sabato 18 luglio 2020
Autostrade è una truffa
Si
diceva bietolone, incapace, confusionario, pirla o cazzaro nel loro linguaggio
semplificato, si dirà grillino? Spenderanno sette-dieci miliardi per salvare un
gruppo, Autostrade, mezzo fallito. In pratica per consentire ai Benetton di
uscirne senza danno, anzi con qualche plusvalenza. Promettendo per di più
ribassi di tariffe, cioè altre perdite, da coprire con soldi pubblici – il
gruppo essendo allora pubblico.
Una
concessionaria in perdita già nel bilancio 2019, malgrado la poca o nulla spesa
per la manutenzione. Un gruppo sotto scacco per i risarcimenti per il ponte
Morandi – si parte da 3,4 miliardi. Illiquido dopo i quattro mesi di
quarantena. Pieno di debiti (con la stessa Cassa Depositi e Prestiti ora
chiamata al salvataggio…) da troppo tempo rinnovati. Beneficiato, ora, prima
della nazionalizzazione, con giganteschi rimbalzi in Borsa.
Una nazionalizzazione truffa. Una
“soluzione” cucinata al Tesoro, il ricettacolo di tutti gli interessi. Meno
quelli degli italiani.
Dopo
tanti giornali e tanti commentatori solo Bechis ha scritto sul “Tempo” le cose
come stanno. Solo Bechis ci capisce? Impossibile.
Non ci resta che Pascoli
La farragine che si ripropone di studi pascoliani di Cesare Garboli - ci provò una vita e non
ne venne a capo – rimanda alla sua poetica, come Pascoli stesso
la sistemò in questo ampio scritto del 1897. Che sembra riduttivo – elementare: ovvio e generico insieme – della sua immensa erudizione, e della sua caparbietà
rinnovatrice, di rivoluzionario della metrica e la linguistica della poesia. E
forse lo è. Non si va oltre la lallazione, si direbbe, e il primo linguaggio
del bambino, come scoperta dei suoni. Ma è forse di più, come Agamben prova a
dimostrare.
Il “fanciullino” è di Platone,
spiega Pascoli alla prima riga, come di colui che non si spiega – non teme – la
morte. Là dove, nel dialogo “Fedro”, Cebes Tebano sfida Socrate, il
ragionatore: “O Socrate, prova a persuaderci… Forse c’è dentro di noi anche un
fanciullino che ha timore di simili cose; proviamoci a persuaderlo di non aver
paura della morte come di visacci d’orchi”. Subito dopo viene il colpo risolutivo: già i poemi omerici erano del
“fanciullino del cieco”. Eros non c’è nei poemi, perché riflettono
l’occhio del fanciullino che accompagna
“il poeta cieco”: “Non sono gli amori, non sono le donne, per belle e dee che
siano, che premono ai fanciulli; sì le aste bronzee e i carri da guerra e i
lunghi viaggi e le grandi traversie”.
Col proponimento utopico di una
comunicazione non artefatta – istruita, colta – ma istintiva, naturale. Di una
poetica spontanea: “Il mondo nasce per ognun che nasce al mondo”. Di una
poetica naturale di contro a quella dotta – erudita, saccente.
Non manca, non detto, un
substrato crociano, della poesia e della non poesia. Partendo da Seneca, dalla
prima polemica contro la retorica. La pseudo poesia si impone con le storie
della letteratura, con le classificazioni e i modelli. “La poesia consiste
nella visione d’un particolare inavvertito, fuori e dentro noi”.
Non una poetica
sistematica, una rapsodia di umori, seppure in omaggio alla “spontaneità” –
quanto spontanea? Con un saggio di Agamben,
“Pascoli e il pensiero della voce” - saggio foriero de “Il linguaggio e la
morte”, seminario “sul luogo della negatività”, 2008 – che fa da quarant’anni
l’attrattiva di questa edizione, fra le tante, della prosa pascoliana. Dedicato
a Gianfranco Contini, che probabilmente gliene ha dato l’idea: “Già Contini ha
notato il valore puramente fonosimbolico di «zillano»”. Ma lo stesso, nota
Agamben subito, è di molto altro Pascoli, le parole fonosimboliche sono molte.
Da questo Pascoli Agamben estrae – dalla poetica del
“Fanciullino” e dalla pratica di latinista, che della lingua morta fa la
“lingua dei poeti” - una teoresi che curiosamente si adatta alla poesia quale è
dato leggere da un paio di generazioni, allusiva al più, quando proprio “vuol
dire” qualcosa, onomatopeica. Arricchita, si fa per dire, di alloglossie e
eteroglossie - di parole strane.
E dunque, non ci resta che
Pascoli? Esprimere il non formulato. Problema nobile, spiega Agamben, poiché
sant’Agostino se lo poneva – forse per il sacro?
Pascoli sembra semplice ma è complicato.
Un rompicapo per molti, non solo Agamben, alcuni se ne sono occupati una vita, Sanguineti oltre che Garboli, e anche Contini. Agamben ne ha la chiave?
Pascoli gliene dà ampio appiglio. Non in questo “Fanciullino”, nel “Poeta di
lingua morta” cui Agamben fa riferimento. Della poesia che, come la religione, ha bisogno “delle parole che velano e perciò
incupiscono il loro significato, delle parole, intendo, estranee all’uso
presente”, ma poi sono quelle che danno “maggior vita al pensiero”. Da qui
l’acuta conclusione di Agamben: “Glossolalia e xenoglossia sono la cifra della morte della
lingua: esse rappresentano l’uscita del linguaggio dalla sua dimensione
semantica e il suo far ritorno nella sfera originale del puro voler-dire…
Pensiero e linguaggio, diremmo oggi, dei puri fonemi”. Una conquista, una regressione?
Pascoli ne sapeva di più, poiché – va’ a sapere ancora come – lui se la cava.
Giovanni Pascoli, Il fanciullino, Feltrinelli, pp. 73 €
7
venerdì 17 luglio 2020
Atto di superbia
Senza di me
Il mondo non esiste,
non pensa, non ricorda, non sa,
non capisce, spuma, s’infuria,
s’infiamma, sputa, ruggisce.
Dentro la gabbia
perché la libertà muore con me.
Antroposti disunitevi!
Rigoletto noir - distanziato
Carlo Fuortes, general manager
dell’Opera di Roma, ha dato un calcio alla quarantena col primo spettacolo
pubblico dopo quattro mesi di lockdown.
Un “Rigoletto” in una nuovissima edizione, diretta da Daniele Gatti, con
l’impronta caratterizzante del regista, Damiano Michieletto. Un “Rigoletto” noir, come il regista ha spiegato
ampiamente negli intervalli, e distanziato, ogni interprete lontano dagli altri. Con la corte di Mantova trasformata in banda
criminale, tra vecchie fuoriserie, per impedire assembramenti, specie del coro, pistole brandite, un palazzo ridotto a roulotte, Maddalena in guepière. E la musica in sottordine alla
scena, specie il canto: le arie sempre riconoscibili, di Iván Ayón Riva, duca di Mantova, e Roberto Frontali, Rigoletto, ma non inappuntabili, ognuno cantando praticamente per sé.
La “modernizzazione” non piace ai
musicofili, che però in questa occasione qualche ragione ce l’hanno: l’idea
sopravanza la musica. E il Circo Massimo, scelto per la distanziazione a preferenza della location tradizionale della stagione estiva dell’Opera
di Roma, le Terme di Caracalla, disperde il suono – è come al festival Puccini
a Torre del Lago, sentono solo le prime file.
Un grande spettacolo, comunque,
una scommessa riuscita. Con qualche limite, Micheletto si è prestato a fare da cavia, ma lo spettacolo può riprendere. Una ripresa onorata da un parterre d’eccezione, con tutte le
autorità istituzionali accanto al presidente Mattarella, in fondo Verdi è ancora Italia.
Giuseppe Verdi, Rigoletto, Teatro dell’Opera di Roma al
Circo Massimo
giovedì 16 luglio 2020
Il mondo com'è (407)
astolfo
Carlo Magno – Il “Padre dell’Europa” era mezzo francese e mezzo tedesco, essendo franco. Ma è stato spesso contestato da Francia e Germania come poco puro. Fu re dei Franchi nel 768, alla morte del padre, Pipino il Breve, l’ex maggiordomo di palazzo di Neustria e Austarsia. Re dei Longobardi nel 774, alla vittoria nella lunga guerra contro Desiderio, che patrocinava nella successione a Pipino i figli di Carlomanno, il fratello maggiore, defunto, di Carlo Magno. Desiderio fu imprigionato in un monastero, mentre suo figlio Adelchi fuggiva a Bisanzio (muore davanti al padre prigioniero nella tragedia di Manzoni). A Natale dell’800 incoronato Imperatore dei Romani a San Pietro in Roma. Hitler da ultimo ne contesterà la germanicità. Con due argomenti: aveva combattuto i Sassoni, e aveva “desiderato” un elefante dal califfo islamico Harun-al-Rashid. Una bestie che poi aveva esibito in pubblico, facendosi infine seppellire sotto un manto rosso decorato con elefantini.
Willy Ferrero – William, detto “Willy”, è stato direttore d’orchestra italiano nato a Portland nell’Oregon degli Stati Uniti, figlio di due acrobati di circo, Vittorio Ferrero e Nerina Moretti. Fui bambino prodigio, esibendosi nel 1910 a quattro anni a Parigi, al Trocadéro, e a sei a Roma, al Costanzi, il teatro odierno dell’Opera. Come bambino prodigio continuò a esibirsi fino ai dieci anni, davanti allo zar Nicola II, al re inglese Giorgio V, e ai papi pio X e Benedetto XV. Nel successivo decennio studiò a Vienna. Fu poi attivo tra le due guerre, ma con minore successo – bene a Roma all’Augusteo, male alla Scala. Solo in Russia, sotto il regime sovietico, mantenne inalterato il successo.
Il poeta russo Osip V.Mandel’stam annota di avere assistito ad alcuni suoi concerti nell’ottobre del 1935 nella cittadina di provincia di Voronez, dove era stato confinato da Stalin. Nel secondo dopoguerra si farà anche membro del Consiglio mondiale della Pace, creato nel 1950 da Stalin e Suslov, nell’ambito del Cominform, l’organizzazione dei partiti comunisti in Europa e nel mondo.
Alexei Tolstoj – Il “conte rosso”, di un ramo minore del casato dello scrittore, fu scrittore anche lui, e uomo politico, uomo d’apparato del Pcus, il partito Comunista Sovietico. È all’origine dell’arresto, la condanna e il confino del poeta Osip Mandel’stam, con la fine precoce un anno dopo. Per un motivo futile. Mandel’štam era venuto a diverbio con un vicino di pianerottolo, incaricato della sua sorveglianza in quanto elemento già infido. Il vicino, “Amir Sargidžan” (Sergej Borodin), aveva colpito al volto Nadežda Jakovlevna, la moglie del poeta, per provocare la coppia, e c’era riuscito: Mandel’štam aveva reagito. Per comporre il diverbio era stato istituito un giurì d’onore, presieduto dal “conte rosso”. Che non aveva biasimato il comportamento di Sagidžan-Borodin. Per protesta, Mandel’štam si dimise dal comitato moscovita dell’Unione degli scrittori. E un anno e mezzo dopo a Leningrado, trovandosi di fronte Aleksej Tolstoj nella sede della Casa Editrice degli Scrittori, lo schiaffeggiò in un accesso d’ira. Quattro - o sette, dipende dalle fonti – giorni dopo Mandel’štam fu arrestato di notte nel suo alloggio di Mosca. Dove ospitava Anna Achmatova, che fu testimone dell’arresto e ne ha fatto resoconto. Manldel’štam fu portato via la mattina, dopo una intera notte di perquisizione, benché l’alloggio fosse minuscolo – malgrado l’intervento di Pasternak, che intanto, allertato, si era rivolto per telefono a Bucharin, il secondo o il terzo nella graduatoria del potere sovietico. Dieci giorni dopo il poeta fu condannato a tre anni di confino, a Voronez, dove morirà.
Ossezia– La minuscola repubblica della Federazione Russa, dai difficili confini con la Cecenia, l’Inguscezia, e la Cabardino-Belcaria, nonché con la Georgia che le contende metà territorio, è origine storicamente non appetita. Molti furono vittime di Stalin per sostenere, anche solo in privato, che il dittatore georgiano era in realtà un osseta. Fra i tanti epiteti offensivi che il poeta Mandel’stam in un epigramma del 1934 proferisce contro Stalin c’è, finale, il “largo torace di osseta” (in alternativa, “non autorizzata”, a “largo culo di georgiano”). Osseta si voleva offensivo: “In Unione Sovietica, e soprattutto in Georgia, era diffusa la «leggenda» che la famiglia di Stalin fosse originaria dell’Ossezia”, minuscola etnia evidentemente non onorevole, “tanto più che il vero cognome di Iosif Stalin, Ďugašvili, ha il significato letterale di ‘figlio di osseta’” (Remo Faccani).
San Pier Scheraggio – Era la sede del consiglio comunale di Firenze (quindi ha visto e ascoltato Dante e Boccaccio) prima della costruzione del Palazzo dei Priori (Palazzo della Signoria o Palazzo Vecchio) e metà Cinquecento. Una chiesa romanica, eccezionalmente affrescata - da Cimabue, con una famosa “Madonna col bambino”, popolarmente detta “Madonna della ninna nanna”. Inglobata e praticamente distrutta nel palazzo delle Magistrature o degli Uffizi, l’edificio del Vasari – si salvò il pulpito, trasportato nella chiesa di san Leonardo in Arcetri.
Deve il nome al
prospiciente fossato “di schiaraggio”, che correva lungo la prima cinta muraria
di Firenze: il collettore delle acque reflue del quartiere, o sestiere.
Vlasov – Fra le tante truppe mercenarie, dei territori occupati, che combatterono con la Germania nella guerra di Hitler, ucraini, croati, etc. – gli effettivi erano mezzo milione alla fine della guerra, dopo le tante diserzioni delle ultime settimane – ci fu anche un’armata russa, l’armata Vlasov. Dal nome del generale che la comandava, uno dei generali della difesa di Leningrado caduto prigioniero dei tedeschi. Della sua armata, che raggiunse i 200 mila effettivi, facevano parte soprattutto prigionieri russi di guerra, che così sfuggivano la fame e la miseria dei campi di prigionia, con pochi volontari.
Due i motivi del passaggio di Vlasov con la Germania. L’Unione Sovietica considerava i propri soldati caduti prigionieri dei tedeschi dei lavativi e quasi dei disertori. O almeno questa era la diceria. Per cui molti prigionieri diventarono in vario modo collaboranti dei tedeschi. Come forza lavoro volontaria, specie in agricoltura – molte famiglie di contadini tedeschi ebbero braccianti russi, prigionieri di guerra (ne parla anche Jünger nelle memorie): non retribuiti ma mantenuti. Vlasov aveva anche un motivo personale di rivalsa, non avendo condiviso i criteri di difesa di Leningrado, che secondo lui esponevano i soldati a sacrifici evitabili.
Stalinista ferreo, premiato in ogni azione militare cui aveva partecipato, era generale a soli 35 anni, nel 1935. Nella guerra contro la Germania, si era distinto nella difesa di Kiev e di Mosca, con molteplici riconoscimenti, tra essi il premio Lenin. Fu quindi a capo della Seconda Armata d’assalto, incaricato di rompere l’assedio di Leningrado: la missione fallì, dei 16 mila effettivi della Seconda armata d’assalto sopravvissero duemila, o meno, e Vlasov fu fatto prigioniero.
Attorno a Vlasov fu costituito un Esercito russo di liberazione (R.O.A., Russkaya Osvoboditelnaya Armiya), che combatté al fianco delle truppe di Hitler. Avrebbe dovuto o voluto, perché Hitler non se ne fidava, e comunque disprezzava gli slavi al punto da ritenerli non esistenti. Non se ne ricordano imprese speciali in guerra.
Finita la guerra, Vlasov e gli appartenenti alla sua armata furono consegnati dagli Alleati a Stalin. Si disse che erano stati liquidati uno per uno con un colpo di pistola ravvicinato alla nuca. Vlasov veramente lo fu , dopo un breve processo.
astolfo@antiit.euA occhi chiusi, tra verismo e neo realismo
Questo primo Tozzi - primo delle
trilogia autobiografica, ma scritto negli ultimi anni (esce nel 1919) - si può
leggere in chiave naturalistica o veristica, perché no: il padre padrone, la
madre esausta, ansiosa, inerme, i contadini passivi, rassegnati, gli
“assalariati” obbedienti al padrone. In una lingua di forte connotazione bozzettistica , desueta già all’epoca, una
sorta di rococò del mondo sordo della sopravvivenza. Di scuola toscana, provinciale,
campanilistica, anche se non alla Fucini, ma sì nel ricorso alla lingua di
borgo o di fattoria – come quella del coevo Pascoli, benché di matrice
romagnola (con Pascoli Tozzi condivide, coincidenza bizzarra?, il nazionalismo,
imperialista).
Si propone invece nella chiave
che Giacomo Debenedetti, il secondo scopritore di Tozzi fra i grandi critici
del Novecento, dopo G.A.Borgese e in antitesi a Borgese, propose nelle tarde
lezioni universitarie, 1963: di Tozzi scrittore visionario, nella sua spiccata
alterità al mondo. Al mondo di Siena, va precisato - l’orizzonte si amplia fino
a Firenze, ma Firenze è solo un nome, un recapito. Al suo personalissimo mondo dell’adolescenza
e la prima giovinezza. Non “una narrazione di cause e di effetti, ma di
comportamenti, di modi insindacabili di apparire e di esistere”. Per un “innato
antinaturalismo” - “il naturalismo narra in quanto spiega, Tozzi narra in
quanto non può spiegare”. Con gli occhi chiusi come Edipo, che si era accecato,
ma qui senza un motivo specifico: “Questo degli occhi chiusi, della cecità di
fronte alla vita, è propriamente il mito centrale di Tozzi”.
Di fatto un romanzo neo
realistico. La (piccola) borghesia è della roba. La campagna è povera e sporca,
e senza luce. I contadini saputi e sciocchi. La ragazza bella e povera abusata senza
eccessi, senza scandalo. Il
nato povero è tirchio, e stupido. Il padrone proletario è più cattivo del
signore. La ragazza bella e povera non ha coscienza – subconscio. Una prefigurazione
dell’“Albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi, senza la pietas, e senza l’allegria. Con uno spruzzo di Freud, o di
psicologia analitica: la ragazza bella e povera non ha coscienza (subcosciente), una bestiola, gli adolescenti introversi, lui e lei, e quindi perduti,
in modi diversi, un Edipo incoercibile, una stolidità invincibile.
Curiosamente,
una scrittura che si ritroverà nei narratori americani del Sud rustico – delle narratrici,
Carson McCullers, Flannery O’Connor. Col bozzettismo toscano in agguato – ma
forese il mondo contadino non può andare oltre, come in Pascoli.
La storia è tutta nel primo
capoverso della nota bio-bibliografica di Ottavio Cecchi che accompagna il racconto,
quello della nascita di Federigo, che sarà Pietro nel romanzo, e dell’apparizione
di Isola, Ghìsola nel romanzo. Più gli autoritratti, di sé e di Isola, che Tozzi ha fatto nel tempo scrivendo alla futura moglie Emma Palagi, pubblicate
nella raccolta postuma “Novale”.
Il romanzo italiano forse con più
edizioni oggi in contemporanea, Oscar, Bur, Feltrinelli, Garzanti, Rusconi, Le
Lettere, Guida, Clandestine, Ecra – perché consigliato nelle scuole
(un’edizione è di Principato libri scolastici)? Paolo Giordano e Mondadori ne
propongono una anche per “bambini e ragazzi”, benché sia una storia di violenze.
Federigo Tozzi, Con gli occhi chiusi, Theoria,
remainders, pp. XXIII + 147€ 6
mercoledì 15 luglio 2020
grillo.it
Roma
de mmerda
Città
bella e zoccola
Tutta
monnezza su monnezza
Che
a Grillo ha dato la ricchezza
Da
Farage a Zingaretti
È
una politica da cretinetti
Ma
altrove Grillo
Sarebbe
un imbecille
Il voto al cesso
Il signor Cubeddu, democristiano tipico di Tivoli imprestato
ai 5 Stelle, è stato eletto alla Camera dei Deputati con 17 voti di preferenza,
e cinquemila 9schede bianche e nulle, all’uninominale. Ricontate le bianche e le
nulle, con la vecchia maggioranza 5 Stelle-Lega, è risultato invece perdente,
ampiamente. Vinceva una leghista.
Poi la maggioranza è cambiata, anche nella Giunta
parlamentare elezioni, che ha avuto l’idea di rivedere lo scrutinio, di
ricontrollare le schede. Non tutte, un 10 per cento. Non per altro, per un motivo
nobile: controllare che non si fossero stati brogli, e quindi responsabilità
penali. E il Tribunale prontamente ha risposto che il controllo non si può fare
perché le schede elettorali erano archiviate nel bagno, il bagno si è allagato,
e le schede non sono leggibili. Nemmeno il 10 per cento che la Giunta modesta
chiedeva. Il ricalcolo delle bianche e le nulle è stato così messo da parte.
Un gioco delle parti. Ridicolo anche. Ma senza vergogna. Ci
sono Parlamenti e Parlamenti, certo, ma un minimo di decenza dovrebbe essere
obbligatoria per tutti.
Letture - 427
letterautore
Camilleri – Quanto il “vigatese” deve a Vincenzo Consolo, 1992, “Retablo”, la fantasia settecentesca dello scrittore milanese di Sant’Agata di Militello? Il linguaggio anzitutto: un misto di siciliano e italiano che non è siciliano e non è italiano, ma è significante sia in italiano che in dialetto. Fantasioso in Consolo, inventivo, una sorta di avventura nella lingua, e non formulistico né ripetitivo, come quello di Camilleri – come vuole la serialità. E significante (radicato) come linguaggio, non “inventato”. Da “Retablo” vengono probabilmente – o comunque ne ripetono alcuni caratteri fissi - in Camilleri: il servo buono e scemo, altrimenti inconcepibile quale agente di Polizia, seppure demansionato a piantone, il brigante giudizioso, il pastore solitario e primitivo ma sapiente, il protagonista osservatore più che agente.
Dante – Dante “profeta” è dimensione trascurata da qualche tempo - da ultimo vi si è esercitato Bruno Nardi, “Dante profeta”, Laterza, 1942 – Nardi è lo studioso che per primo in Italia ha esaminato i condizionamenti della cultura araba e del neoplatonismo in Dante, più che della scolastica, dell’aristotelismo. Ora è ripresa dal Centro Dantesco dei Frati Minori di Imola, con un convegno di cui Giuseppe Ledda ha redatto gli atti, “Poesia e profezia nell’opera di Dante”. Profezie come visioni, allucinazioni, vendette - politiche per lo più, riguardanti la chiesa e il papato, da ghibellino.
In nota al “Fanciullino”, la poetica della poesia germinativa, spontanea, Pascoli spiega: “È superfluo aggiungere che per quanto non tutto nella Comedia sia poesia, e non tutta la poesia che v’è sia pura, per altro quel poema è nella sua concezione generale il più «poetico» dei poemi che al mondo sono e saranno. Nulla è più proprio della fanciullezza della nostra anima che la contemplazione dell’invisibile, la peregrinazione per il mistero, il conversare e piangere e sdegnarsi e godere coi morti”.
Elefante – Impersonò l’Oriente nel Medio Evo, la bizzarria il fasto e il potere orientali. Come tale ne desiderò uno Carlo Magno, come narra ora il medievista Giuseppe Albertono in “L’elefante di Carlo Magno”. La vicenda era stata narrata alcuni decenni fa dallo storico di Pisa Michele Luzzatti. Nel 797 il futuro imperatore dei Romani (si farà coronare a Natale dell’800), inviò al califfo Harun al-Rashid, quello delle “Mille e una notte”, tre ambasciatori con alcuni doni, in cambio dei quali chiedeva un elefante. Quattro anni dopo, ai primi dell’801, sbarcarono a Pisa due messi del califfo e uno dell’emiro di Tunisi, el Abbassiya. I tre dovevano spiegare a Carlo Magno, che si trovava a Pavia, che uno dei suoi tre ambasciatori, Isaac Iudeus, stava per tornare via Africa con un elefante in dono. Isaac Iudeus sbarcherà a settembre a Portovenere, con l'elefante promesso. Che riuscirà a recapitare vivo, nel luglio 802, a Carlo Magno a Aquisgrana.
Giallo d’autore –
Marco Tullio Giordana porta in teatro i progetti matrimoniali di Werner Henze,
gay professo e soddisfatto, con Ingeborg Bachmann, che ebbe molti amori, felici
e infelici, con Uwe Johnson probabilmente, Celan a più riprese, il marito Max
Frisch, Enzensberger, Reich-Ranicki, e alcuni altri. Erano coetanei, pressappoco,
avevano scelto Roma (Henze infine Marino), erano amici, avevano la lingua in comune,
collaboravano sul piano artistico, lei librettista di “Le cicale”,
“L’idiota”, “Il principe di Homburg”,
“Il re cervo” (da Carlo Gozzi), lui compositore. Che altro manca? Giordana ha
comprato, spiega a Emilia Costantini su “La Lettura”, da appassionato di
auto d’epoca, una Maserati 3500 Gt tra i cui vecchi proprietari figurava Henze.
Una macchina in disarmo, piena di robaccia, ripulendo la quale emergono le leltere
d’amore tra Ingeborg e Henze. Non è l’unica sorpresa. Le lettere, scritte in
tedesco, inglese, francese e italiano “operistico”, sono databili con
difficoltà, perché scritte senza indicazione di tempo. Giordana con difficoltà
le sistema. Senonché – non è finita – “le lettere originali mi furono rubate in
casa”, spiega Giordana. E aggiunge, rendendosi conto dell’inverosimiglianza della
cosa: “Un furto su commissione? Da parte di chi?”
Le
lettere ritrovate, non datate, rubate, ne abbiamo già sentito. Però, una storia
di grandi amori tra una poetessa dai molti amanti e un musicista gay professo, ammirati e amati nel moto teutonico, esuli a Roma, è geniale.
Italia – Il
paese dei pini – un “logo Italia” sarebbe un pino solitario? Il “pino
solitario” di Luciano Virgili e Giacomo Rondinella. Mandel’štam ha gli “italici
pini solitari”, per dire la memoria felice, in un poemetto del 1923 molto nero,
pessimista, “Chi trova un ferro di cavallo”.
L’italiano
lo stesso poeta (“Compagna del Petrarca”), 1935, dice: “Compagna del Petrarca,
del Tasso, dell’Ariosto;\ lingua del tutto assurda, lingua dolce-salata; e
splendide gemellanze di quei suoni in combutta…”.
Nella
“Conversazione su Dante”, Mandel’štam aveva anche scritto:”Splendida è la fama
poetica dei vegliardi italiani, la loro giovane, ferina, voracità di armonia,
la loro sensuale concupiscenza nei confronti della rima. Il disio” - “vegliardi” il
curatore Remo Faccani intende “in quanto figli dell’«antichità culturale»
dell’Italia”.
Per
“lingua del tutto assurda” Mandel’stam intende, sempre in “Conversazione
su Dante”, “il carattere puerile della fonetica italiana, la sua stupenda
infantilità, la sua vicinanza al cinguettio dei bambini, un certo suo congenito
dadaismo”.
Mandel’stam
aveva debuttato con filastrocche per bambini e racconti per ragazzi.
In
una delle ultimissime, brevi, composizioni, “Lo dirò in brutta copia, a fior di
labbra”, Mandel’štam ricorda Leonardo, “L’ultima cena”: “E sotto il cielo
dimentichiamo spesso\ - sotto un purgatoriale cielo effimero -\ che il felice
deposito celeste\ è una mobile casa della vita”.
Il
“purgatoriale cielo effimero” il curatore principe di Mandel’štam, M.L.Gasparov,
assicura essere il refettorio di Santa Maria delle Grazie di Milano, che ospita
l’affresco. Nello stesso giorno in cui scrisse questi versi, 9 marzo 1937,
Mandel’štam ricordò in altro componimento, “Il cielo del cenacolo s’è invaghito del muro”,
anche l’opera di Leonardo.
Napoli – È grigia, disse subito Walter Benjamin: “Impressioni di viaggio fantastiche hanno colorato la città. In realtà grigia: un grigio rosso e ocra, un bianco-grigio. È molto grigia nei confronti del cielo e del mare”. Così la vede anche Costanzo nella fiction Rai da “L’amica geniale” della Ferrante. Ma si vuole colorata. Coloratissima la fa la Rai, nelle serie napoletane dei napoletani, Carlei, “I bastardi di Pizzofalcone”, e Corsicato, “Vivi e lascia vivere”. Con Ozpetek, “Napoli velata”.
Naturalismo – È la bistecca di Italo Svevo: così Gicomo Debenedetti, che non l’amava, irride al naturalismo-verismo in un saggio su Federigo Tozzi - il suo primo dei tanti interventi su Tozzi, “Con gli occhi chiusi”, pubblicato nel 1963 sulla rivista “Aut Aut”, n. 70, ripreso nella prima raccolta postuma dei suoi saggi, 1970, “Il personaggio-uomo”: “Un noto epigramma di Svevo, cinico solo in apparenza, dice: «Non è tanto che io goda di mangiarmi la bistecca, quanto del fatto che io la mangio e gli altri no». L’arte naturalista postulava un pubblico di mangiatori di bistecche”.
letterautore@antiit.eu
Santa Sofia – “ci sono moschee ben vive”
“E il ramo a frastagli dell’acero
si bagna in angoli curvi,
e screziate farfalle si lasciano
trasporre in disegni sui muri.
Ci sono moschee ben vive,
e forse – l’ho appena intuito –
noi siamo una Haghia Sophia
dal numero d’occhi infinito”.
Osip Mandel’štam, nov. 1933-genn.
1934 (trad. Remo Faccani)
Il componimento è dedicato a
Santa Sofia di Costantinopoli, il cui “nome domestico”, quello in uso tra il
poeta e la moglie, è alla greca, Hagia Sophia. Il commentatore M.L.Gasparov
spiega che il tema è la “raffigurazione della cupola vivente” della basilica,
per cui è “vivo” anche l’adattamento della basilica a moschea. Ai mosaici dei
serafini e cherubini che ornano le vele si riferirebbero gli “occhi”
innumerevoli del tempio, della fede come conoscenza, ecumenica.
Osip Mandel’štam, Ottanta poesie
martedì 14 luglio 2020
Sorella Sofia
Erdogan, il compagno di spuntini
Di
Berlusconi, di Trump e di Putin
Che
il velo e la mordacchia
ha
imposto alla Turchia
al
Profeta ora dedica
la
Santa Sofia,
in
omaggio a quale massoneria
Problemi di base di fede - 579
spock
“Si può essere santi
senza Dio”. A.Camus, “La peste”?
“La fede non sa e perciò crede”, Umberto Galimberti?
“«Verità di fede» è una contraddizione in termini, perché la
verità «sa» mentre la fede «crede» proprio perché «non sa»”, id.?
“La fede non è determinata dall’evidenza del contenuto o
dal ragionamento, ma da un fattore sterno: la volontà”, san Tommaso d’Aquino?
“A differenza dal sapere, la fede riduce in schiavitù ogni
intelletto, per cui l’intelletto, di fronte alla fede, è inquieto, anzi in uno stato
di infermità e di grande timore e tremore”, id.?
“Chi crede la fede verità assoluta non è un credente ma un
militante della fede”, Karl Jaspers?
“Larvatus prodeo”,
la divisa di Descartes, procedo mascherato, o Larvatus pro Deo, mascherato per Dio”, Jean-Noël Schifano?