Giuseppe Leuzzi
Core,
la “fanciulla”, che Ate rapisce in matrimonio, significa anche “occhio”. Segna
il passaggio, dice Calasso, dall’invisibile al visibile. Dal “serpente”, l’ignoto,
violento, al “fiore del visibile, e quel fiore era Persefone”. Il cui rapimento
si compì “nell’ombelico della Sicilia, vicino a Enna”, e il cui culto si
celebrava a Locri in Calabria. Che la svolta epocale indotta dal connubio non
si sia ancora prodotta?
“All’uso
del dialetto in Italia corrisponde sempre una crisi del linguaggio colto e
dunque della classe dirigente. Non è un caso che i tre maggiori scrittori
dialettali italiani, il Goldoni, il Porta e il Belli, sono raggruppati intorno
agli anni della Rivoluzione Francese, la quale trovò le classi dirigenti
italiane del tutto impreparate, in un secondo momento, avverse” – Alberto Moravia,
“Risposta a nove domande sul romanzo”, 1959 (ora in “L’uomo come fine”). È vero
della Lega, specie nel Veneto, ma di più del Meridione. Mai si era parlato nel
dopoguerra un dialetto - a Napoli, nella Calabria reggina, le aree sociali più
disastrate - così chiuso e cupo, mentre usava addolcito e anzi italianizzato.
Procede
cauta, malgrado l’ecatombe, l’inchiesta sulle responsabilità politiche nella
gestione del coronavirus in Lombardia. Quando i fatti sono noti: il “miglior
sistema sanitario d’Italia” aveva - e ha - le liste d’attesa più lunghe.
Compresi i ricoveri d’urgenza: l’attesa al Pronto Soccorso si poteva farla
durare fino a 24 ore – anche a 36 a Codogno, il focolaio della pandemia. Cose
che sanno tutti.
Inutile
dire cosa ne avrebbero fatto una Procura calabrese o siciliana, Gratteri per
esempio o Di Matteo, se il contagio si
fosse diffuso in Calabria o in Sicilia. Il rispetto per se stessi è un male o un
bene?
Alvaro
antropologo cosmopolita
Riesaminandolo
su consiglio di una lettrice per il “Robinson”, per la serie degli scrittori da
riscoprire, Paolo Mauri ritorna sulla sua definizione di Corrado Alvaro come di
“uno scrittore antropologo”. E lo fissa sulla memoria, che fatalmente è quella
dell’infanzia e adolescenza, quindi del padre, dei collegi, e dell’ambiente
natio. Dei quali, per la verità, poco si evince dalle narrazioni di Alvaro,
mentre molto si sa di fatto. Ma è vero, è l’Alvaro quali siamo abituati a
leggere, di “Gente in Aspromonte”, di “L’età breve”, e poi di “Mastrangelina”, della
vita primitiva, violenta, del mondo dei bambini separato, della madre che a
tavola serve e controlla, attenta ai sussurri, ma non si siede. Lo scrittore pero però aveva tutt’altro spessore, cosmopolita, in un’epoca in cui era difficile non
essere provinciale, regionale. Un migrato mentale fin da subito, si può
supporre, dai primi studi, in collegio prima dell’espulsione (dal collegio
gesuita di Mondragone – lo espulse padre Lorenzo Rocci, quello del vocabolario
greco) e in stanze d’affitto. Ne sono testimonianza il corposo volume Bompiani degli
“Scritti dispersi 1921-196” raccolti da Mario Strati e Walter Pedullà nel 1995,
e “Le corrispondenze per «Il Mondo» da Parigi, 1922-1925”, editate da
Anne-Christine Faitrop-Porta. In questa prospettiva, rileggendolo, resta un
fine antropologo, ma da esterno: non memorializza, osserva. Non condivide, come
una rilettura può confermare, ma dettaglia.
In
realtà Alvaro è perseguitato dall’origine: il paese, povero, poverissimo, e poi
malfamato, il padre, l’orizzonte basso, l’allontanamento forzoso. Non si è
riconciliato. Di fatto, tornando, una o due volte, malvolentieri – accettandolo
per quieto vivere, per liberarsi dal rischio ossessione. E di poetica: ne media
(non) molti umori ma come sa fare anche a Parigi, primo traduttore italiano di
Proust (“La prigioniera”, sul “Mondo” di Amendola, 1922), e a Berlino.
Si
fa presto a dire Calabria. Che è – può essere - molte cose. Già negli anni dell’infanzia
di Alvaro. Tra San Luca e Polsi - asse oggi sfigurato dalla malavita - l’arcaismo
è feroce. Solido, si direbbe, e elastico. Mitico, cioè violento e non idillico,
come la parola ha finito per figurare.
Presentat’arm –
la mafia nel 1956
In
“Onora il padre”, 1971, Gay Talese racconta in apertura la tappa siciliana del
viaggio di nozze di Bill Bonanno, figlio bello, alto e coltivato del boss di mafia newyorchese Joseph, altrettanto
bello e imponente, come un “ritorno a casa”. Castellammare del Golfo come un
luogo natìo, la famiglia allargata con le faide anche intestine come una
necessità, benché rischiosa. Era il 1956 – fine agosto. Talese s’immagina
troppo? È possibile. Ma le radici esistono, ben più larghe e impositive del dna,
contano, pesano.
Castellammare
Talese inquadra come “un tranquillo villaggio di pescatori ai piedi di una
montagna”, come di fatto è. Di cui “un’informativa pubblicata” voleva “che l’80
per cento della popolazione maschile adulta era stato in prigione”. Questa è
verosimile, l’informativa – inutile chiedersi se veritiera: dà l’idea. E
l’arrivo in aereo della coppia a Palermo salutato da una folla in attesa,
capitanata dallo zio calvo di Bill, John Bonventre, che si era ritirato in
pensione l’anno prima “dagli affari” a New York, “portandosi dietro la
fornitura di una vita di carta igienica”. Con concorso di baci e abbracci da
parte della folla di sconosciuti, e sconcerto degli americanissimi sposini.
Questo è verosimile, e vero. La coppia veniva da un ricevimento di nozze per
oltre 3.000 invitati nei saloni dell’Astoria Hotel, il più in di New York, onorevoli, ecclesiastici, e tutte le “famiglie”
mafiose di Stati Uniti e Canada – le mafie italo-americane. “Non c’era di fatto
un grande allarme pubblico sulla mafia nel 1956”.
La
folla in attesa in aeroporto Talese dice inquadrata dai Carabinieri in alta uniforme. Che
“osservarono impassibili per qualche momento, poi si fecero di lato, aprendo
un varco” nella folla al parco automobili “illegalmente parcheggiate in attesa”.
Le automobili, dunque, “parcheggiate illegalmente”.
Il
presidio militare Talese dice di “Carabinieri statueschi, in divise sgargianti,
brandenti luccicanti sciabole argentate, torreggianti sulla folla”. L’alta
uniforme dei Carabinieri contemplava la sciabola al fianco. Ma dentro il
fodero, e non si sa quanto arrugginita più che luccicante. L’alta uniforme era
di panno duro, e ad agosto a Palermo, all’aeroporto senza una linea d’ombra,
non è pensabile. Ma c’è rispetto per la mafia in Talese, in altra narrativa
formidabile narratore delle origini, “Ai figli dei figli”, 1992 - un mondo senza
mafia, se non ridicola. Il problema è la mafia nel 1956.
Il disordine della
legge
Carabinieri
severissimi durante il lockdown, in
Calabria, in Sicilia. Ma sempre come scesi dal cielo, cattivissimi. Con multe
da centinaia e migliaia di euro da cui ora è difficile liberarsi. Un ristoratore
che non faceva cento euro al giorno col cibo da asporto multato di settecento perché
la regione Calabria due ora prima aveva decretato il non-asporto. Decreto peraltro
sentito alla radio, genericamente, e solo da uno dei due Carabinieri. O i
soliti giornalai insolentiti e minacciati. Per vendere anche cartoleria, come
da licenza. Oppure per tenere aperto la domenica mattina.
C’è,
per i Carabinieri stanziali come per i vigili urbani in città, un problema di
formazione-informazione. Quindi anche - di più - sulle regole mutevoli che il
contagio ha imposto. Formazione-informazione che evidentemente non si fa –
lavorare stanca. Ma c’è al Sud, nei Carabinieri di paese, un atteggiamento
ostile. Prevenuto. Frutto evidentemente non di personalità o umoralità ma di
scuola: il Carabiniere, milite, sottufficiale, ufficiale, viene mandato al Sud
prevenuto. Con l’ordine di antagonizzare la gente. Che è la maniera sbagliata
di applicare la legge.
Si
capisce che, malgrado gli arresti mattutini di trenta-quaranta, anche settanta
e ottanta, i delinquenti al Sud crescono e si moltiplicano.
La
droga, certo, e il riciclaggio, i delitti ora più comuni, non sono certo da
imputare ai Carabinieri. Ma una volta il Carabiniere era parte della comunità,
la sua parte migliore, col medico condotto, il prete e pochi altri. Ora è un
nemico.
Non
è un novità. Per esperienza personale si può testimoniarla attitudine normale
già negli anni 1960. Ma si vede che in cinquant’anni la cosa non è migliorata.
Il quesito è sempre quello: perché antagonizzare gli onesti?
Sicilia
Sulla
scia di Camilleri, che era sulla scia di Sciascia (la scia di Sciascia…), la
Sicilia è “diventata una vera nursery
di funzionari di polizia e di appassionati investigatori”, calcola Salvatore Ferlita
su “la Repubblica-Palermo”. Compresi “un fanatico del caffè, un diabetico, e
ora un indolente”.
Ma,
dice anche Ferlita, “si moltiplicano gli investigatori di carte figliocci di Sciascia
e Franco Enna”. E chi è Franco Enna? È “famosissimo autore di gialli e
apprezzato scrittore di racconti di fantascienza”. Pseudonimo, di Franco
Cannarozzo.
Ferlita
elenca una ventina di investigatori made in Sicily – anche forestieri al lavoro
in Sicilia, e viceversa. Ma solo investigatori in divisa, mancano quelli che
all’induzione arrivano per altre esperienze, il biologo La Marca di Santo
Piazzese, e altri.
2014,
operazione Mafia Capitale, i siculi Pignatone e Prestipino esportano la mafia a
Roma - che la Cassazione ora sancisce non esserci: nessuna minaccia, tutti
volentieri si facevano (si fanno) corrompere
con le mazzette. Due giudici, non due mafiosi, il capo e il vicecapo della
Procura della capitale.
Si
direbbe la mafia ossessione sicula. Ma non di Camilleri, per esempio, e
nemmeno, alla fine, di Sciascia, con tutta la “linea della palma” che sale, sale.
Forse dei magistrati siculi. Ma anche qui con eccezioni: Chinnici per esempio, Falcone,
Borsellino, che i mafiosi semplicemente mettevano dentro. Di alcuni giudici,
buon trampolino di carriera. Senza impegno (fatica), basta la parola.
Il
Marty di Rovereto, cioè Sgarbi, chiedeva in prestito a Siracusa un Caravaggio,
per una mostra su Caravaggio incentrata proprio sul “Seppellimento di santa Lucia”,
nella chiesa di Santa Lucia alla Badia (chiusa, n.d.r.), di cui avrebbe
finanziato con 350 mila euro il restauro – un restauro “in attesa da quindici
anni”, dice Sgarbi. Una tempesta: mai Caravaggio si deve allontanare da
Siracusa, sia pure il tempo di una mostra. Meglio perderlo il Caravaggio che
prestarlo: Siracusa è città civile, ma si vede non troppo.
La
critica locale, oltre che gli antisgarbiani di tutta Italia, assicurano che ora
il restauro della “Santa Lucia” si farà. “Abbiamo un preventivo”, assicura
Paolo Giansiracusa, “servono 42 mila euro e gli imprenditori ed esercenti di
Siracusa daranno vita a una colletta”. Basteranno, ammesso che si raccolgano? Tanto
più che non è il Caravaggio che ha bisogno di restauro ma la chiesa, troppo
umida. L’orgoglio ha un prezzo, certo. Ma perché farlo pagare a Caravaggio?
Alberto
Samonà, di grande famiglia sicula, persiana nel lignaggio paterno, spagnola
per parte della bisnonna principessa Monroy di Pandolfina e di Formosa, uno zio
o prozio accademico e importante narratore, Carmelo Samonà, un altro, Giuseppe
Paolo, creatore di Samonà e Savelli, l’editrice del Sessanotto, neo assessore
alla Cultura della giunta regionale siciliana, di centro-destra, poeta, scrittore,
organizzatore culturale attivo e di idee, subito all’opera per una
commemorazione della Shoah, si scopre che si è illustrato non molti anni fa, nel
2001, con un inno alle SS, e appena un anno fa con l’“estremo saluto al
comandante” Stefano Delle Chiaie. In Sicilia si può.
Palermo
abbonda di falsi, spiega Sergio Troisi su “la Repubblica-Palermo”. L’oratorio
di san Lorenzo, dove nel 1969 fu rubata la “Natività” di Caravaggio, non più ritrovata,
è teatrino sacro settecentesco creato da Serpotta in cui quasi niente è originale:
strumenti musicali, figurine scolpite, perfino i piani di appoggio. Lo stesso
per molti monumenti, ricostruiti o riadattati: Porta Felice, Casa Professa, la
facciata di san Francesco, la volta affrescata di san Giuseppe dei Teatini,
l’elenco è lungo.
Rievocando
le sue estati con Sciascia a Racalmuto, per il docufilm “L’infinito istante”
sulla sua ultracinquantennale attività, il fotografo Giuseppe Leone, “della
contea di Modica”, ricorda Vincenzo Consolo inquieto, e triste: “Era molto
emotivo. Si rattristava per il suo isolamento”, a Milano dove risiedeva: “Si sentiva
staccato dal contesto letterario del Paese. Negli ultimi anni gli dicevo di
tornare a vivere in Sicilia. Non l’ha mai fatto, forse aveva paura”.
leuzzi@antiit.eu