sabato 6 giugno 2020
Letture - 423
Classico
– Noioso. E
seduto, lo fa dire Savinio, “Alcesti”, da un personaggio in età: “Il classico è
noioso. Vuole che non lo sappia? Sono così classico io stesso!” E: “Sa perché
sto seduto? Sempre seduto? Perché sono classico. Il classico è seduto”.
Napoleone ha sempre ragione, e risolve il giallo
Interessi
sordidi, nobili propositi di tirannicidio e tradimenti, inseguimenti, a piedi e
a cavallo, tranelli, violenze squisite oppure immani s’intrecciano in un romanzo
d’avventure con un tratto costante di suspense.
L’anno dopo la creazione di Sherlock Holmes, avendo deciso di fare lo scrittore”,
il dr. Conan Doyle rianimava il vecchio vecchio romanzo di cappa e spada. Tra grandi
nobiltà, vecchie e nuove, ussari animosi, e vergini incorrotte, in terra di
Francia, al tempo di Napoleone all’assedio dell’Inghilterra.
Sotto
un titolo infelice: lo zio è il genio del male - lui come l’altro intellettuale
del racconto, uno intrigante e uno debole. E favolistico, mentre invece gira attorno
a tattiche e strategie, beni appropriati e rivendicati, tirannicidi. Alla fine, un raccontino. Ingigantito con un centinaio di pagine su Napoleone.
Pagine
aneddotiche, probabilmente da compilation,
ma per ogni aspetto sorprendenti – forse perché di Napoleone non si legge più
da molto tempo? Un Napoleone privato. Ma anche qui tirannico, nelle cose grandi
e nelle minime, impositivo, uno che alla fine ha sempre ragione, ma “non si
regge molto bene in sella”, ex povero pieno di rancori, solo fulmineo come si
sa, sul campo di battaglia. I generali, Murat, Massèna, Ney, Lannes, “sono
stati l’uno un cameriere, l’altro un contrabbandiere di vino, l’altro ancora un
bottaio e l’ultimo un imbianchino”. Si salva la madre, “una regina
tragica, alta, severa, riservata, silenziosa”.
Arthur Conan Doyle, Lo zio Bernac alla corte di Napoleone, Donzelli, remainders, pp. 190, ril. € 11
venerdì 5 giugno 2020
Problemi di base schopenhaueriani - 570
“Nel genere umano solo gli individui e la loro vita sono reali, i popoli e la loro vita sono semplici astrazioni”?
Schopenhauer non sapeva fare le somme?
“L’uomo era all’origine un animale
nero e pulito”?
“La storia
letteraria è il catalogo di un gabinetto di aborti”.
“La filosofia, come l’ouverture
del «Don Giovanni», comincia con un
accordo in tonalità minore”?
“Schopenhauer negli ultimi anni divenne sempre più pessimista perché si accorse di non essere Mozart”. W. Allen?
spock@antiit.eu
Diderot scimmia parlante
“Fermatevi”, implora la scimmia parlante, “sono
Diderot”. “Questo lo possono affermare tutte le scimmie”, risponde l’addestratore,
cui la scimmia parlante è stata affidata dalla zarina Caterina la Grande, e giù
legnate.
Diderot a Pietroburgo è sommerso di diamanti e
altre ricchezze, ma diventa vittima della sua galanteria, al punto da immaginarsi
zar della Russia, e della saputaggine, avendo dichiarato alla corte imperiale e
all’accademia delle scienze che l’uomo era scimmia. Richiesto di un esemplare di
scimmia parlante, si spinge a dire che ce ne sono in Madagascar. La zarina
Caterina ne vuole una, e alla fine, per non smentirsi, è Diderot stesso che si
mette nella pelle di una scimmia.
Una beffa. Sacher-Masoch si vendica
dell’illuminismo, ma non da reazionario: colpisce la superficialità. Anche se,
a ben guardare, la conferenza che Diderot presenta alla corte russa è darwiniana,
ha titolo come il sottotitolo dell’ “Origine della specie”: “Sulla parentela e
la discendenza dell’uomo”. L’uomo che discende dalla scimmia era tema nel
secondo Ottocento di molte facezie. .
Un racconto svelto e saporito, sulle debolezze degli
scienziati, erotiche e scientifiche, e soprattutto sulla zarina di Russia e la
sua amica del cuore, Caterina la Grande e la principessa Dashkova, con brillanti repartee e escogitazioni. Un racconto
molto diderotiano, sulle scarse virtù o debolezze dell’illuminismo e degli
illuministi, e sulla intelligenza del potere.
Leopold von Sacher-Masoch, Diderot a Pietroburgo, Sellerio, pp. 95 € 7
giovedì 4 giugno 2020
Secondi pensieri - 421
zeulig
Capitalismo
– È
un più che si accresce del meno. Del plusvalore nella produzione, a danno di
chi lavora, nel senso di Marx. Ma più in generale, in un quadro di risorse
limitate, definite. Con la rendita fondiaria, l’interesse, la speculazione
finanziaria, a danno del risparmio. È il suo limite. Che può essere governato,
ma più spesso non lo è: è la forza contro la debolezza.
Il neo capitalismo (fordismo) voleva
fare ricco anche il povero, far marciare i due insieme, lasciando un margine al
produttore (plusvalore) per il consumo, che diventa una sorta di motore
perpetuo della ricchezza universale.
Condizione
umana –
È diventata quella del lago vulcanico – l’immagine è dello scrittore Savinio,
nel monologo che apre il dramma “Alcesti”: “L’uomo non è più comandato da Dio,
si comanda da sé. Differenza come tra il lago alimentato dal fiume e il lago
vulcanico, che si alimenta da sé: dal
proprio fondo”.
Conquista
–
“Il segreto del conquistatore è si essere passivo”, Alberto Savinio, “Alcesti
di Samuele”: “Sentire il proprio vuoto e
cercare di riempirlo per fecondazione altrui”.
Savinio lo fa dire a Roosevelt,
“conquistatore del mondo” nella guerra contro Hitler: “Fare senza saper di
fare. Senza programma. Senza preconcetti. Senza fine prestabilito…. Senza minacce.
I conquistatori che non fanno paura”, dice lo scrittore, “a differenza dei Tedeschi”.
L’ultimo caso si direbbe della Cina ora con
gli Stati Uniti.
Dio – “Dio nasce in
Asia e muore in Europa”, è considerazione ancora di Savinio, “Alcesti d
Samuele”: “L’Europa divide Dio. Così vuole la ragione di questa terra. Di un
Dio fa tanti dei. Piccolissimi. Minuscoli. Tanti quanti sono gli uomini. E ogni
uomo, così, diventa un minuscolo dio”.
Europa
–
Nasce nei misteri, è l’argomentazione di R. Calasso, “Le nozze di Cadmo e
Armonia”, al cap. 1: Creta è il nucleo originario dell’Europa, ed è anche quella
che avvia i misteri, pur vivendoli in modo fanciullesco, acritico, astorico. È
l’Attica, spiega ancora Calasso, che produce misteri – elaborando quelli di Creta. La
terra cioè del logos, se non della ratio.
Globalizzazione – È entrata
presto in crisi perché ha rotto il patto neo capitalista. Progettualmente su un
universo neo capitalista più largo. Ma ha finito per spostarlo a beneficio di
altre aree, altre popolazioni, altri regimi politici (non democratici). A danno
del modello iniziale. Produce povertà in un’area a vantaggio di un’altra. In pratica
ha ricostituito il modello pre-neocapitalista. Ricostituendo il modello dello sfruttamento.
Attraverso strumenti più sofisticati: la mediazione, la copia, la
contraffazione, e la banca d’affari – l’interminabile ingestibile catena della
intermediazione finanziaria. Ma non meno distruttivi di quelli del mondo
precedente.
Metafisica – Calasso (“Cadmo e Armonia”, 95) la dice una
deriva erotica. Dopo aver analizzato “la mirabile dissimmetria su cui si fonda
l’amore ateniese per i ragazzi” come “descritta con la più minuta precisione
dal geometra erotico, Platone”. La cosa è semplice: “cedere all’amante”. Ma gli
Ateniesi sono diversi dai loro vicini, “un po’ più complicati e screziati,
anche nella «legge sull’amore»”, e s’inventano la parola. Non “rudi galanterie,
ma l’avio fiammeggiante di ciò che un giorno, usando una parola greca senza
ricordarne l’origine, si chiamerà «metafisica»”.
Mito – Secondo Rosmini,
“Storia dell’empietà”, il mito – i miti – è la narrazione del mondo dei
Giganti. Gli essere umani che si indiavano. Anti-diluviani, tramandati da Noè e
dai suoi figli che li avevano conosciuti. Una spiegazione come un’altra – sul
presupposto che le origini e la funzione del mito siano misteriose.
Le
compilazioni, invece, da Graves a Kéreniy e Calasso, lo storicizzano. Alla
maniera di Evemero, che legava i miti agli eroi e ai re. Né favola né mistero. E
neppure logica.
La
storia (il mito) come cronaca. Ma di una cronaca che si sa impossibile, perché
la divinizzazione di re e eroi (evemerismo) è venuta dopo, per ragioni
politiche, mentre il mito è anteriore.
Il
mito non ha buone opinione, contrariamente alla vulgata - epica, lirica, elegiaca.
I miti inventati dai greci erano riprovevoli per
Senofane, ridicoli per gli illuministi ionici (Talete, Anassimandro, Anassimene),
matti per Cicerone, scandalosi e corrotti per la patristica e sant’Agostino,
favolosi per Francesco Bacone.
Il mito del mito è recente. Ancora Max Müller (1823-1900), il
primo titolare di una cattedra di Filologia comparata, professore a Oxford, si
impegnava a spiegare “ciò che nella mitologia greca c’è di stupido, di assurdo
e di selvaggio, da far inorridire il più selvaggio dei pellirosse”.
Oligarchia – È la forma di
reggimento politico diffusa oggi, seppure sotto il nome di democrazia. I governi
democratici sono dei pochi e immutabili, seppure strutture aperte con cooptazioni
e uscite. Una struttura autoriproduttiva e e durevole, sulla quale i mutamenti
elettorali incidono poco o nulla – moti umorali. Sono quarant’anni, dalla crisi
fiscale dello Stato liberale e da quella dello Stato sovietico, che nessuna novità
politica si registra. Con scarsa
articolazione politica peraltro, oltre che poco incisiva, se non in superficie,
tra destra e sinistra, tra conservazione e progresso, sperimentazione. Limitata
al finanziamento pubblico – alla disposizione della risorsa fiscale. Che comunque
finisce per articolarsi sugli interessi e le progettualità della struttura di
potere, per quanto magmatica.
Risparmio – Era una virtù,
la virtù economica per eccellenza, è una colpa. L’Italia più risparmiosa al
mondo, insieme con il Giappone. Le lezioni di Einaudi, e di ogni scienziato delle
Finanze esperto. La giornata del risparmio. Un serbatoio per gli investimenti,
tramite le banche. Un accumulo senza sfruttamento.
Risparmiava
in qualche modo anche l’America spendacciona, con i fondi ad accumulo per l’istruzione
dei figli.
Ora
la Germania, economa per eccellenza, può pretendere che il risparmio si punito
con una patrimoniale – un’altra, ce ne sono già alcune, sulla casa, su depositi.
Il
risparmio ora va punito: è la proprietà, è una colpa. Ma non per ragioni
sociali o di equidistribuzione, per aumentare la liquidità, l’orizzonte della speculazione
– la Germania è un caso a parte, di psicologia sociale.
Storia – Si suppone, si
dice, la cronaca – una storia annalistica. Mentre è il suo contrario – è il rovescio
del tappeto, la trama.
C.A.,
famoso poi conduttore tv e scrittore, a suo tempo inopinato capo servizio
cronaca in un quotidiano, si limitava a proporre tutti i minuti eventi che l’agenzia
Ansa proponeva alla ripresa del servizio, occorsi durante la notte o nelle
prime ore del giorno.
L’aneddoto
non è da ridere: C.A. non selezionava (proponeva): quella era la cronaca, l’elenco.
La scelta sarebbe stata non più giornalismo (“giornalismo puro”), ma storia.
Verità – È il luogo dei molti – una sorta di conventio
ad excludendum, ma aperta, non faziosa. Anche in epoca di crisi, autogena
(è la verità della crisi) o indotta.
Un
luogo che non è il common sense, ma
quello duraturo. Sotto traccia. Inteso anche se non proclamato. E una forma di resistenza.
Della
persistenza come resistenza, e non come accumulo – del quale può anche fare a
meno: i punti di forza (durata) sono minimi, impercettibili, anche
indecifrabili.
zeulig@antiit.eu
“Non posso respirare” al tempo di Obama
“Non posso respirare” è un classico, dal tempo
di Obama. Di un nero robusto che però soffoca, stretto nella “presa” della polizia,
e muore dopo avere ripetutamente - undici volte nel primo caso, di Eric Garner
il 17 luglio 2014 - dato l’avvertimento fatale. Sotto l’obiettivo di passanti o
degli stessi poliziotti, in entrambi i casi, testimoni passivi.
Il video della
fine di Garner è nitido, sonoro compreso, come quello della fine di Floyd. L’unica
differenza è il luogo: New York nel 2014, e l’affollamento di poliziotti, per il
caso di un ciccione nero sospettato di vendere sigarette sfuse, che nega ripetutamente - una dozzina s’intravedono
nel video della fine di Garner, più un dirigente in abiti civili che quando
Garner cessa di rantolare allontana i passanti.
Con un precedente, ancora a New York, seppure
non reale, che merita citare. Moriva strangolato da un poliziotto per primo il
protagonista di “Fa’ la cosa giusta”, il film di Spike Lee, una trentina d’anni
fa.
“The New Yorker” ripubblica l’articolo che
Jelani Cobb, obamiano (già autore di un’apologia, “The Substance of Hope: Barack
Obama and the Paradox of Progress”, 2010), scrisse il 4 dicembre del 2014 per
stigmatizzare la mancata reazione del primo presidente nero all’assassinio di Garner.
Così come aveva fatto per altri neri prima di Garner, due giovanissimi, anche loro indifesi, disarmati, e senza imputazioni
specifiche, uccisi uno da una specie di guardia giurata e uno dalla polizia.
Obama si era limitato a “chiedere pazienza”. Sia al momento degli assassinii
sia quando, ai relativi processi, tutti gli accusati erano stati assolti.
L’articolo di Cobb è in punto di diritto. Se è
lecita, come i difensori dei poliziotti e le giurie popolari avevano
argomentato, la presunzione di colpa per via del colore. Del “profilo razziale”.
Per cui la colpa presunta è della vittima se appartiene a una “razza” il cui profilo
razziale è pericoloso, mentre la presunzione d’innocenza va all’assassino se di
profilo razziale non pericoloso. La colpa è a priori, della criminalità nera, e
non della brutalità della polizia. Un obbrobrio giuridico, è evidente. Che,
argomenta Cobb, Obama patrocina con intenti di pacificazione. Ma l’effetto è
che, “anche eliminando gli omicidi a opera dei neri, gli Stati Uniti avrebbero comunque
una popolazione più violenta delle
democrazie occidentali come la Gran Bretagna, il Canada e l’Australia”.
L’assassinio a freddo di un nero da parte della
polizia in America non è una novità. Era parte del linciaggio, anche a opera di
civili, che la legge non perseguiva, per tutto l’Ottocento, anche dopo la guerra
civile, e fino ai primi del Novecento. Nella forma specifica, di un nero non armato
e non in flagranza di reato ucciso dalla polizia, ha avuto due precedenti negli
anni di Obama, di Eric Garner il 17 luglio 2012, e di Trayvon Martin, il 26
febbraio 2012, e un terzo precedente sotto la presidenza di Bush jr., quello di
Sean Bell, alla vigilia del matrimonio, il 25 novembre 2006 – sul cui processo,
nel 2008, durante la sua prima campagna presidenziale, Obama chiese di
sorvolare.
Anche Bell è stato ucciso dalla polizia
di New York. A 22 anni, da tre agenti in borghese, due dei quali afroamericani,
a colpi di pistola, benché fosse disarmato. All’uscita dal locale dove aveva
festeggiato l’addio al celibato. Insieme con due amici, anch’essi colpiti dagli
agenti ma sopravvissuti.
Garner è morto come George Floyd. Stessa età,
43 anni Garner, 46 Floyd. Stessa imputazione, minima: smercio di sigarette
sfuse per Garner, spaccio di una banconota falsa per Floyd, una baconota da 20 dollari dal tabaccaio per
le sigarette. Stessa “presa” per il collo, per immobilizzare gli indiziati,
fatale, mentre lamentavano di non riuscire a respirare.
Trayvon Martin, 17 anni, stava andando a
trovare la fidanzata del padre, e fu sparato senza motivo. Non dalla polizia, da
uno Zimmermann della ronda di quartiere. Che poi è stato assolto due volte, sia
per l’assassinio sia per la violazione dei diritti civili (razzismo).
Sono stati assolti anche i poliziotti del caso Garner
e del caso Bell.
Jelani Cobb, No Such Thing as Racial Profiling, “The New Yorker”, 3 giugno 2020
mercoledì 3 giugno 2020
L’Europa della lesina
Calma
e ghiaccio, è sempe l’Europa della lesina – merkeliana, del “troppo poco troppo
tardi”. L’Europa non affronterà la crisi tutta subito, come fanno Cina e Stati
Uniti, malgrado abbia anch’essa decine di milioni di disoccupati, e il crollo
della produzione e dei redditi. La lascerà marcire – lascerà marcire l’Europa.
Alla
lettura, il Recovery Fund, che il governo italiano voleva un gigante
ammazza-crisi, risolutivo, è poco più di niente: una selva di micro-interventi,
scaglionata negli anni, soggetta a molte condizioni, cioè a lunghi controlli
burocratici.
Come
già nel 2008, l’Europa si avvia a non fare niente. Cina e Stati Uniti sono
subito riemersi – la famosa “conversione a V” – dopo la crisi bancaria, l’Europa
no. Lo stesso si avvia a fare ora, anche se la crisi è perfino peggiore che nel
2008.
Imprenditori
ed economisti sanno che i crac si evitano con una reazione forte, concentrata. Ma
la commissione von der Leyen non ha modificato il merkelismo al comando in Europa:
meglio non fare.
Meno Europa nel mondo – molto meno Italia
La
quota europea del commercio mondiale si è erosa rapidamente, dalla crisi
bancaria del 2007-2008. La Ue copriva il 38,5 delle esportazioni mondiali nel
2006, e il 33,8 per cento dodici anni dopo, nel 2018. L’export mondiale è
cresciuto nel dodicennio del 63 per cento, quello europeo del 42.
La
quota italiana si è dimezzata. Crescendo nei dodici anni di poco, il 13 per
cento. L’export italiano contava per il 3,5 per cento dell’export mondiale nel
2006, e per il 2,4 nel 2018.
È
andata bene, fino al 2019, la Germania, ma solo perché perché si è assunti dal
2006 otto milioni di lavoratori a carico parziale dell’assistenza pubblica.
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (427)
Giuseppe Leuzzi
Federico
Zeri mostra in “Dietro l’immagine” una piccola tavola di Antonello da Messina,
dipinta nelle due facciate, che su quella frontale ha un Cristo in “aspetto che
oggi si definirebbe mafioso”. Un Cristo
dolente, alla flagellazione, certo non bello. Nell’ovale, il nasone, gli occhi.
Però fa effetto che un dipinto del Quattrocento, di Antonello, un Cristo
nascosto in una collezione privata americana, diventino notevoli grazie all’aggettivo
mafioso.
Il
professor Zarrillo, direttore del San Raffaele di Milano, lo stesso ospedale
che propagò il contagio tre mesi fa, lo dichiara ora finito – “il virus è
sfinito”. Così si fa. Nessuno ride.
Oppure:
il virus sara sfinito al San Raffaele, troppo lavoro.
L’eroe è un
bruto
L’eroe
classico (greco) è un bruto, prima di Teseo. Si potrebbe argomentare in questo
retaggio la proliferazione “naturale” (spontanea) delle mafie. “Pare che in
quell’età”, scrive Plutarco (dove?), “vivessero uomini che, per destrezza di
mano, velocità di gambe e forza di muscoli, superavano la natura consueta ed
erano instancabili. Mai usavano le loro doti fisiche per fare del bene e
giovare agli altri, bensì si compiacevano nella brutale arroganza e godevano a
sfruttare la propria forza per azioni selvagge e feroci, soggiogando,
maltrattando e sterminando chi cadeva
nelle loro mani. Il rispetto, la giustizia, l’equità, la magnanimità per
loro erano virtù apprezzate soltanto da chi mancava del coraggio di fare il
male e aveva paura di subirne, ma non riguardavano chi aveva la forza per
imporsi”.
Non
è così. Le mafie sono un problema dei Carabinieri. E non si conoscono mafiosi
atletici, sono flaccidi in genere, e abili solo con le armi, a tradimento. Del
resto, Teseo, fondatore di Atene, deve esserne espulso: ha fatto un numero
eccessivo di morti, ha abusato degli dei, morirà assassinato in una faida –
nessuno è santo in vita. Però, volendo nobilitare le mafie, è suggestivo.
Con
Teseo peraltro le cose cambiano, avendo lui inventato “l’arte della lotta”,
sena più trucchi e sotterfugi: “Prima di Teseo era solo una questione di
statura e di forza bruta”. Prima della legge – del canone, del codice.
Il virus va al
Sud
“Vorrei
vedere, se invece della Lombardia, al centro del’epidemia ci fosse stata una regione
del Sud”. Non proprio in questi termini, ma contrariato dalle pressioni della Lombardia
per aprire gli spostamenti senza più alcun controllo, il presidente della
Toscana Enrico Rossi lo ha però detto: “Vedere Fontana e anche Sala così spinti
verso le riaperture, dopo il disastro che proprio in Lombardia ha avuto il suo
epicentro, mi lascia sbalordito e contrariato. Chissà se al posto della
Lombardia ci fossero state altre regioni, magari del Sud…”. Fontana, Lega, e
Sala, Pd come Rossi, uniti nella lotta.
Non
è sorprendente ma è incredibile che non ci sia autocritica a Milano. Anche una
limitata, di una sola persona. Un articolo di giornale - se ne scrivono tanti
ogni giorno.
A
Bergamo intanto la Procura della Repubblica solerte lavora a incriminare Roma.
Il governo. Le autorità sanitarie. È colpa loro se gli ospedali sono stati
gestititi male e malissimo in Lombardia, negli ospedali e dai medici di base, disinformati.
E se Bergamo non è stata dichiarata “zona rossa”.
Non
sembra. La Procura chiama a testimoniare il presidente della Regione Lombardia
e il suo assessore alla Sanità. Personaggi non si sa se più ridicoli o incapaci.
Ma la giudice milanesissima Maria Cristina Rota, che ha attivato la procedura,
non lo nasconde: si aspetta che la colpa sia di Roma. Solo, annora non sa come.
Milano
non ha finito di appestare e già butta la merda ai piani bassi, come usa. Il
leghismo non è un episodio.
Calabria
Ha
allevato e valorizzato personalità notevoli: Cassiodoro, Cicco Simonetta, Campanella,
Telesio. Che però non hanno proliferato. La Calabria non fa sistema. Per una aloofness che ritiene da puzza al naso (snobismo)
ma è più probabile tribale (anarchismo).
Un Joanni
(Joanne) Maurello è autore di un lungo “Lamento per la morte di don Enrico d’Aragona”
un epicedio in dialetto calabrese, cosentino: 296 versi, divisi in quattro
parti (“capituli”), stampati a Cosenza nel 1478. Ma non se ne sa nulla, né della
vita né dell’opera, e nessuno se ne occupa.
Di don Enrico d’Aragona,
un non personaggio, invece si sa tutto: figlio bastardo del re di Napoli
Ferrante, morì giovane – l’occasione dell’icedio – nel castello di Terranova di
Sibari, per avere mangiato funghi velenosi.
I
Bronzi di Riace a Reggio Calabria si celebrano per la bellezza. Mentre sono
esemplari unici: “Sono un esempio praticamente unico di cosa dovessero essere i
grandi bronzi greci del V secolo a.C.”, Federico Zeri, “Dietro l’immagine”,
61-62. Non ne sono rimasti altri. Ma Reggio, che li espone, non attira gli
studiosi – non promuove studi, non organizza simposi, non si fa pubblicità.
La
regione con la sanità ufficialmente più disastrata, con le amministrazioni di
destra e con quelle di sinistra, ha effettuato lo stesso numero di tamponi, più
o meno, per 100 mila abitanti della Toscana, l’Emilia-Romagna, la Liguria, e
molti di più di tutte le altre regioni meridionali. La necessità aguzza
l’ingegno? Al Sud è proverbio errato. Ma qualche verità deve avercela.
Il
maestro Arlia, 31 anni, concerti ala Carnegie Hall e alla Filarmonica di Berlino,
è celebrato da “Buone Notizie”. Tipo un immigrato che ce l’ha fatta. O una coltivazione
sfiziosa – il crisantemo sulla tomba, o sulla spazzatura.
Arlia
è celebrato anche come “più giovane direttore di conservatorio d’Italia”, il “Tchaikovsky”
di Catanzaro-Nocera Tirinese – lo dirige dal 2014, cioè dai suoi 24 anni. Un
conservatorio di cui si dice: “900 studenti, una parte consistente dei 5 mila
aspiranti musicisti della regione”. Come di perditempo, o di illusi,
superficiali. Calabria non si può legare a musica, anche se molti la praticano.
Alarico,
dopo aver saccheggiato Roma, pretese per il riscatto metalli preziosi e sacchi
di pepe. Forse
per questo si avventurò in Calabria: era ghiotto di peperoncino.
Ma
questo Alarico, di cui Cosenza si onora, in effetti è rincuorante: che il
glorioso impero romano sia crollato per mano sua. C’è sempre una speranza.
Emanuele
Trevi, “Due vite”, dice che Rocco Carbone s’immaginava come il comm. Ingravallo
di Gadda, “misero e pertinace”. Per essere, pensa Trevi, “arrivato in città da
un Meridione opaco, per niente solare e tanto meno dionisiaco: un retroterra di
grigiore sociale e culturale dal quale era possibile portarsi dietro
nient’altro che il decoro del contegno e una scienza disillusa del cuore
umano”. Ma a Reggio, dove Rocco era nato, e a Cosoleto, dove era cresciuto, con
la madre maestra e il padre sindaco, no: la cultura non manca, né il decoro.
Nella
villa palladiana di Nugola a Pisa, dove Rocco vive un matrimonio alla Grande
Gatsby con Samantha Traxler, Trevi nota invece un particolare molto calabrese:
“Nel garage fiammeggiava una Bmw rossa, regalo di nozze dei suoi”. Al Figlio.
Persefone,
nume tutelare di Locri e delle subcolonie locresi, figlia di Demetra e Zeus, è
incestuosa, prima che vittima di Ade – che peraltro era suo zio, fratello del
padre: con Zeus genera il Toro, di molte toponomastica e varia simbologia.
Locri
è colonia femminista – matrilineare. Ma la donna non vi ha nome in realtà. “Persefone
o Persefatta” Calasso (“Le nozze di Cadmo e Armonia”,225-6) dice “nomi oscuri,
nelle cui lettere risuonavano l’assassinio (phónos)
e il saccheggio (pérsis). Sovrapposti
a una bellezza senza nome se non di Fanciulla: Core”. I Greci non amavano le
donne.
leuzzi@antiit.eu
La Grecia era spaventosa
“Si danno due regimi dei rapporti fra gli dèi e
gli uomini: la convivialità e lo stupro. Il terzo regime, quello moderno, è
l’indifferenza, ma implica che gli dèi si siano già ritirati”. Calasso va forte,
apodittico, come tutto in questa rivisitazione, ma poi vero, forse. “Gli eroi
omerici sappiamo che un Dio li agiva”, è altra apodissi. Ed è tutto quello che
la psicologia sa, da allora non ha fatto un passo, se non per indorare la pillola con la
“responsabilità” di cui “i moderni sono fieri”, così pretendendo di lavarsi le
mani “con una voce di cui non sanno neppure se a loro appartiene”. Vittime di
Ate, divinità dell’accecamento, e di Ananke, “la necessità che tutto sovrasta”
- “ogni idea di progresso è confutata dall’esistenza dell’Iliade”. Un mondo di ossessioni: “Lo stupro è un possesso che è una
possessione”. Di un antifemminismo, si direbbe oggi, radicale. Di un’umanità
poco attraente: “Olimpia è la felicità dei Greci, esperti d’infelicità”.
Un’altra Grecia, non levigata, non idilliaca.
Un vagabondaggio nel mito greco. Greve più che
lieve. Come la sua materia, venendo – con Omero – dopo “quattro secoli senza
scrittura e senza centro”. Devastante anche, di una superficiale “mitologia
greca”, del bello, il buono e il logico. Con poche concessioni: “I Greci
evasero dal sacro verso il perfetto, confidando nella sovranità dell’estetico”.
Peraltro per un periodo “brevissimo”- “finché durò la tensione fra ils acro e
il perfetto, finché il saco e il perfetto riuscirono a convivere senza
sminuirsi”.
Un racconto di vite divine contrastate. Di
Zeus. Di Apollo. Di Ercole. Di Dioniso: “Il fallo di Dioniso è allucinogeno
prima che impositivo. Ha natura vicina al fungo, al parassita, all’erba
tossica”.Teseo è quello che regola la lotta, trasformando l’eroe da bruto a
regolato e regolatore. Ma è anche quello che rapisce le donne:”Teseo trasformò
in vezzo umano l’abitudine divina di rapire fanciulle”. È una delle tante
manifestazione di una misoginia costante, profonda: il greco odia le donne, il
femminile. Forse in memoria dell’epoca delle Amazzoni, feroci.
Cadmo e Armonia sono la coppia di identici, e
la storia più breve delle “favole” mitiche di Igino, il bibliotecario di
Augusto. Cadmo fu punito da Marte per avere ucciso il serpente che proteggeva
la fonte Castalia: perse i figli. Si isolò allora in Illiria, insieme con la moglie
Armonia, figlia di Venere e di Marte. E lì la coppia fu mutata in serpenti – il
serpente è il prolungamento del mare in terra, la froma liquida.
Calasso, novello Igino, nel mentre che narra i
miti, con Erodoto, Pausania, Plutarco, e Omero evidentemente, Esiodo, Eschilo,
Sofocle, Euripide, Pindaro, Platone, li legge – li interpreta. Fantasticare non
è illecito, in fondo i mirabilia medievali,
per quanto santificati, non sono da meno. Con buoni affondi filologici. Uno
dettagliato, al cap. III, documenta la guerra alle donne, a letto e in ogni
occasione – “La moralità classica discendeva in larga parte dalla riflessione
sull’amore”, ma “sull’amore per i ragazzi”, fondato “sull’esaltazione dell’ areté e sulla negazione dell’evidenza:
il piacere”. Con richiami non si sa se più maliconici o pruriginosi. Di Armodio
e Aristogitone che – questo ormai è saputo – non sono tirannicidi ma innamorati
insidiati: Armodio, “nel fiore della giovinezza”, da Ippia, il figlio del tiranno
Pisistrato, con gran dispetto dell’amante del giovane, Aristogitone, “cittadino
medio”. Mentre Dioniso è scoperto da Clemente Alessandrino, padre della chiesa,
nell’atto di improsarsi con un ramo di fico, esendo l’uomo della bisogna morto.
Non uno sberleffo al mito, anzi, una revisione
del “classico” – bello e puro. Una Grecia inquietante, malgrado i saperi, e la
forza militare. Un Olimpo inquietante. “Quando
Greci dovevano appellarsi a un’autorità ultima, non citavano testi sacri
ma Omero. Sull’Iliade si fondava la
Grecia. E l’Iliade si fondava su un
gioco di parole, sullo scambio di una lettera. Briseide, Criseide”. Entrambe
indistinguibili, kallipàreos, “dalle
belle guance”, se non per la lettera iniziale. “Se dovessimo definire cos’è
stato il mito per i Greci, potremmo dire, usado il rasoio di Occam: tutto ciò che
ci allontana dalla sensazione media del vivere «Insieme a un dio, sempre si piange
e si ride»”, leggiamo
nell’«Aiace»”.
Una narrazione in antitesi – non polemica, non
detta – con le riletture dei miti greci condotte da James Hillman, pure autore
pregiato da Calasso in Adelphi, sulle tracce di Jung - “gli dei sono diventati
malattie”.
C’è di più nella eccezionale mitografia greca,
di immaginario e di materiale. Che Calasso puntiglioso - non gli sfugge, si
direbbe, una virgola - mette in mostra. Con una vertiginosa rilettura in chiaro
delle ingarbugliatissime mitologie greche – un’aneddotica che ha più
dell’accumulo che del sensato. Senza paura, e senza riguardi: “Le figure del
mito vivono molte vite e molte morti, a diferenza dei persoanggi del romanzo,
vincolati ogni volta a un solo gesto”.
Vertiginosa anche la destianazione: un pubblico affollato, per molte
edizioni, in Europa, a fine Novecento – era appena ieri (riproposto peraltro
per i vent’anni, arricchito da immagini, nella grafica passatista, fine ‘400,
della”Hypnerotomachia Poliphili”, in un’edizione “di lusso”, € 150).
Calasso ha sbrogliato la matassa? In parte sì,
da cultore della materia mitica, come ha già fatto, all’epoca di questo “Cadmo
e Armonia”, 1988, con Ignazio di Loyola, e come farà con la materia indiana. In
parte la racconta, cioè la inventa. Seguire Dioniso, al cap. 5, è un’impresa.
Viene in mente naturalmente Nietzsche, filologo anch’egli in libertà, benché in
cattedra, e cioè “il mito siamo noi”. Il mito è “scandaloso”, dirà Calasso
altrove (al convegno “Raccontare il mito”, maggio 1990, salone del Libro di
Torino), di “irrefrenabile menzogna” – Platone sarà colto da “vertigine di
terrore di fronte al proliferare delle immagini”. Ma questa non è una
compilazione, per quanto dotta, al contrario, è un libro d’autore: la sistemazione
(l’ordine) è invenzione.
La lunga, minuziosa, narrazione resta un
ordinativo del magma. Anche se al modo chi sa i miti greci meglio dei greci -
una messa in opera dell’erudizione molto creativa, anche troppo - ma
l’erudizione si salva in altra maniera? “Le storie mitiche sono sempre
fondatrici. Ma possono fondare sia l’ordine sia il disordine”. I miti non hanno
buone opinione, contrariamente alla vulgata, epica, lirica, elegiaca. I miti
inventati dai greci erano riprovevoli per Senofane,
ridicoli per gli illuministi ionici, Talete, Anassimandro, Anassimene, matti
per Cicerone, scandalosi e corrotti per la patristica e sant’Agostino, favolosi
per Francesco Bacone. Il mito del mito è recente. Ancora Max Müller (1823-1900),
il primo titolare di una cattedra di Filologia comparata, professore a Oxford, si
impegnava a spiegare “ciò che nella mitologia greca c’è di stupido, di assurdo
e di selvaggio, da far inorridire il più selvaggio dei pellirosse”.
Roberto
Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi, pp. 487 € 15
Un vagabondaggio nel mito greco. Greve più che lieve. Come la sua materia, venendo – con Omero – dopo “quattro secoli senza scrittura e senza centro”. Devastante anche, di una superficiale “mitologia greca”, del bello, il buono e il logico. Con poche concessioni: “I Greci evasero dal sacro verso il perfetto, confidando nella sovranità dell’estetico”. Peraltro per un periodo “brevissimo”- “finché durò la tensione fra ils acro e il perfetto, finché il saco e il perfetto riuscirono a convivere senza sminuirsi”.
Un racconto di vite divine contrastate. Di Zeus. Di Apollo. Di Ercole. Di Dioniso: “Il fallo di Dioniso è allucinogeno prima che impositivo. Ha natura vicina al fungo, al parassita, all’erba tossica”.Teseo è quello che regola la lotta, trasformando l’eroe da bruto a regolato e regolatore. Ma è anche quello che rapisce le donne:”Teseo trasformò in vezzo umano l’abitudine divina di rapire fanciulle”. È una delle tante manifestazione di una misoginia costante, profonda: il greco odia le donne, il femminile. Forse in memoria dell’epoca delle Amazzoni, feroci.
Cadmo e Armonia sono la coppia di identici, e la storia più breve delle “favole” mitiche di Igino, il bibliotecario di Augusto. Cadmo fu punito da Marte per avere ucciso il serpente che proteggeva la fonte Castalia: perse i figli. Si isolò allora in Illiria, insieme con la moglie Armonia, figlia di Venere e di Marte. E lì la coppia fu mutata in serpenti – il serpente è il prolungamento del mare in terra, la froma liquida.
Calasso, novello Igino, nel mentre che narra i miti, con Erodoto, Pausania, Plutarco, e Omero evidentemente, Esiodo, Eschilo, Sofocle, Euripide, Pindaro, Platone, li legge – li interpreta. Fantasticare non è illecito, in fondo i mirabilia medievali, per quanto santificati, non sono da meno. Con buoni affondi filologici. Uno dettagliato, al cap. III, documenta la guerra alle donne, a letto e in ogni occasione – “La moralità classica discendeva in larga parte dalla riflessione sull’amore”, ma “sull’amore per i ragazzi”, fondato “sull’esaltazione dell’ areté e sulla negazione dell’evidenza: il piacere”. Con richiami non si sa se più maliconici o pruriginosi. Di Armodio e Aristogitone che – questo ormai è saputo – non sono tirannicidi ma innamorati insidiati: Armodio, “nel fiore della giovinezza”, da Ippia, il figlio del tiranno Pisistrato, con gran dispetto dell’amante del giovane, Aristogitone, “cittadino medio”. Mentre Dioniso è scoperto da Clemente Alessandrino, padre della chiesa, nell’atto di improsarsi con un ramo di fico, esendo l’uomo della bisogna morto.
Non uno sberleffo al mito, anzi, una revisione del “classico” – bello e puro. Una Grecia inquietante, malgrado i saperi, e la forza militare. Un Olimpo inquietante. “Quando Greci dovevano appellarsi a un’autorità ultima, non citavano testi sacri ma Omero. Sull’Iliade si fondava la Grecia. E l’Iliade si fondava su un gioco di parole, sullo scambio di una lettera. Briseide, Criseide”. Entrambe indistinguibili, kallipàreos, “dalle belle guance”, se non per la lettera iniziale. “Se dovessimo definire cos’è stato il mito per i Greci, potremmo dire, usado il rasoio di Occam: tutto ciò che ci allontana dalla sensazione media del vivere «Insieme a un dio, sempre si piange e si ride»”, leggiamo nell’«Aiace»”.
Una narrazione in antitesi – non polemica, non detta – con le riletture dei miti greci condotte da James Hillman, pure autore pregiato da Calasso in Adelphi, sulle tracce di Jung - “gli dei sono diventati malattie”.
C’è di più nella eccezionale mitografia greca, di immaginario e di materiale. Che Calasso puntiglioso - non gli sfugge, si direbbe, una virgola - mette in mostra. Con una vertiginosa rilettura in chiaro delle ingarbugliatissime mitologie greche – un’aneddotica che ha più dell’accumulo che del sensato. Senza paura, e senza riguardi: “Le figure del mito vivono molte vite e molte morti, a diferenza dei persoanggi del romanzo, vincolati ogni volta a un solo gesto”. Vertiginosa anche la destianazione: un pubblico affollato, per molte edizioni, in Europa, a fine Novecento – era appena ieri (riproposto peraltro per i vent’anni, arricchito da immagini, nella grafica passatista, fine ‘400, della”Hypnerotomachia Poliphili”, in un’edizione “di lusso”, € 150).
Calasso ha sbrogliato la matassa? In parte sì, da cultore della materia mitica, come ha già fatto, all’epoca di questo “Cadmo e Armonia”, 1988, con Ignazio di Loyola, e come farà con la materia indiana. In parte la racconta, cioè la inventa. Seguire Dioniso, al cap. 5, è un’impresa. Viene in mente naturalmente Nietzsche, filologo anch’egli in libertà, benché in cattedra, e cioè “il mito siamo noi”. Il mito è “scandaloso”, dirà Calasso altrove (al convegno “Raccontare il mito”, maggio 1990, salone del Libro di Torino), di “irrefrenabile menzogna” – Platone sarà colto da “vertigine di terrore di fronte al proliferare delle immagini”. Ma questa non è una compilazione, per quanto dotta, al contrario, è un libro d’autore: la sistemazione (l’ordine) è invenzione.
La lunga, minuziosa, narrazione resta un ordinativo del magma. Anche se al modo chi sa i miti greci meglio dei greci - una messa in opera dell’erudizione molto creativa, anche troppo - ma l’erudizione si salva in altra maniera? “Le storie mitiche sono sempre fondatrici. Ma possono fondare sia l’ordine sia il disordine”. I miti non hanno buone opinione, contrariamente alla vulgata, epica, lirica, elegiaca. I miti inventati dai greci erano riprovevoli per Senofane, ridicoli per gli illuministi ionici, Talete, Anassimandro, Anassimene, matti per Cicerone, scandalosi e corrotti per la patristica e sant’Agostino, favolosi per Francesco Bacone. Il mito del mito è recente. Ancora Max Müller (1823-1900), il primo titolare di una cattedra di Filologia comparata, professore a Oxford, si impegnava a spiegare “ciò che nella mitologia greca c’è di stupido, di assurdo e di selvaggio, da far inorridire il più selvaggio dei pellirosse”.
Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi, pp. 487 € 15
martedì 2 giugno 2020
Problemi di base proustiani - 569
“Tempo perduto”, cioè sprecato?
Non si legge nella pandemia, benché sia piena di tempo?
E prima?
Le fanciulle in fiore - di cardo?
Albertine dorme un terzo del tempo: tutti lo facciamo, ma
il romanzo è della dormita?
Mille pagine di gelosia, e il fegato ancora sano?
Ci saranno molte ricerche, ora che di tempo ne abbiamo perduto
tanto?
spock@antiit.eu
Servizi cinesi rapinosi - 2
Il dispenser
delle pasticche stevia Misura – s’incaglia subito.
Il modem Sky – togliere e mettere la presa elettrica.
Il modem internet fibra – per colate di internet “a consumo” (cento euro al
mese).
Windtre di Hutchison - provare per credere.
Il telefono da tavolo Brondi: se prende la linea è un miracolo - per le altre
funzioni “attaccarsi”: chiamata vocale, segnalazione chiamate non
risposte, volume suoneria, contrasto Lcd.
“Tonnellate” di medicinali, attrezzature sanitarie, dispositivi di protezione
individuali, gel, visiere vengono - venivano - scaricate
trionfalmente, giornalmente, nei notiziari, dalla Cina. Non si sa quanto utili,
ma come una cornucopia. Per i cinesi, che istantanei si fioccano sui mercati
che si aprono, anche quelli della morte. A prezzi sempre esorbitanti sul costo.
Favoriti da una selva di mediatori (importatori, distributori, grossisti) – i
quali, è vero, arricchiscono pure loro.
Con Zhang, padrone cinese, tutto all’Inter è in crescita record, in Italia e in
Europa: tifosi, audience, marketing - eccetto che sul campo, malgrado Conte, ma
questo non importa.
Tutto cresce
soprattutto per Zhang, che si paga un comodo 8 per cento sul d del club:
più debito più entrate, è il nuovo miracolo (cinese) a Milano.
Monopolio
della telefonia cellulare di nuova generazione a Huawei? Contro tutte le regole
antitrust, e contro tutte le protezioni, costituzionali e giuridiche, in
materia di comunicazione. Ma per una ragione semplice: Huawei è cinese. Che in
termini di Occidente-Oriente sembrerebbe un handicap, e invece è un vantaggio
quasi decisivo – in Italia ma non solo: la Cina paga bene.
Savinio profondista
Il teatro “impossibile” di Savinio. Impossibile
da rappresentare, come il curatore Alessandro Tinterri spiega con la
corrispondenza e le recensioni in appendice. Benché “Alcesti” abbia avuto la
prima al Piccolo di Milano, Strehler alla regia, 1950, e sia stato in
cartellone per un paio di settimane, addirittura, di repliche, ma col pubblico
e i critici divisi.
Un’idea geniale, nata da un triste aneddoto che
Savinio ha già raccontato in varie sedi, “Il Tempo”, “La Lettura”, “La Fiera
Letteraria”, “Corriere d’informazione”, e ha ripreso in “Sorte dell’Europa”,
1945. Assistendo alle prove del
“Wozzeck” di Alban Berg al teatro dell’Opera di Roma nell’autunno del 1942, ha
notato in sala uno sconosciuto che attira la sua attenzione, in quanto “carico
di fato”. Roman Vlad gli ha spiegato che è un editore di musica di Vienna,
editore anche del “Wozzeck”, sposato a un’ebrea, la quale all’inasprirsi
dell’antisemitismo si è uccisa per non danneggiare il marito.
Un gancio formidabile. Che il classicista
Savinio trasla automaticamente nel racconto mitico di Alcesti, la moglie che
sola seppe immolarsi per salvare il marito. Un precedente commovente,
energizzante – Alcesti è la sola donna eroica nella sterminata mitologia greca,
ha commosso perfino Platone, che al paragone dice Orfeo “di animo molle”. Ma da
Savinio estenuato – sia il fatto, l’aneddoto, che il mito - nella rappresentazione; tra la politica, nella persona di F.D .Roosevelt,
l’“Ercole dei nostri tempi”, raddrizzatore dei torti, la discesa agli inferi,
anche qui, in un Kursaal della Morte, e una Morte che si maschera di
Resurrezione. Un dramma freddo. Difficile da argomentare, e tanto più da
compartecipare in teatro. Nella “Nuova Enciclopedia” Savinio stesso andava
ammonendosi dell’impossibilità: “La verità è questa sola: dramma non c’è più da
quando non c’è più Dio” – evoluzione che diceva “ragione per noi di profondo
compiacimento”. Deludente due volte. Non è vero che non c’è dramma senza Dio,
anzi. E non c’è leggerezza nei filosofemi.
Lo scrittore professo anti-“profondista” si
espande per duecento lunghe pagine, il doppio di una rappresentazione a teatro,
sulla vita e la morte, e altre metafisiche – la libertà, l’amore, etc. Non
sempre chiaro, anzi più confuso che non. La colpa non è di Hitler né di
Mussolini, è uno degli argomenti minimi – altri sono estesi, tipo la morte che
è vita, o l’esserci che non c’è. “La colpa è dei popoli che hanno espresso dai
propri visceri questi due personaggi”, etc.. Lezioso: “La morte ci coglie per
noia”. O per la “luce indiretta” in salotto: “Ora capisco da dove è venuta la
moda della luce indiretta. Apposta nei salotti di oggi mi sento morto tra morti”. La freddura è micidiale quando non
incide.
Vale la prima recensione, all’“Alcesti”
publicato da Bompiani, prima della messinscena al Piccolo, di Silvio D’Amico,
che Tinterri cita nelle “Note”: “Savinio qui finisce per discorrere de omni re scibili: ve lo ritroviamo
tutto, con le sue predilezioni e le sue ripugnanze, le sue puntate polemiche
sino al pettegolezzo e le sue sublimi illuminazioni; che parla della vita e della
morte, della pace e della guerra, della tirannia e della libertà e perfino, ma
sì, del teatro”.
Il teatro era l’ambizione da ultimo di Savinio,
più della musica. Che vi eccelse con scene e scenografie, ma non con la
produzione drammatica. I tre atti unici, “Il suo nome”, “La famiglia
Mastinu” e il monologo, che ha avuto maggior fortuna, “Emma B. vedova Giocasta”,
ruotano anch’essi attorno alla morte – Emma è “vedova” del suo figliolo amato, come
la Giocasta classica madre dell’edipo freudiano.
Savinio è in realtà – il suo anatomopatologo
Pedullà, Walter, l’ha accertato - autore di “profondità”, sotto l’avversione
professata per il “profondismo”. Alla pari degli anti-“profondisti” classici,
Pope, Swift e gli altri “scribleriani”. “Alcesti” non è un caso, anche in “Casa «La Vita»” non
si parla che di morte. L’autore ha il vizio, dice Savinio di se stesso, di
“mescolare scherzo e serietà”. Ma qui no. “L’azione comincia quando comincia la
parola”, finisce per professare in quanto Personaggio-Autore: “Si cambi la
definizione, il teatro è parola. Meglio ancora: «tutto» sta nella parola”.
Un’idea geniale, nata da un triste aneddoto che Savinio ha già raccontato in varie sedi, “Il Tempo”, “La Lettura”, “La Fiera Letteraria”, “Corriere d’informazione”, e ha ripreso in “Sorte dell’Europa”, 1945. Assistendo alle prove del “Wozzeck” di Alban Berg al teatro dell’Opera di Roma nell’autunno del 1942, ha notato in sala uno sconosciuto che attira la sua attenzione, in quanto “carico di fato”. Roman Vlad gli ha spiegato che è un editore di musica di Vienna, editore anche del “Wozzeck”, sposato a un’ebrea, la quale all’inasprirsi dell’antisemitismo si è uccisa per non danneggiare il marito.
Un gancio formidabile. Che il classicista Savinio trasla automaticamente nel racconto mitico di Alcesti, la moglie che sola seppe immolarsi per salvare il marito. Un precedente commovente, energizzante – Alcesti è la sola donna eroica nella sterminata mitologia greca, ha commosso perfino Platone, che al paragone dice Orfeo “di animo molle”. Ma da Savinio estenuato – sia il fatto, l’aneddoto, che il mito - nella rappresentazione; tra la politica, nella persona di F.D .Roosevelt, l’“Ercole dei nostri tempi”, raddrizzatore dei torti, la discesa agli inferi, anche qui, in un Kursaal della Morte, e una Morte che si maschera di Resurrezione. Un dramma freddo. Difficile da argomentare, e tanto più da compartecipare in teatro. Nella “Nuova Enciclopedia” Savinio stesso andava ammonendosi dell’impossibilità: “La verità è questa sola: dramma non c’è più da quando non c’è più Dio” – evoluzione che diceva “ragione per noi di profondo compiacimento”. Deludente due volte. Non è vero che non c’è dramma senza Dio, anzi. E non c’è leggerezza nei filosofemi.
Lo scrittore professo anti-“profondista” si espande per duecento lunghe pagine, il doppio di una rappresentazione a teatro, sulla vita e la morte, e altre metafisiche – la libertà, l’amore, etc. Non sempre chiaro, anzi più confuso che non. La colpa non è di Hitler né di Mussolini, è uno degli argomenti minimi – altri sono estesi, tipo la morte che è vita, o l’esserci che non c’è. “La colpa è dei popoli che hanno espresso dai propri visceri questi due personaggi”, etc.. Lezioso: “La morte ci coglie per noia”. O per la “luce indiretta” in salotto: “Ora capisco da dove è venuta la moda della luce indiretta. Apposta nei salotti di oggi mi sento morto tra morti”. La freddura è micidiale quando non incide.
Vale la prima recensione, all’“Alcesti” publicato da Bompiani, prima della messinscena al Piccolo, di Silvio D’Amico, che Tinterri cita nelle “Note”: “Savinio qui finisce per discorrere de omni re scibili: ve lo ritroviamo tutto, con le sue predilezioni e le sue ripugnanze, le sue puntate polemiche sino al pettegolezzo e le sue sublimi illuminazioni; che parla della vita e della morte, della pace e della guerra, della tirannia e della libertà e perfino, ma sì, del teatro”.
Il teatro era l’ambizione da ultimo di Savinio, più della musica. Che vi eccelse con scene e scenografie, ma non con la produzione drammatica. I tre atti unici, “Il suo nome”, “La famiglia Mastinu” e il monologo, che ha avuto maggior fortuna, “Emma B. vedova Giocasta”, ruotano anch’essi attorno alla morte – Emma è “vedova” del suo figliolo amato, come la Giocasta classica madre dell’edipo freudiano.
Savinio è in realtà – il suo anatomopatologo Pedullà, Walter, l’ha accertato - autore di “profondità”, sotto l’avversione professata per il “profondismo”. Alla pari degli anti-“profondisti” classici, Pope, Swift e gli altri “scribleriani”. “Alcesti” non è un caso, anche in “Casa «La Vita»” non si parla che di morte. L’autore ha il vizio, dice Savinio di se stesso, di “mescolare scherzo e serietà”. Ma qui no. “L’azione comincia quando comincia la parola”, finisce per professare in quanto Personaggio-Autore: “Si cambi la definizione, il teatro è parola. Meglio ancora: «tutto» sta nella parola”.