude queste “Cento ballate”, o escrinet, scrignetto, dalla fusione di Christine con Estien, il nome del marito morto.
A cura e con la presentazione di Anna Slerca. Con l’originale francese.
Christine de Pizan, Cento ballate d’amante e di dama, Aracne, pp. 280 € 18


domenica 17 maggio 2020

Cronache virali – l’Iss bara sui dati

La gaffe dell’Istituto superiore di sanità, che ha posto Umbria e Molise tra le regioni che “rischiano di più” dalla progressiva riapertura, ha fatto emergere la stranezza dei suoi dati. Due stranezze. Anzi tre.
Una stranezza, anzi un’assurdità, è comparare la situazione in Molise e Umbria alla Lombardia. Dove un certo giorno se ci sono 200 morti invece di 300, l’allarme si dice ridotto del 33 per cento, mentre in Molise o in Umbria, se quel giorno i morti sono due invece di uno, allora c’è un aumento del cento per cento. Non è nemmeno un errore da scuola elementare: è disinvoltura?
I dati sono del 7 maggio. Di tre o quattro giorni dopo il primo allentamento del lockdown. Perché l’Iss non dà i dati più aggiornati? Non ce li ha? Che consigli ha potuto può dare al governo per la fase 2, su che basi?
Incomprensibile è anche la comunicazione dell’Iss, tutta in infografica. Chi volesse considerare i dati Iss attendibili, e non lo sono, ed esercitarsi ognuno per i suoi interessi o le sue specializzazioni, statistiche, epidemiologiche, produttive, politiche, dovrebbe ricopiarli uno per uno. L’Iss è geloso dei suoi dati, e vuole elaborali per pubblicazioni scientifiche al suo interno? Questo è un po’ un illecito.


Secondi pensieri - 419

zeulig

Empatia – La simpatia al tempo dell’esistenzialismo, parafenomenologica – in questo senso l’ha indagata per prima Edith Stein, ancora allieva di Husserl. Del guardarsi, del distanziamento. Ancora nel corpo ma in sofferenza: depressione, inadeguatezza, sfiducia, abbandono. Nella chiusura, ferrea: una gabbia di ego(t)ismo. E più per essere in sofferenza: il masochismo è pure sadico, l’antica ipocondria che si cancella.

Filosofia tedesca – È curiosamente autoreferente, come di un’isola isolata. Con l’appropriazione, più arbitraria che rispettosa, della filosofia greca – di parte della filosofia greca, con voluminose assenze, per esempio Aristotele. E di Gobineau. Con Cartesio, qua e là, come punching-ball. E con un pizzico di biblismo (ebraismo).

Globalizzazione 2 - Il digitale, lo smaterializzarsi delle produzioni, può (dovrebbe) riportarle là dove la conoscenza è concepita e generata, con investimenti mirati, su un tappeto culturale spesso, favorevole. Lo smaterializzarsi del lavoro, sempre meno dipendente e non più opera di grandi masse di individui, applicate a grandi macchine, complicate, rumorose, gravose, pericolose, nel funzionamento e negli effluvi, e negli stessi procedimenti.
Esaurito il riequilibrio fra have e have not, la globalizzazione è ora vista con bruschezza: la Cina esporta virus e prende tecnologia, la Cina è un paese dittatoriale, senza rispetto per i diritti umani, il presidente Xi si è fatto eleggere a vita, la spinta della Cia su mercati esteri, in Asia, in Africa e in Europa, è una forma di neo capitalismo, con ingredienti di neo colonialismo. Non è così, gli scambi sono elaborati, molteplici, di varia natura, e i diritti umani sono estensibili. Ma alla sommatoria è così: la Cina prende molto, di ottimo qualificato, avanzato, e dà naturalmente anche molto per bilanciare lo scambio, ma adulterato, incontrollabile, troppo spesso sotto gli standard contrattuali – tutti gli apparecchi cinesi di largo consumo in Occidente lo testimoniano, dagli apparecchi telefonici fissi alla strumentazione informatica (personal, stampanti, riproduttori), ai modem tv e internet. Ed è incontrollata sugli standard sanitari, avendo alimentato con gli scambi anche le pandemie degli ultimi trent’anni - eccetto la mucca pazza, del pazzo dottor Neil Ferguson: non è pensabile che non ce ne siano stati altri in Cina prima della globalizzazione, ma piuttosto che non erano denunciati o non erano infettivi fuori della Cina, essendo la Cina un paese chiuso prima di Deng Hsiao Ping.
Uno scambio che la Cina paga bene e senza limiti né controlli: qualsiasi imbroglione, anche mafioso, può fare immediati lauti affari in Cina, comprando o vendendo: un free-for-all non più immaginabile dopo il coronavirus, che potrebbe anche dimezzare le prospettive, se non il reddito, dell’Occidente, dove la pandemia soprattutto si è diffusa. Senza controlli, non all’origine, malgrado la caratterizzazione moralistica del regime comunista, né alla destinazione - a caval donato non si guarda in bocca.
La globalizzazione si è trasformata in scambio disuguale - almeno per quanto concerne la Cina. Ciò è emerso nella pandemia sotto due aspetti: la delocalizzazione di molte produzioni ha lasciato fuori, e alla mercé di un mercato poco controllato e poco controllabile, oltre che decine di milioni di posti di lavoro qualificato, produzioni strategiche, come i farmaci e forniture mediche critiche.  
Il regime cinese è malato, sotto l’apparente acquisitività. E il costo degli affari che offre non è più concorrenziale, sommando tutti gli addendi. 

Malattia – Un modo d’essere del corpo, o una sua imperfezione? Alla maniera di Susan Sontag si può leggerla in tutti i modi possibili, come un errore, una mancanza, perfino un sogno (incubo), una tabe ereditaria, una prova, quindi una promessa. Ma è la manifestazione di una debolezza, intrinseca. Riparabile, esercitandovisi, ma non del tutto, non debellabile. È la precarietà della condizione umana, la manifestazione della sua persistente casualità, e quindi insignificanza.

Metropoli – “La metropoli non conosce stabilità e tradizione,la reverente continuità del passato, ma è lo stesso respiro istantaneo del nuovo, l’incessante trasformazione che inghiotte e cancella di continuo ogni immagine della realtà, come il juke-box mangia e dimentica un disco dopo l’altro e lo sfavillio delle réclame luminose non ha memoria del giorno precedente”, Claudio Magris, “L’infinito viaggiare”, 58. È questo il suo proprio? I fuochi d’artificio, o non lo zoccolo duro, insistente, stratificato, immutabile, se non per forza maggiore, evento naturale o guerra – resilient. Un magma, insiste Magris a Berlino, divisa e ricostruita per intero, che “accomuna la metropoli alla giovinezza”. Ecco, ma non sguarnita: una giovinezza radicata per mille legacci.

Opere – Non salvano. Hanno senso se integrate in un costume di vita sano o santo.

Postumano - È riflessione femminile non per caso – si direbbe di genere. Militante, quasi un manifesto. S’intreccia con la decrescita demografica, la non procreazione. Che è anch’essa un manifesto e non un’occorrenza – si vede dallo spostamento-slittamento degli affetti verso gli animali domestici, che non richiedono meno cura e meno spese di un figlio. Il principio di una desertificazione dell’umano. A un passo che sembra lento ma va spedito, il tempo di un paio di generazioni, attraverso il figlio unico, il nessun figlio, la singletudine. 
Le famiglie unipersonali, o single, sono in Italia il 35 per cento, dei 25,7 milioni di famiglie censite. E in crescita – erano il 33 per cento nel 2017 (l’Italia ha anche il più basso tasso di natalità al mondo). Negli Stati Uniti sono percentualmente di più, il 36 per cento. I paesi ricchi, in generale  europei, condividono una situazione di elevata singletudine. Analogo effetto sulla demografia si ha in Cina per la politica, ormai trigenerazionale (solo da poco attenuata, e poco), del figlio unico.
Con qualche eccezione, dovuta a una diversa condizione-concezione femminile. In Germania, che pure condivide con l’Italia il record negativo della natalità, le famiglie unipersonali sono il 24 per cento del totale – ma con grande variabilità locale: il 34 per cento a Berlino, il 20 in Baviera. Anche la Francia laica fa eccezione, per una politica d’incentivazione demografica, in atto dalla presidenza Pompidou nei primi anni 1970, che ha portato la fecondità al “2,07 figli per donna”, il “tasso di sostituzione” delle generazioni.

Uguaglianza – La peggiore ingiustizia sta nel volere l’uguaglianza dei diseguali, usa così sintetizzare Aristotele, ma non senza fondamento. Partendo dal proverbio, dice Aristotele nell’ “Etica a Nicomaco”, di ardua applicazione: “Nella giustizia è compresa ogni virtù”. Giustizia, argomenta, è obbedire alla legge, e al “principio di eguaglianza”: “ingiusto” è “contrario alla legge” e “non rispettoso dell’uguaglianza”. Ma “non rispettoso dell’uguaglianza” e “contrario alla legge” non sono la stessa cosa: si distinguono come la parte rispetto al tutto – “tutto ciò che non è rispettoso dell’uguaglianza è contrario alla legge, ma ciò che è contrario alla legge non è tutto non rispettoso dell’uguaglianza”. Non c’è un giusto e un uguale in senso totale. E ci sono limiti alle leggi.

zeulig@antiit.eu

La “casa dell’ebreo”, contrassegno italico

Una raccolta di saggi di storia pisana, di cui Luzzati è specialista. Attorno ad alcuni documenti ed eventi concernenti gli ebrei in Toscana, a Pisa, nel Quattro-Cinquecento.  Storie tutte di fortuna, legata alla fenerazione – al prestito a interesse. Di ebrei  romani, che convennero a Pisa dapprima attratti dalle condizioni di favore offerte, quando a metà Trecento la repubblica marinara in disarmo provò a rilanciarsi con i commerci. E poi, quando Pisa passò sotto Firenze (commissario politico delle truppe fiorentine era Machiavelli), dalle concessioni medicee. Di Cosimo su spinta della moglie Eleonora de Toledo, la figlia del viceré di Napoli, che era stata educata da donna Bienvenida Abravanel, esponente di un casato ebraico di progenie iberica, che annoverava statisti e pensatori – Bienvenida era cognata di Leone Ebreo.
Pisa era stata a lungo terminale per i commerci con l’Oriente. Fra le tante vicende della repubblica marinara Luzzati ricorda l’arrivo a Pisa ai primi dell’801 di due messi del califfo Harun-el-Rashid, quello delle “Mille e una notte”, per Carlo Magno, che si trovava a Pavia, e di uno dell’emiro di Tunisi, el-Abbasiya. In risposta all’invio da parte di Carlo Magno quattro anni prima di tre suoi ambasciatori. Uno dei quali, Issac Iudeus, stava per tornare, via Africa - sarebbe sbarcato a settembre a Portovenere con un elefante, dono del califfo al primo imperatore dei Romani, al quale riuscirà a recapitarlo vivo, nel luglio 802, ad Aquisgrana.  
Undici saggi di storia locale. Di fortune ebraiche alterne. Ma non più della precarietà dell’epoca – e degli affari, che per natura sono mobili. Quando Cosimo nel 1570 adottò, per avvicinarsi a Roma, al papato, il ghetto che papa Paolo IV aveva instaurato nel 1556, il provvedimento fu applicato anche a Pisa. Cioè, non fu applicato: i Da Pisa, i Leucci, e le altre famgilie di fortuna continuarono le loro attività senza restrizioni. Qualcuno anche spostandosi su Firenze, per accrescere il volume degli affari.
Una raccolta disintossicante. La storia degli ebrei in Italia, da qualche tempo minata dalle diffidenze, è la storia dell’“unico gruppo non cristiano cui sia stato consentito vivere tra i cristiani”. Con limitazioni inferiori che altrove. E, prima e dopo il ghetto, non di isolamento. Senza contare, come Cases racconta nelle “Memorie di un ottuagenario”, il suo bisavolo, rabbino di Reggio nell’Emilia, che protestò con Napoleone Primo Console per l’abolizione del ghetto: quelle leggi che volevano tutti eguali senza distinzione di razza e senza ghetti, sostenendo, intaccavano la sua identità di buon ebreo.
Nei due ultimi saggi della raccolta, Luzzatti evidenzia che, “all’insegna della pazienza, della prudenza e della cautela, e non senza errori di calcolo o prospettiva”, gli ebrei in Italia hanno sempre mantenuto un loro spazio. Con una limitazione, nota allargando lo sguardo su tutta la penisola: di tenere limitata la presenza. Che quindi si trova diffusa in Italia in tutte le comunità, ma in nessuna con nuclei consistenti. Da qui il titolo: la “casa del’Ebreo” era il nucleo attorno a cui si raccoglievano le minuscole rappresentanze ebraiche così disseminate, paesane o cittadine. La casa del “prestatore”, l’ebreo per antonomasia.  
Michele Luzzatti, La casa dell’Ebreo, Nistri Lischi, pp. 317 € 20