sabato 25 luglio 2020
Letture - 428
Aragon e Breton – Due
francesi etnici, dicono i nomi, rinnovano un secolo fa, nel 1924, col manifesto
del surrealismo, le lettere francesi. Ci provano, due provinciali.
Sovranismo vs. nazionalismo
Priti Patel ministra dell’Interno di Boris Johnson , è alla testa
dell’ala più nazionalista del partito Conservatore. D opo il primo ministro ma
particolarmente dura contro l’immigrazione, degli europei compresa. Patel è
figlia di indiani dell’Uganda, di emigranti due volte.
Prima di Patel la carica di ministro dell’Interno era
detenuta da Sajid Javid, ora cancelliere dello Scacchiere, la seconda posizione
nel governo dopo quella del primo ministro. Javid, figlio di immigrati poveri
dal Pakistan, che nella bio fa valere l’ostracismo subito a scuola dai compagni
inglesi, era meno duro di Patel ma solo nello stile. Il sovranismo è una forma
aggiornata di nazionalismo. Ma senza gli ingredienti del nazionalismo, che in
qualche modo lo giustificano: la tradizione, la cultura, lo stile di vita.
Basta la chiusura.
Il linguaggio di
Salvini, che pure nella sua riedizione della Lega ha dismesso il razzismo, per
esempio verso il Sud, potrebbe essere articolato. È semplice – ripetitivo,
rozzo – probabilmente perché voluto, per una strategia di comunicazione:
l’immigrazione è un’aggressione, l’Europa è troika. Perché il sovranismo è – in
qualche misura anche si vuole, rivolgendosi a un pubblico – rozzo.
Alle radici – leggibili – di “Finnegans Wake”
Dieci brevi racconti, di un
fatto, un personaggio, che Joyce svilupperà
in “Finnegans Wake”, qui ancora parzialmente leggibili. Abbozzati nel 1923,
qualche mese dopo avere licenziato l’“Ulisse”. Con irriverenze memorabili. Il “martirio”
di san Kevin. San Patrizio e la creazione del bisniss della “relittigiosità
irlandese”, cominciando con l’abolire la lingua. La lettura anti-wagneriana di
Tristano e Isotta, Tris e Issy: Tris “amante senz’amor, peccator senza peccato”
di Issy, “il suo poco men che nipote” e “sua zia prossima ventura”. L’ultima
riga certifica la nascita di Donn’Anna Livia Plurabelle Earwicker, che
troneggerà in “Finnegans”.
Il Joyce goloso, si fa per dire, del
traduttore – ammesso che ci sia gusto nella traduzione. Ottavio Fatica, cui si
deve la traduzione-invenzione di questi brani, si dice offeso e arrabbiato in
una larga nota, con se stesso, con Beckett&Co, i moschettieri dell’illleggibilità
post-“Ulisse”, e con Joyce stesso.
Un strenna. Per joyciani e - in
traduzione - non. Un’edizioncina elegante, con le illustrazioni dell’edizione
inglese, di Casey. Con i due saggi che hanno accompagnato quella edizione.
Danis Rose fa dell“Ulisse” l’epopea dublinese e di “Finnegans” l’epopea
irlandese, di quando Giacomo e Nora riscoprono Dublino e l’Irlanda, da cui
erano fuggiti – lei lavorava da sguattera al “Finn’s Hotel” di Dublino. Fatica
irriverente racconta la vera storia di James e Nora. E sulle citazioni di Joyce
vuole precisare che “non era il «prodigioso lettore» che hanno voluto farci
credere, bensì un piluccatore”.
James Joyce, Finn’s Hotel, Gallucci, pp. 1125, ill. ril. € 13
venerdì 24 luglio 2020
Islam è bello
Claudio Monge, un domenicano che vive a
Istanbul, dove dirige un Centro domenicano per il dialogo interreligioso e
culturale, dà oggi, giorno della consacrazione islamica in pompa di Santa
Sofia, su “la Repubblica” questo ordine di spiegazioni. Primo, la colpa è dei
cristiani e dell’Occidente: “Chi parla di sfregio alla cristianità sembra non
avere la più pallida idea che a Santa Sofia i cristiani si sono aspramente
combattuti fra di loro per secoli”. Mentre Erdogan “trova una sponda perfetta
in un certo Occidente dove sono più che mai vive le logiche da crociata, da
tifoseria, facilmente eccitabili con l’ostentazione blasfema dei simboli
religiosi” – lui però no, Erdogan non è blasfemo. Secondo, ai vescovi americani
in lutto, dice: “Vorrei far notare che da 580 anni Santa Sofia non è luogo di preghiera
cristiana!”
Sul settimanale del quotidiano, “il Venerdì di
Repubblica”, per la stessa evenienza Filippo Di Giacomo fa parlare un gesuita
professore di teologia all’università Gregoriana, Felix Körner. Il cui
messaggio così sintetizza: “I cristiani dovrebbero rallegrarsi, perché, dopo 85
anni durante i quali era stata ridotta a museo, Hagia Sophia finalmente verrà
nuovamente usata per la preghiera”. Ottima il gesuita dice anche la situazione delle
minoranze cristiane in Turchia e nel mondo islamico, greci, armeni e di altra
etnia – qui con le sue proprie parole: “Non sono trattate peggio delle
minoranze religiose che risiedono nella maggior parte dei Paesi cristiani”.
Vengono cioè nella maggior parte dei Paesi cristiani tranquillamente trucidate, a tiro singolo o in gruppo, come
avviene in Egitto, in Pakistan e nella stessa Turchia?
Per i preti islam è bello? Si capisce la
confusione in Vaticano, e la solitudine del papa, dopo i tanti errori commessi
con l’islam – Körner si definisce “consigliere del papa per le questioni islamiche”
– e nel dialogo delle fedi. Ma con un senso di sconforto per tanta
inettitudine, incultura anche, di ordini religiosi pure famosi per capacità
critica e sapere. Sembra il racconto di Gogol': cosa non si fa per uscire sui giornali.
Marrano è bello
Da una condizione di segretezza,
e quasi di latitanza, a una di affermazione sul mondo, anche se non orgogliosa
né dichiarata: un’estensione e non una mutilazione dell’ebraismo. Anzi, una
sorta di modo di essere dell’ebraismo, se non di ogni sorta d’identità
comunitaria, Donatella Di Cesare arguisce in questa svelta ricostruzione della
condizione dei “marrani” storici, obbligati in Spagna da “re cristianissimi”
alla conversione ma in cuor loro - e in famiglia, al chiuso – renitenti: “La
definizione di marrano mette in questione quella di ebreo”.
La disamina la filosofa utilizza anche,
allargando l’obiettivo, per configurare il tema della identità oggi: non più
univoca, e anzi impossibile se non nel meticciato – che non nomina ma
sottintende nella condizione dei marrani. Dichiarandolo fin da subito: “Con
loro implode e si frantuma il mito dell’identità”.
Si può pensare la condizione del
marrano, costretto a una fede che non sente sua, come di sofferenza e di
ingiustizia, situazioni da riparare. Di Cesare se lo dice, leggendo le storie
che ne sono state fatte, da Cecil Roth a Yersushalmi, partendo da Maimonide. La
dissimulazione porta all’“angoscia della doppiezza”, dice anche, al sé diviso.
Ma per coglierne una ambivalenza, che fa sua. Riportando il marranismo ancora
più lontano di Maimonide, del secolo dodicesimo, al libro di Ester nella
Bibbia, la prima marrana, che vinse per dissimulazione – in un racconto
peraltro che Di Cesare mostra divertito, da “Mille e una notte”, più che
messianico.
Una condizione non di
oppressione, né una furbata. Intanto, una condizione che si è ritorta subito
contro il cristianesimo, inventando e introducendo nella storia
l’irreligiosità, la miscredenza, l’ateismo. E una condizione oggi comune: “Con
loro implode e si frantuma il mito dell’identità”. Anzi, di privilegio, una
sorta di autoimunizzazione, di cui beneficerebbe tutto l’ebraismo. “Il messianismo
si reitera”, è la conclusione di Di Cesare, cioè l’ebraismo. Dopo aver
ricordato Shmuel Trigano: “C’è una sindrome marrana nell’ebraismo”. O, di suo: “Il marranismo è inscritto sin
dall’origine nell’ebraismo. Altrimenti detto: l’origine dell’ebraismo è
marrana”.
Curiosa rivendicazione, di non
appartenenza e di dissimulazione. Che si traduce peraltro in una sorta di
avocazione universale, “da Cervantes a Pessoa, da Montaigne a Proust”, con
Teresa d’Avila e altre sante, “Lazarillo”, la scoperta dell’America, e Benjamin
e Derrida. Una rivendicazione della “purezza del sangue”, la setssa che si
rimprovera giustamente all’Inquisizione. E a un certo punto anche una vasta
rete di connivenze, “una straodinaria rete di collegamenti… un legame fraterno
sviluppato nella clandestinità forzata”. Anzi, ebraica è la storia, è l’altra
conclusione di Di Cesare: “Nella tradizione ebraica il ricordo è un obbligo: zakhor! L’ingiunzione si ripete
ossessivamente nella Torà, anima i versetti, sorregge il testo… Così il popolo ebraico – secondo Yerushalmi –
introduce il concetto di «storia» destinato a diventare patrimonio universale”.
Finale ancora più curioso, la
negazione del mondo. Al termine di tante esclusioni e auto-esclusioni solo
l’ebraismo esiste: il concetto, e la pratica, della thomasmanniana “elezione”.
Ma l’elezione nella dissimulazione?
Donatella Di Cesare, Marrani, Einaudi, pp. 113 € 12
giovedì 23 luglio 2020
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (431)
Giuseppe Leuzzi
Lo
scandalo Wirecard in Germania non ha il morto, ma ha tutti gli altri
ingredienti della mafia. L’imbroglio contabile, connaturato e non occasionale.
Le complicità, per anni, decenni. Le protezioni – la cupola. Una mafia che
pagava (li ricattava?) i controllori: agenzie di rating e funzionari dell’Autorità
di Borsa.
“Intanto sono
crollati tredici ponti, e nessuno sa il perché”, tuonano sul “Corriere della
sera” Milena Gabanelli e Fabio Savelli. Mentre, pare, dall’articolo che gli stessi
firmano, che ne siano crollati quattro. Che sono sempre molti ma non tredici.
L’autostrada
ancora non è digerita in Italia, anche se Fanfani ne commissionò molti km.
negli anni 1960. Sarà per questo che la Salerno-Reggio Calabria è tanto
vituperata – lo è stata, adesso, da un paio d’anni, non più: è un principio di
autostima?
“Sotto il governo austriaco”, nota a un certo punto Riccardo Pazzaglia in “Partenopeo in esilio”, e precisa: “Molti non lo sanno, ma qui abbiamo avuto anche quello”. Qui al Sud.
Il Regno di Cavour
Che
la questione meridionale – il ritardo del Sud – sia conseguenza dell’interruzione
improvvisa del Risorgimento, del processo unitario, nel momento in cui si
concludeva dopo i Mille, è nelle ultime parole di Cavour, nel letto che
abbandonerà con la morte. Variamente riportate, ma tutte convergenti in un solo
pensiero: la necessità d procedere a una unificazione equa, nel rispetto della
libertà di ognuno. Montanelli lo fa in queste ultime parole “montanelliano” –
un colpo al cerchio e uno alla botte – nelle ultime parole al Re in visita: “E
i nostri poveri Napoletani così intelligenti! Ve ne sono che hanno molto
ingegno, ma ve ne sono altresì che sono molto corrotti. Questi bisogna lavarli.
Sire sì, sì, si lavi, si lavi! Niente stato d’assedio, nessun mezzo di governo
assoluto. Tutti sono buoni a governare con lo stato d’assedio…”.
Senza
riserve la versione del segretario Isacco Artom - uno dei segretari, con
Costantino Nigra: “Non sarà ingiuriando i Napoletani che li si modificherà…
Basta con lo stato d’assedio, con questi strumenti di dominio assoluto. Tutti
sanno governare con lo stato d’assedio. Io governerò con la libertà e dimostrerò
cosa possono diventare queste belle contrade con dieci anni di libertà. In
venti anni saranno le province più ricche d’Italia”.
Se non che Cavour dice anche l’opposto – in questo caso lo
scrive: “Anche la truppa è un grande elemento civilizzatore”.
Il Regno di
Camilleri
Camilleri
ha spesso riferimenti alla Calabria – non ad altre regioni oltre la Sicilia,
solo alla Calabria. Riferimenti comuni nel messinese, da sempre legato alla parte
bassa della Calabria, mentre lui è di Agrigento, diametralmente all’altro capo
della Sicilia. Ha anche riferimenti - non di modi di dire ma storici,
aneddotici, giuridici - anche a Napoli. Da Regno delle Due Sicilie. Che sembra
ovvio ma non lo è: nella narrativa meridionale il Regno borbonico è come se non
ci fosse stato, a parte la lamentazione.
“Testa
firrigna di calabrisi”, pensa Montalbano di Livia. “Testa di calabrisi”, pensa
sempre Montalbano dell’Autore, che lo importuna con continue telefonate. Usa
anche “schettu” e “turduni”, due parole in uso e d’immediata comprensione in
Calabria , nel reggino, infrequenti in Sicilia – “schettu” sta per “celibe” e –
in questo caso – per “diretto, veritiero, leale”, “turduni” per “cocciuto”.
Il Regno com’era
Torna
periodicamente la questione del Regno delle Due Sicilie, se al momento dell’unità
se la passava così male oppure se non stava bene e fu depredato. Una cosa è vera
e anche l’altra, si sa, ma insieme: non stava tanto male come si è poi detto, e
in parte fu depredato, ma non stava nemmeno bene, e non fu messo in ginocchio.
Un bilancio si può fare – oltre che con le cifre, come usa, che però non risolvono la questione - con le testimonianze di osservatori o viaggiatori accorti quando ancora il Regno era rispettato, da Campanella, 1692, a Montesquieu, 1728, a Dupaty, 1785, al marchese d Sade, 1796. “In Napoli son da trecentomila anime”, scriveva Campanella ne “La città del sole”, “e non faticano cinquanta milia” – che “patiscono fatica assai e si struggono”, mentre “l’oziosi si perdono”, e molti “guastano tenendoli in servitù e povertà”. La povertà meraviglia Montesquieu: “Ci sono circa 50-60 mila uomini chiamati Lazzi, che non hanno niente al mondo: né terre né mestiere”. Più dettagliato Dupaty, un giurista: “L’intelligenza non è affatto rara a Napoli… Ma oggi, su cento persone, soltan to due sanno leggere”. Aveva esordito notando: “Le arti meccaniche mancano qui degli strumenti più comuni nel resto d’Europa. Qui impiegano otto giorno per fare un lavoro che in Francia si farebbe in un’ora”. Sade lamenta che l’unica occupazione siano le feste, “simili infamie”.
La porta dell’Oriente
Fino a tutti gli
anni 1950, fino a quando l’aereo non ha soppiantato la navigazione per i viaggi intercontinentali, Napoli è stata
per secoli la porta dell’Oriente. Giapponesi, cinesi, indiani arrivavano in
Europa, e ne partivano, via
Napoli. È uno dei gtanti asset che la
città ha spregiato, e sprecato, nel dopoguerra – non potendo più
essere l’hub viaggiatori avrebbe
potuto trasformarsi imn hub merci, e
comunque
segnalarsi come
punto di collegamento con l’Oriente – un asset
di cui residua solo L’Orientale, l’università.
Montesquieu in
viaggio per l’Italia testimonia nel 1728 di un progetto sino-partenopeo, avviato
da un “bravo
ecclesiastico, don Matteo Ripa”. Che aveva costruito, “con i soldi fornitigli
dal papa”, un collegio per
giovani cinesi, da istruire nella fede cristiana e poi rimandare in Cina. Un
progetto che trovava l’entusiasmo
della Cina: “L’imperatore contribuisce alle spese”.
Ecoballe
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“ecoballe”, da usare come combustibile per termovalorizzatori, giacciono da
cinque anni nel canale di Piombino, nel mare di Follonica, noto posto di mare
in provincia di Grosseto. Dopo cinque anni, la cosa diventa nota perché il
governo ha dovuto disporne la rimozione. Ma giusto in otto-dieci righe nelle
cronache locali. Per due o tre estati invece dieci anni fa a Cetraro, Diamante,
Amantea, in Calabria si sono cercati invano tre – o trenta, o centotrenta -
bidoni di “materiale tossico”, “affondati in mare dalla ‘ndrangheta”, che non
si sono trovati. Benché il governo abbia speso molto in campagne di ricerca.
Con molto clamore, locale, nazionale e internazionale. E utile dei pentiti, che
a mano a mano, avvertiti, non mancavano di menzionare l’affondamento, anche se
purtroppo imprecisi.
Contenti
soli i pescatori. Che più non pescavano già da molti anni, ma sono stati
indennizzati per un paio di stagioni della mancata operatività – si sono molto
arrabbiati quando il ministero dell’Ambiente ha sospeso le ricerche, avendo
trovato solo il relitto di una nave affondata nel 1917. Cetraro, che puntava a
un turismo di qualità, cerca ora di riqualificarsi. Le stagioni estive rovinate
all’industria dell’accoglienza nell’Alto Tirreno cosentino non contano.
La
paura è di se stessi.
Milano
“Il
«primo teatro al mondo» (Stendhal) riapre dopo il virus con quattro concertini
stile Martini&Rossi, mentre intorno abbiamo: La Fenice con «Ottone» di
Vivaldi, Torino-Rai con Gatti e il Novecento storico, e Roma addirittura in
doppietta (Gatti-«Rigoletto» e Pappano – tutto Beethoven)”, lamenta il milanesissimo
“Mephisto” sul “Sole 24 Ore”.
I
milanesi sempre si lamentano. Ma, certo, il virus ha vanificato la prosopepoea
di essere la prima e la migliore città d’Italia, che dico d’Italia, d’Europa,
che dico d’Europa, del mondo – come Ezio Greggio avrebbe potuto dire.
Virgilio
è lombardo. Se ne accorge Ceronetti a Mantova, in avvio di “Albergo Italia”.
“Soprannominato la Vergine, messo da Orazio nel raro club degli esseri senza
macchia, Virgilio incarna l’aura lombarda nella sua specificità mantovana”.
E
a Mantova “quanta bellezza d’anima lombarda” Ceronetti trova – “e per lombardo
dell’anima intendo amabile, generoso, tollerante, non incline alla fatuità,
pensoso, virgiliano”.
“Devi
falsificare le carte”: non è il corruttore che in insidia il corrotto, è il
corrotto, il funzionario milanese, che vuole la falsificazione, in appalto e
nei lavori. Anche a rschio strage: “Falsifica il cavo”, dice il funzioanario
all’appaltatore, “se ne accorgeranno solo se brucia tutta la galleria”.
La
corruzione non è di oggi, casuale, lo è di sempre: “Se sul cavo è stampigliato
FC-16 o RFG-16”, dice uno dei funzionari della metro milanese ora sotto accusa,
“deve essere scartavetrato e ristampigliato R-18. Ci sono le macchine apposta,
lo facevamo trent’anni fa in ferrovia”.
Si
ruba a Milano normalmente: le mazzette, richieste e date, non fanno scandalo e
non necessitano trattative, sono la normalità – forse per questo non c’è più
bisogno di “bravi”, di mafiosi. Le mazzette che la Procura con gran dispiego di
mezzi ha denunziato all’azienda della metro milanese sono inezie - scontato
pure il cinismo della mancata sicurezza delle forniture.
Sono
pratiche in cui la stessa Procura si era imbattuta all’inizio del 1992, le
tangenti all’Atm, l’azienda dei trasporti, ma poi decise di concentrarsi sul
Psi e una parte della Dc, nel golpe giudiziario battezzato Mani Pulite. Non
sconosciute cioè alla Procura, e tenute in serbo per quando servono,
politicamente. Anche la Procura è milanese, benché tenuta solitamente da
giudici napoletani, sempre ossequenti. Ora bisogna abbattere Sala, il Pd?
Era
– è stata a lungo nel dopoguerra, anni 1950-1960 - il luogo delle leggerezza.
Del cabaret, inventivo, brillante, fascinoso: Fo-Parenti-Durano, Jannacci, Gaber,
Cochi e Renato. Anche Franca Valeri – parla milanese benché romana per scelta.
Con la panna montata di Camila Cederna. Era un maschera?
Si
magnifica il Bosco Verticale. Un palazzo per miliardari. Con manutenzione
costosissima. Quasi fosse una soluzione all’inquinamento. E forse i milanesi ci
credono – perché, sennò, tanto imbonimento?
L’allenatore di calcio Conte sbarcato
all’Inter si fa subito lagnoso. Contro la Juventus naturalmente, contro la
federazione, contro gli arbitri. È la sindrome Milano: sono il migliore ma non
me lo fanno fare – in questo caso vincere.
leuzzi@antiit.eu
L'Autore ferroviere a Pontedera, infelice
Singolare racconto, del nulla. Di
un non evento, il primo impiego di un giovane fiorentino alla stazione di
Pontedera, di una non personalità. Da lui stesso raccontato, uno che si
interroga su cosa pensano e sono il collega d’ufficio, il vice-capo ufficio, il
capo ufficio, l’ostessa, la ragazza che si vede passare. Scritto piano, in lingua,
invece che nel vernacolo che Tozzi privilegiava – e gli costituisce un’aura di
mistero. La fidanzata sta a Firenze, manda lettere che non scrive, perché è
inabilitata, e morirà di consunzione, ma non è un dramma.
All’apparenza un racconto di
formazione, ma c’è molta poca formazione. Al meglio, si può leggere come un
anticipo del racconto per frammenti, quale sarà teorizzato mezzo secolo dopo da
Sollers. Di pensieri e parole che fluiscono quasi in automatico, non regolate
né organizzate, per insorgenze casuali. Ma ugualmente lascia freddi.
Piaceva a Giacomo Debenedetti e per
questo si ripropone? C’è comunque tutto l’universo Tozzi: il giovane confuso, lo
scontro con la famiglia, l’amore incerto. Autobiografico, Tozzi ventenne passò ben un mese e mezzo da ferroviere a Pontedera. Un ricordo che riemerge
nel 1920, uno dei suoi ultimi scritti.
Debenedetti cì vede (nel saggio “Con
gli occhi chiusi”, 1963, ripubblicato nella raccolta “Il personaggio-uomo”) “un
personaggio della più rivelatrice famiglia che sia comparsa nella narrativa
moderna”. Quella del Gregorio Samsa di Kafka, della “Metamorfosi”: “un
impiegato della vita” – “uomo subordinato, umiliato, costretto all’obbedienza
senza un perché, da un mondo che lo comanda e lo disprezza”. Della riduzione
umana, del sé, all’istintualità, irriflessa, ripetitiva. “Di qui”, Debenedetti
deduce, “l’innato antinaturalismo di Tozzi. Il naturalismo narra in quanto
spiega, Tozzi narra in quanto non può spiegare”. Tozzi – Debenedetti allarga
l’obiettivo – “sotto il suo trafelato autodidattismo, custodiva atavicamente il
patrimonio della matura, adulta civiltà toscana e cristiana”.
Un racconto che fu vittima all’uscita
dello zelo di Borgese, il critico cui Tozzi
deve, postumo, la “scoperta”: Borgese lo leggeva come un naturalista in
ritardo, e il racconto, che gli era stato affidato per la pubblicazione alla morte dello scrittore senese, taglieggiò per allinearlo sulla sua lettura.
Federigo Tozzi, Ricordi di un impiegato, Ecra, pp. 76 €
7,50
Edizioni Clandestine, pp. 72 € 7
mercoledì 22 luglio 2020
Ecobusiness 3 -
astolfo
Di che parliamo quando parliamo di protezione dell'ambiente
Tutto elettrico
La Tesla Model 3
si dice il modello più venduto nella pandemia – una macchina da 50 mila euro in
su. Anche in Europa. Tra i primi dieci modelli più venduti. Non è vero - è tra
i primi dieci modelli più venduti fra le auto elettriche – ma è come se.
Una
Tesla Model 3, l’elettrica economica a partire da 50 mila euro, emette più CO2
di una Mercedes C220 diesel, prezzo a partire da 37 mila euro.
Poiché
stiamo per morire di inquinamento, bisogna comprarsi l’auto elettrica: via
tutto il resto, tutto ora sia elettrico. Lo ordinò la Francia mezzo secolo fa,
per riempirsi di centrali nucleari, una tren tina, che ora non sa come
“decommissionare” (chiudere e disattivare) – la radioattività si spegne con
difficoltà. Analogo programma italiano fu precluso da un referendum.
Bisogna
comprarsi un’auto al doppio del costo di una col motore a scoppio. Dotarsi di
un garage – 80-90 mila la quotazione a Roma. Con un colonnino di ricarica – 2
mila euro, più spese d’installazione, per 4-5 anni di durata. E pagare 80
centesimi al kWh – ottanta euro per quattrocento km..
Per
ora, cioè con l’elettricità da combustibili solidi. Con l’elettricità da fonti rinnovabili
il doppio, e pure il triplo. La salvezza costa cara.
Invece
di ridurre la circolazione. Magari con i mezzi pubblici. Per esempio a Roma,
dove circolano tanti mezzi privati quanti sono i residenti.
Ci vuole il cobalto per le
batterie a ioni di litio, a lunga durata, che è caro ed è estratto in Congo dai
bambini. Questo si sa ormai da due lustri e forse tre, ma non si rimedia.
Le case
automobilistiche annunciano investimenti “colossali” nell’auto
elettrica. Con relativa corsa in Cina, come se la fabbricazione fosse il
problema principale, mentre non necessita di investimenti, essendo ridotta alla
potenza e alla durata delle batterie. Gli investimenti sono invece
infrastrutturali, e nei mercati maggiori, euro-americani. Di questi non si
vede l’inizio e nemmeno il progetto.
Per i lunghi
viaggi, su percorsi stradali extraurbani e autostradali, bisognerà prima
costituire una rete di ricariche elettriche di una certa potenza. Ma l’impianto
di colonnine a ricarica veloce imporrebbe di ridisegnare tutta la rete di
distribuzione elettrica.
Una stazione di
ricarica con dieci colonnine a ricarica veloce, quindi impegnando 4,5 megawatt,
equivale all’illuminazione e agli usi elettrici di una comunità di 1.500
abitanti, di ceto medio – di un paese. La reti locali sono quindi da
ridisegnare, per i picchi di potenza assorbibili dalle stazioni di ricarica.
Quindi con la stagionalità. Il rischio black-out è comunque ineliminabile nei
giorni e le stagioni di picco.
Un investimento
di circa 1.000 miliardi di dollari sarà necessario per infrastutturare l’auto
elettrica, nei mercati euro-americani. Circa 360 miliardi sono stati calcolati
per la rete di colonnine di ricarica. Più 300 miliardi, costo minimo, per
adeguare la rete elettrica. In aggiunta ai 300-350 miliardi di dollari di spesa
già pianificati dalle case automobilistiche per i prossimi 5-10 anni..
Toyota ha
realizzato una geniale promozione pubblicitaria dotando alcune centrali di taxi
del suo ibrido a prezzi di favore. Una testimonianza visibilissima di quanto è
bello il motore elettrico. Ma le reti di taxi hanno garage attrezzati per la
ricarica dei mezzi fuori servizio – otto ore su ventiquattro. Il privato, tre
su quattro, non ha dove effettuare la ricarica, e comunque, se ha il garage,
deve dedicarci ore.
La colonnina di
ricarica elettrica, installata lungo le strade o in grandi garage, prende
un’ora e mezzo per una ricarica di 50 km, cinque ore e mezzo per una ricarica
completa. Il costo di installazione delle colonnine è elevato, 5-6 mila euro.
Colonnine di
ricarica più veloci sono tecnicamente disponibili, ma vogliono un investimento
molto più elevato: con una potenza d a 50 kW, che ricarica 5 km al minuto
(dieci minuti per 50 km di autonomia) l’investimento è di 50 mila dollari. Per
una da 100 kW, che dimezza i tempi di ricarica, il costo è di 200 mila dollari.
Il rendimento
della trazione elettrica è limitato dalle tariffe in vigore per il kWh.
In alternativa
alla colonnine veloci, e a costi di ricarica concorrenziali col motore a
scoppio, a benzina o a gasolio, la ricarica si puo’ effettuare con una presa di
corrente, in garage o in abitazione: alla potenza di 1,5 kW il tempo di
ricarica di una Ford Focus elettrica, per una autonomia di 185 km., è di trenta
ore.
Ecomodello Suv
Alle origini dell’auto
elettrica è l’industria petrolifera. Con la crisi petrolifera del 1973, la
guerra del Kippur e la paura del Medio Oriente, dove il petrolio si trova,
nasce la teoria della fine delle fonti di energia fossili, e la Exxon-Chase
Manhattan Bank (Rockefeller) lancia le ricerche per l’auto elettrica.
Non
bastano venti auto elettriche a compensare l’inquinamento prodotto da un Suv.
Le
case automobilistiche che non non hanno modelli Suv sono fuori mercato.
Carlo
Buontempo, climatologo romano a capo della sezione Cambiamento
Climatico del programma europeo Copernicus, che da cinque anni monitora la
salute della terra con un sistema di satelliti, è contento di armare la sua
barca a elettricità. Non a vela, sempre a motore, ma con 100 chili di batterie
invece di un paio di litri di gasolio.
E
come si produce l’elettricità? Le biomasse, la fonte alternativa (al petrolio)
più diffusa – bruciare i materiali vegetali di risulta, e anche qualche albero,
perché no, anche molti – accrescono le emissioni di CO2 rispetto ai
combustibili fossili. In centrale e come pellet di legno. Si privilegiano
semplicemente non contando le emissioni di CO2. E si moltiplicano grazie ai
fortissimi incentivi per le fonti “rinnovabili”.
La lobby elettrica
è dominante. Che è tutto il contrario dell’ecologia o protezione dell’ambiente.
Nulla si sa
dell’auto elettrica, se non che è un must. Sulla durata delle
batterie, in condizioni di tempo variabili, per un uso intensivo. Sugli sbalzi
di tensione. Sulla rete di rifornimento. Sugli investimenti nella rete – un
doppione rafforzato delle reti esistenti per illuminazione e forza motrice.
L’Ecoburo cinese
La Cina ha imposto l’auto elettrica - si fa per dire, non può obbligare i cinesi
a indebitarsi a vita – per imporla al mondo. Poiché si è fatta produttrice monopolista
delle batterie.
La Scienza
politica ha assunto il concetto di Politburo, dei regimi ex sovietici. Dovrebbe
ora aggiornarsi, sull’esempoio del partito Comunista Cinese, con un Ecoburo.
Si celebra, e si
finanzia, il passaggio all’auto elettrica a batterie di litio, pur sapendo che
pone problemi di approvvigionamento (la rete elettrica, la produzione di
elettricità) e di smaltimento delle batterie. E che il futuro pulito è
l’idrogeno, l’alimentazione a fuel cell, celle di combustibile:
leggere – pesano un dodicesimo delle batterie a litio – e a rifornimento rapido
– come per il motore a scoppio, mentre l’elettrico richiede mezze ore.
Si passa alle
batterie a ioni di litio perché la Cina ne è la grande produttrice. E vi ha
puntato, imponendo quote crescenti, ogni anno, di vendite di auto elettriche.
Il regime dittatoriale cinese può permettersi questo tipo di programmazione, e
le maggiori case automobilistiche che operano in Cina, Toyota, Volkswagen,
General Motors, vi si sono adeguate.
Nel solo mercato
cinese, il passaggio sarà (molto) redditizio. Ma la Cina è già il primo
fabbricante di auto al mondo: produce e assorbe un terzo dei 100 milioni di
autoveicoli che vanno al mercato nel mondo annualmente. La produzione continua
in forte crescita, e in questo stesso 2020, per quanto segnato dal coronavirus
e il lockdown, dovrebbe cominciare a
esportarsi.
Si dà per fatto
il passaggio all’auto elettrica. Piani d’investimento colossali si annunciano,
per orizzonti ravvicinati, a cinque-dieci anni. Magnificando l’accelerazione,
0-100, e la potenza degli elettrici. Ma non si dice a che costo unitario per
mezzo, con quanta autonomia per ricarica, con quale organizzazione di ricarica,
con quali effetti reali sull’ambiente, mettendo nel conto delle emissioni anche
la produzione moltiplicata di elettricità, e lo smaltimento delle batterie
esauste. Ora come ora, è solo una operazione commerciale, per ravvivare le
vendite.
Per ridurre i
tempi dì ricarica a un minutaggio non molto superiore a quello del rifornimento
di carburante, ci vorranno colonnine della potenza di 400-450 kW. Non ci sono
oggi batterie in grado di alimentarsi a questa potenza elevata.
Non ci sono del
resto nemmeno colonnine di potenza inferiore: quelle interurbane non ci sono di
fatto, quelle (poche) urbane in esercizio sono già fuori uso. Le ricariche si
fanno in garage, trenta ore per duecento km., il percorso medio giornaliero di
un taxi - la categoria di utilizzo che più è dotata di propulsioni elettriche.
L’Eurocina
Già prima
del corona virus, il rallentamento dell’economia tedesca – e di quella italiana
al carro tedesco – era l’esito del rallentamento dell’economia cinese. Con uno
sfasamento di due trimestri, quello che succede in Cina si riproduce in
Germania.
La Germania ha con la Cina un
interscambio commerciale di 180-200 miliardi di dollari. Tre volte quello
dell’Italia. Più dell’interscambio con gli Stati Uniti, 160 miliardi nel 2018.
Huawei, di cui (in teoria) si contesta la primazia nel nuovo sviluppo della
telefonia mobile, il G 5, in quanto azienda di Stato cinese, è da anni
stabilmente insediata in Germania, con laboratori di ricerca e centri di
produzione. Duisburg, dove Xi è stato in visita già sette anni fa, è da quasi dodici
anni l’hub ferroviario della Cina in Europa: l’80 per cento del traffico
ferroviario della Cina con l’Europa fa capo allo scalo tedesco.
La Cina è il secondo centro di
produzione di Volkswagen-Audi, per un investimento che in
quindici anni ha superato i 15 miliardi. E dovrebbe raddoppiarsi nel
decennio fino al 2018 per la produzione di almeno 12 milioni di vetture
elettriche e di un rete diffusa di colonnine di ricarica. La Cina è anche il
maggior mercato di vendita Volkswagen. Bmw, per dare un’idea dell’impegno, ha
investito in una fabbrica in Cina quattro miliardi di dollari, la Basf dieci.
“La guerra gentile della Cina” la dice Alberto
Bombassei, l’industriale meccanico della Brembo, presidente della Fondazione
Italia-Cina, sul “Sole 24 Ore”. In tanti modi, specie l’inquinamento. E in
particolare con l’auto elettrica.
Si impone l’auto
elettrica perché le case tedesche ci puntano. Perché la Cina andrà a elettrico
– insomma, ha fatto una legge per questo - e il mercato dell’avvenire dell’auto
è la Cina. Che non si pone problemi di inquinamento, malgrado faccia
finta di avere firmato gli impegni di Parigi: ha il quasi monopolio della
produzione - inquinante - di batterie, e si propone per il big business del
trattamento delle batterie esauste - le batterie durano sette-otto anni.
Ma la Cina
inquina, si può dire, anche la politica, nonché i media – con i media è facile,
credono a tutto. Il diesel ultima generazione inquina meno, polveri inclusi,
dell’ibrido elettrico. Che invece si protegge con finanziamenti pubblici e si
vuole imporre. Tassando il diesel.
L’elettrico
inquina di più a prescindere dallo smaltimento.
Un’ecologia per ricchi
Si magnifica a Milano
il palazzo-giardino verticale - il Bosco Verticale. Tacendo che è un immobile
da ricchi e ricchissimi, che richiede manutenzione costante, con nessun effetto
sull’ambiente se non d’immagine.
Poiché stiamo
per morire di inquinamento, bisogna comprarsi l’auto elettrica: via tutto il resto,
tutto ora sia elettrico. Lo ordinò la Francia mezzo secolo fa, per riempirsi di
centrali nucleari, che ora non sa come “decommissionare” (chiudere e
disattivare) – la radioattività si spegne con difficoltà.
Bisogna
comprarsi un’auto al doppio del costo di una col motore a scoppio. Dotarsi di
un garage – 80-90 mila la quotazione a Roma. Con un colonnino di ricarica – 2
mila euro, più spese d’installazione, per 4-5 anni di durata. E pagare 80
centesimi al kWh – ottanta euro per quattrocento km..
Per ora, con
l’elettricità da combustibili solidi. Con le rinnovabili il doppio, e pure il
triplo. La salvezza costa cara.
Invece di
ridurre la circolazione. Magari con i mezzi pubblici. Per esempio a Roma, dove
circolano tanti mezzi privati quanti sono i residenti.
Nell’inerzia –
ignoranza? stupidità (viva il nuovo)? corruzione? – dell’informazione.
L’auto elettrica
inquina più del gasolio di ultima generazione, spiega lo stesso Bombassei di
Italia-Cina sul “Sole 24 Ore”, ma gli italiani dovranno finanziarla con
l’ecobonus deciso dal governo – ben settemila euro a veicolo. Non solo inquina,
ma mette fuori mercato un terzo dell’occcupazione metalmeccanica legata
all’automobile.
I motori a
gasolio di ultima generazione inquinano meno degli ibridi. Degli ibridi in esercizio,
senza tenere conto dell’inquinantissimo processo di demolizione delle batterie
esauste. Ma il governo finanzia gli ibridi e punisce il gasolio. Potenza
della lobby elettrica, di chi produce l’elettricità e dei
tanti che la distribuiscono – la fatturano in realtà, la gestione è solo di
Terna.
Si finanziano
gli ibridi perché così ha deciso l’industria tedesca dell’auto, che ha in
cantiere trenta modelli di ibrido o elettrico. Bmw, Mercedes e Volkswagen
puntano sull’elettrico perché “il” mercato dell’auto è la Cina, e la Cina, che
fa le batterie, procedimento molto inquinante, andrà a elettrico. Poi ci sarà
da pagare la Cina per smaltire le batterie esauste, mezza tonnellata per ogni
ibrido. Nel frattempo metà dell’industria metalmeccanica europea avrà chiuso –
in Italia un terzo dell’occupazione del settore.
I governi in
Europa pagano fino a un terzo del cosgto di una macchina elettrica. Che pochi
ricchi si possono permettere, per costo, garage, potenza elettrica impegnata,
personale di servizio. Chi non può permettersela paga per chi può. Un
controsenso. Con beneficio, tutti considerato, irrisorio o nulle per
l’ambiente.
Le ecolobbies
Pioggia di
contributi per l’auto elettrica, seimila euro, cifra paperoniana. E tasse, di
1.000-1.400 euro, per chi compra una piccola cilindrata. Sembra di sognare ma è
il progetto del governo: finanziare chi può spendere i restanti 20 mila euro
per l’auto elettrica, e punire chi, magari stringendo la cinghia, arriva a una
da 8 mila. Un governo furbo oltre che cattivo. Che la spara volutamente grossa,
per poi arrivare a quello che le lobbies vogliono, che lo
Stato, cioè noi, paghi l’auto elettrica a chi può permettersi di pagare la
differenza – pagare 15-20 mila euro, e avere un garage, attrezzato. La tassa
sulle piccole cilindrate si minaccia per poi arrivare al “compromesso”, al
contributo per i ricchi senza discussioni. Tipica tattica da lobbies:
puntare (distrarre) su un falso scopo per centrare l’obiettivo.
Il governo non solo fa quello che le lobbies dicono, e quella
dell’auto elettrica, che non vende, ha mezzi straordinari, quelli
nippo-coreani, notoriamente facili, e quelli di mezza Europa. Ma lo fa con
sapienza: ne ha esperienza. Grillo è da poco al governo, ma ha molto esperienza
di politica lobbistica. Attraverso il suo sito. E in politica già con
l’Olimpiade: l’Olimpiade no, lo stadio della Roma sì. Non a un evento che non
sarebbe costato e avrebbe portato a Roma e in Italia alcuni miliardi delle
organizzazioni olimpiche, ma non appoggiato da una lobby, non da
una convincente. Lo stadio della Roma invece sì, che è una speculazione
edilizia, dichiarata: trattata da avvocati d’affari, messa in opera da
speculatori sotto processo. Per la quale il Comune di Roma di Grillo fa
spendere allo Stato, cioè a noi, 180 milioni solo per costruire il ponte di
accesso – ce ne vorranno altri 300 per urbanizzare, urbanizzare una zona
altrimenti incostruibile.
Fuori l’operaio
Con l’elettrico sparisce il
metalmeccanico. Il settore di punta dei paesi industrializzati, in Europa e le
Americhe, sia per il valore della produzione che per l’occupazione e quindi la
distribuzione del reddito.
Sono cifre rispettabili che
vanno a sparire. L’Acea, l’associazione europea dei costruttori di auto,
calcola 3,4 milioni di addetti nel vecchio continente. Più qualche milione di
meccanici, addetti alle riparazioni. Quattro milioni di addetti che avranno
poco o niente da fare. Sono – erano nel 2016 – 935 mila in Germania, 213 mila
in Francia, 184 mila in Polonia, 172 mila in Romania, 168 mila nella Repubblica
Ceca, 162 mila in Italia, 155 in Gran Bretagna, 152 mila in Spagna, 93 mila in
Ungheria, 72 mila in Slovacchia.
Secondo il sindacato tedesco,
il motore elettrico ridurrà l’occupazione dell’80-90 per cento. L’industria
automobilistica è meno radicale, ma dà lo stesso riduzioni importanti. La
Volkswagen del 30 per cento nell’insieme. L’Acea del 60 per cento nei
comparti powertrain (propulsione e trasmissione), ricambi,
manutenzione.
In Italia le regioni più
colpite sarebbero Lucania e Molise. Non molto in valori assoluti, avendo 8 mila
e 2.800 occupati rispettivamente, ma sì come quota dell’occupazione
complessiva, il 36 e il 24 per cento. In Germania potrebbe finire la leadership economica
del Sud: della Svevia (Mercedes, Porsche), con 150 mila addetti, e della
Baviera (Audi, Bmw), con 150 mila – il 28 per cento dell’occupazione
complessiva in entrambe le regioni.
Lucciole per lanterne
Le lucciole erano scomparse con Pasolini
cinquant’anni fa. Poi sono rìtornate. E ora ci sono in città libellule e cicale.
Ma la fine del mondo è sempre più vicina.
Un terzo dei gas serra è causato
dall’agricoltura, in crescita esponenziale da tre decenni. E crescerà con la
crescita del reddito diffusa nel globo.
L’inquinamento atmosferico è l’effetto della
circolazione automobilistica. Un conto è l’auto per tutti per 400 milioni di
persone, tra Europa e Stati Uniti, un altro per due o tre miliardi, col
migliorato tenore di vita dei Bric, di Cina e India, del Sud-Est asiatico.
Si propaganda l’auto a batterie solari, che
ingombra il doppio di una berlina di lusso equivalente, e costa 150 mila euro.
La macchina comoda, più larga, con più
bagagliaio, più pesante, per la sicurezza naturalmente, che consuma tre e
quattro volte il carburante di una vecchia berlina, ingombra (consuma spazio)
il doppio e il triplo, e solleva più polveri.
Si magnifica l’auto elettrica per incentivare
il rinnovo del parco macchine. Che elimina, si argomenta, le polveri sottili da
combustibile esausto, mentre invece le accumula nei luoghi di produzione delle
batterie, in quelli di produzione dell’energia elettrica, e poi nello
smaltimento delle batterie, una volta esauste. E non elimina quelle di attrito,
viaggiando su gomma, su asfalto.
Il trasporto su gomma, anche elettrico, che
l’ecologia preferisce al treno, creatore e stramoltiplicatore delle polveri
sottili
L’industria delle fonti di energia
rinnovabili, che l’utente paga a carissimo prezzo, massima inquinatrice della
politica: un torta da 16 (sedici) miliardi di euro l’anno, pagata dagli utenti
in bolletta come investimento di ricerca, a vantaggio di piccoli e micro
produttori “amici degli amici” – circa 800 operatori.
Un’industria che inquina l’informazione.
Si moltiplicano gli sciacquoni di origine
californiana a doppia vaschetta, una per la pipì, una per la cacca. Per
tacitare le coscienze e anzi renderle ecofriendly.
Per nessun risparmio di acqua – un litro? L’acqua non si risparmia e si
rigenera.
L’ecologia è il business del
momento, con molti sovrapprezzi, e molti danni all’ambiente, per lucrare sulla
buona volontà – attraverso il terrore: si fa un uso dell’ecologia come arma
terroristica a fini di profitto.
L'ecologia è un business che crea più danni di quanti ne evita.
La Tesla Model 3 si dice il modello più venduto nella pandemia – una macchina da 50 mila euro in su. Anche in Europa. Tra i primi dieci modelli più venduti. Non è vero - è tra i primi dieci modelli più venduti fra le auto elettriche – ma è come se.
Una Tesla Model 3, l’elettrica economica a partire da 50 mila euro, emette più CO2 di una Mercedes C220 diesel, prezzo a partire da 37 mila euro.
Poiché stiamo per morire di inquinamento, bisogna comprarsi l’auto elettrica: via tutto il resto, tutto ora sia elettrico. Lo ordinò la Francia mezzo secolo fa, per riempirsi di centrali nucleari, una tren tina, che ora non sa come “decommissionare” (chiudere e disattivare) – la radioattività si spegne con difficoltà. Analogo programma italiano fu precluso da un referendum.
Bisogna comprarsi un’auto al doppio del costo di una col motore a scoppio. Dotarsi di un garage – 80-90 mila la quotazione a Roma. Con un colonnino di ricarica – 2 mila euro, più spese d’installazione, per 4-5 anni di durata. E pagare 80 centesimi al kWh – ottanta euro per quattrocento km..
Per ora, cioè con l’elettricità da combustibili solidi. Con l’elettricità da fonti rinnovabili il doppio, e pure il triplo. La salvezza costa cara.
Invece di ridurre la circolazione. Magari con i mezzi pubblici. Per esempio a Roma, dove circolano tanti mezzi privati quanti sono i residenti.
Ci vuole il cobalto per le batterie a ioni di litio, a lunga durata, che è caro ed è estratto in Congo dai bambini. Questo si sa ormai da due lustri e forse tre, ma non si rimedia.
Le case automobilistiche annunciano investimenti “colossali” nell’auto elettrica. Con relativa corsa in Cina, come se la fabbricazione fosse il problema principale, mentre non necessita di investimenti, essendo ridotta alla potenza e alla durata delle batterie. Gli investimenti sono invece infrastrutturali, e nei mercati maggiori, euro-americani. Di questi non si vede l’inizio e nemmeno il progetto.
Per i lunghi viaggi, su percorsi stradali extraurbani e autostradali, bisognerà prima costituire una rete di ricariche elettriche di una certa potenza. Ma l’impianto di colonnine a ricarica veloce imporrebbe di ridisegnare tutta la rete di distribuzione elettrica.
Una stazione di ricarica con dieci colonnine a ricarica veloce, quindi impegnando 4,5 megawatt, equivale all’illuminazione e agli usi elettrici di una comunità di 1.500 abitanti, di ceto medio – di un paese. La reti locali sono quindi da ridisegnare, per i picchi di potenza assorbibili dalle stazioni di ricarica. Quindi con la stagionalità. Il rischio black-out è comunque ineliminabile nei giorni e le stagioni di picco.
Un investimento di circa 1.000 miliardi di dollari sarà necessario per infrastutturare l’auto elettrica, nei mercati euro-americani. Circa 360 miliardi sono stati calcolati per la rete di colonnine di ricarica. Più 300 miliardi, costo minimo, per adeguare la rete elettrica. In aggiunta ai 300-350 miliardi di dollari di spesa già pianificati dalle case automobilistiche per i prossimi 5-10 anni..
Toyota ha realizzato una geniale promozione pubblicitaria dotando alcune centrali di taxi del suo ibrido a prezzi di favore. Una testimonianza visibilissima di quanto è bello il motore elettrico. Ma le reti di taxi hanno garage attrezzati per la ricarica dei mezzi fuori servizio – otto ore su ventiquattro. Il privato, tre su quattro, non ha dove effettuare la ricarica, e comunque, se ha il garage, deve dedicarci ore.
La colonnina di ricarica elettrica, installata lungo le strade o in grandi garage, prende un’ora e mezzo per una ricarica di 50 km, cinque ore e mezzo per una ricarica completa. Il costo di installazione delle colonnine è elevato, 5-6 mila euro.
Colonnine di ricarica più veloci sono tecnicamente disponibili, ma vogliono un investimento molto più elevato: con una potenza d a 50 kW, che ricarica 5 km al minuto (dieci minuti per 50 km di autonomia) l’investimento è di 50 mila dollari. Per una da 100 kW, che dimezza i tempi di ricarica, il costo è di 200 mila dollari.
Il rendimento della trazione elettrica è limitato dalle tariffe in vigore per il kWh.
In alternativa alla colonnine veloci, e a costi di ricarica concorrenziali col motore a scoppio, a benzina o a gasolio, la ricarica si puo’ effettuare con una presa di corrente, in garage o in abitazione: alla potenza di 1,5 kW il tempo di ricarica di una Ford Focus elettrica, per una autonomia di 185 km., è di trenta ore.
Ecomodello Suv
Alle origini dell’auto elettrica è l’industria petrolifera. Con la crisi petrolifera del 1973, la guerra del Kippur e la paura del Medio Oriente, dove il petrolio si trova, nasce la teoria della fine delle fonti di energia fossili, e la Exxon-Chase Manhattan Bank (Rockefeller) lancia le ricerche per l’auto elettrica.
Non bastano venti auto elettriche a compensare l’inquinamento prodotto da un Suv.
Le case automobilistiche che non non hanno modelli Suv sono fuori mercato.
Carlo Buontempo, climatologo romano a capo della sezione Cambiamento Climatico del programma europeo Copernicus, che da cinque anni monitora la salute della terra con un sistema di satelliti, è contento di armare la sua barca a elettricità. Non a vela, sempre a motore, ma con 100 chili di batterie invece di un paio di litri di gasolio.
E come si produce l’elettricità? Le biomasse, la fonte alternativa (al petrolio) più diffusa – bruciare i materiali vegetali di risulta, e anche qualche albero, perché no, anche molti – accrescono le emissioni di CO2 rispetto ai combustibili fossili. In centrale e come pellet di legno. Si privilegiano semplicemente non contando le emissioni di CO2. E si moltiplicano grazie ai fortissimi incentivi per le fonti “rinnovabili”.
La lobby elettrica è dominante. Che è tutto il contrario dell’ecologia o protezione dell’ambiente.
Nulla si sa dell’auto elettrica, se non che è un must. Sulla durata delle batterie, in condizioni di tempo variabili, per un uso intensivo. Sugli sbalzi di tensione. Sulla rete di rifornimento. Sugli investimenti nella rete – un doppione rafforzato delle reti esistenti per illuminazione e forza motrice.
L’Ecoburo cinese
La Cina ha imposto l’auto elettrica - si fa per dire, non può obbligare i cinesi a indebitarsi a vita – per imporla al mondo. Poiché si è fatta produttrice monopolista delle batterie.
La Scienza politica ha assunto il concetto di Politburo, dei regimi ex sovietici. Dovrebbe ora aggiornarsi, sull’esempoio del partito Comunista Cinese, con un Ecoburo.
Si celebra, e si finanzia, il passaggio all’auto elettrica a batterie di litio, pur sapendo che pone problemi di approvvigionamento (la rete elettrica, la produzione di elettricità) e di smaltimento delle batterie. E che il futuro pulito è l’idrogeno, l’alimentazione a fuel cell, celle di combustibile: leggere – pesano un dodicesimo delle batterie a litio – e a rifornimento rapido – come per il motore a scoppio, mentre l’elettrico richiede mezze ore.
Si passa alle batterie a ioni di litio perché la Cina ne è la grande produttrice. E vi ha puntato, imponendo quote crescenti, ogni anno, di vendite di auto elettriche. Il regime dittatoriale cinese può permettersi questo tipo di programmazione, e le maggiori case automobilistiche che operano in Cina, Toyota, Volkswagen, General Motors, vi si sono adeguate.
Nel solo mercato cinese, il passaggio sarà (molto) redditizio. Ma la Cina è già il primo fabbricante di auto al mondo: produce e assorbe un terzo dei 100 milioni di autoveicoli che vanno al mercato nel mondo annualmente. La produzione continua in forte crescita, e in questo stesso 2020, per quanto segnato dal coronavirus e il lockdown, dovrebbe cominciare a esportarsi.
Si dà per fatto il passaggio all’auto elettrica. Piani d’investimento colossali si annunciano, per orizzonti ravvicinati, a cinque-dieci anni. Magnificando l’accelerazione, 0-100, e la potenza degli elettrici. Ma non si dice a che costo unitario per mezzo, con quanta autonomia per ricarica, con quale organizzazione di ricarica, con quali effetti reali sull’ambiente, mettendo nel conto delle emissioni anche la produzione moltiplicata di elettricità, e lo smaltimento delle batterie esauste. Ora come ora, è solo una operazione commerciale, per ravvivare le vendite.
Per ridurre i tempi dì ricarica a un minutaggio non molto superiore a quello del rifornimento di carburante, ci vorranno colonnine della potenza di 400-450 kW. Non ci sono oggi batterie in grado di alimentarsi a questa potenza elevata.
Non ci sono del resto nemmeno colonnine di potenza inferiore: quelle interurbane non ci sono di fatto, quelle (poche) urbane in esercizio sono già fuori uso. Le ricariche si fanno in garage, trenta ore per duecento km., il percorso medio giornaliero di un taxi - la categoria di utilizzo che più è dotata di propulsioni elettriche.
L’Eurocina
Già prima del corona virus, il rallentamento dell’economia tedesca – e di quella italiana al carro tedesco – era l’esito del rallentamento dell’economia cinese. Con uno sfasamento di due trimestri, quello che succede in Cina si riproduce in Germania.
La Germania ha con la Cina un interscambio commerciale di 180-200 miliardi di dollari. Tre volte quello dell’Italia. Più dell’interscambio con gli Stati Uniti, 160 miliardi nel 2018. Huawei, di cui (in teoria) si contesta la primazia nel nuovo sviluppo della telefonia mobile, il G 5, in quanto azienda di Stato cinese, è da anni stabilmente insediata in Germania, con laboratori di ricerca e centri di produzione. Duisburg, dove Xi è stato in visita già sette anni fa, è da quasi dodici anni l’hub ferroviario della Cina in Europa: l’80 per cento del traffico ferroviario della Cina con l’Europa fa capo allo scalo tedesco.
La Cina è il secondo centro di produzione di Volkswagen-Audi, per un investimento che in quindici anni ha superato i 15 miliardi. E dovrebbe raddoppiarsi nel decennio fino al 2018 per la produzione di almeno 12 milioni di vetture elettriche e di un rete diffusa di colonnine di ricarica. La Cina è anche il maggior mercato di vendita Volkswagen. Bmw, per dare un’idea dell’impegno, ha investito in una fabbrica in Cina quattro miliardi di dollari, la Basf dieci.
“La guerra gentile della Cina” la dice Alberto Bombassei, l’industriale meccanico della Brembo, presidente della Fondazione Italia-Cina, sul “Sole 24 Ore”. In tanti modi, specie l’inquinamento. E in particolare con l’auto elettrica.
Si impone l’auto elettrica perché le case tedesche ci puntano. Perché la Cina andrà a elettrico – insomma, ha fatto una legge per questo - e il mercato dell’avvenire dell’auto è la Cina. Che non si pone problemi di inquinamento, malgrado faccia finta di avere firmato gli impegni di Parigi: ha il quasi monopolio della produzione - inquinante - di batterie, e si propone per il big business del trattamento delle batterie esauste - le batterie durano sette-otto anni.
Ma la Cina inquina, si può dire, anche la politica, nonché i media – con i media è facile, credono a tutto. Il diesel ultima generazione inquina meno, polveri inclusi, dell’ibrido elettrico. Che invece si protegge con finanziamenti pubblici e si vuole imporre. Tassando il diesel.
L’elettrico inquina di più a prescindere dallo smaltimento.
Un’ecologia per ricchi
Si magnifica a Milano il palazzo-giardino verticale - il Bosco Verticale. Tacendo che è un immobile da ricchi e ricchissimi, che richiede manutenzione costante, con nessun effetto sull’ambiente se non d’immagine.
Poiché stiamo per morire di inquinamento, bisogna comprarsi l’auto elettrica: via tutto il resto, tutto ora sia elettrico. Lo ordinò la Francia mezzo secolo fa, per riempirsi di centrali nucleari, che ora non sa come “decommissionare” (chiudere e disattivare) – la radioattività si spegne con difficoltà.
Bisogna comprarsi un’auto al doppio del costo di una col motore a scoppio. Dotarsi di un garage – 80-90 mila la quotazione a Roma. Con un colonnino di ricarica – 2 mila euro, più spese d’installazione, per 4-5 anni di durata. E pagare 80 centesimi al kWh – ottanta euro per quattrocento km..
Per ora, con l’elettricità da combustibili solidi. Con le rinnovabili il doppio, e pure il triplo. La salvezza costa cara.
Invece di ridurre la circolazione. Magari con i mezzi pubblici. Per esempio a Roma, dove circolano tanti mezzi privati quanti sono i residenti.
Nell’inerzia – ignoranza? stupidità (viva il nuovo)? corruzione? – dell’informazione.
L’auto elettrica inquina più del gasolio di ultima generazione, spiega lo stesso Bombassei di Italia-Cina sul “Sole 24 Ore”, ma gli italiani dovranno finanziarla con l’ecobonus deciso dal governo – ben settemila euro a veicolo. Non solo inquina, ma mette fuori mercato un terzo dell’occcupazione metalmeccanica legata all’automobile.
I motori a gasolio di ultima generazione inquinano meno degli ibridi. Degli ibridi in esercizio, senza tenere conto dell’inquinantissimo processo di demolizione delle batterie esauste. Ma il governo finanzia gli ibridi e punisce il gasolio. Potenza della lobby elettrica, di chi produce l’elettricità e dei tanti che la distribuiscono – la fatturano in realtà, la gestione è solo di Terna.
Si finanziano gli ibridi perché così ha deciso l’industria tedesca dell’auto, che ha in cantiere trenta modelli di ibrido o elettrico. Bmw, Mercedes e Volkswagen puntano sull’elettrico perché “il” mercato dell’auto è la Cina, e la Cina, che fa le batterie, procedimento molto inquinante, andrà a elettrico. Poi ci sarà da pagare la Cina per smaltire le batterie esauste, mezza tonnellata per ogni ibrido. Nel frattempo metà dell’industria metalmeccanica europea avrà chiuso – in Italia un terzo dell’occupazione del settore.
I governi in Europa pagano fino a un terzo del cosgto di una macchina elettrica. Che pochi ricchi si possono permettere, per costo, garage, potenza elettrica impegnata, personale di servizio. Chi non può permettersela paga per chi può. Un controsenso. Con beneficio, tutti considerato, irrisorio o nulle per l’ambiente.
Le ecolobbies
Pioggia di contributi per l’auto elettrica, seimila euro, cifra paperoniana. E tasse, di 1.000-1.400 euro, per chi compra una piccola cilindrata. Sembra di sognare ma è il progetto del governo: finanziare chi può spendere i restanti 20 mila euro per l’auto elettrica, e punire chi, magari stringendo la cinghia, arriva a una da 8 mila. Un governo furbo oltre che cattivo. Che la spara volutamente grossa, per poi arrivare a quello che le lobbies vogliono, che lo Stato, cioè noi, paghi l’auto elettrica a chi può permettersi di pagare la differenza – pagare 15-20 mila euro, e avere un garage, attrezzato. La tassa sulle piccole cilindrate si minaccia per poi arrivare al “compromesso”, al contributo per i ricchi senza discussioni. Tipica tattica da lobbies: puntare (distrarre) su un falso scopo per centrare l’obiettivo.
Il governo non solo fa quello che le lobbies dicono, e quella dell’auto elettrica, che non vende, ha mezzi straordinari, quelli nippo-coreani, notoriamente facili, e quelli di mezza Europa. Ma lo fa con sapienza: ne ha esperienza. Grillo è da poco al governo, ma ha molto esperienza di politica lobbistica. Attraverso il suo sito. E in politica già con l’Olimpiade: l’Olimpiade no, lo stadio della Roma sì. Non a un evento che non sarebbe costato e avrebbe portato a Roma e in Italia alcuni miliardi delle organizzazioni olimpiche, ma non appoggiato da una lobby, non da una convincente. Lo stadio della Roma invece sì, che è una speculazione edilizia, dichiarata: trattata da avvocati d’affari, messa in opera da speculatori sotto processo. Per la quale il Comune di Roma di Grillo fa spendere allo Stato, cioè a noi, 180 milioni solo per costruire il ponte di accesso – ce ne vorranno altri 300 per urbanizzare, urbanizzare una zona altrimenti incostruibile.
Fuori l’operaio
Con l’elettrico sparisce il metalmeccanico. Il settore di punta dei paesi industrializzati, in Europa e le Americhe, sia per il valore della produzione che per l’occupazione e quindi la distribuzione del reddito.
Sono cifre rispettabili che vanno a sparire. L’Acea, l’associazione europea dei costruttori di auto, calcola 3,4 milioni di addetti nel vecchio continente. Più qualche milione di meccanici, addetti alle riparazioni. Quattro milioni di addetti che avranno poco o niente da fare. Sono – erano nel 2016 – 935 mila in Germania, 213 mila in Francia, 184 mila in Polonia, 172 mila in Romania, 168 mila nella Repubblica Ceca, 162 mila in Italia, 155 in Gran Bretagna, 152 mila in Spagna, 93 mila in Ungheria, 72 mila in Slovacchia.
Secondo il sindacato tedesco, il motore elettrico ridurrà l’occupazione dell’80-90 per cento. L’industria automobilistica è meno radicale, ma dà lo stesso riduzioni importanti. La Volkswagen del 30 per cento nell’insieme. L’Acea del 60 per cento nei comparti powertrain (propulsione e trasmissione), ricambi, manutenzione.
In Italia le regioni più colpite sarebbero Lucania e Molise. Non molto in valori assoluti, avendo 8 mila e 2.800 occupati rispettivamente, ma sì come quota dell’occupazione complessiva, il 36 e il 24 per cento. In Germania potrebbe finire la leadership economica del Sud: della Svevia (Mercedes, Porsche), con 150 mila addetti, e della Baviera (Audi, Bmw), con 150 mila – il 28 per cento dell’occupazione complessiva in entrambe le regioni.
Lucciole per lanterne
Le lucciole erano scomparse con Pasolini cinquant’anni fa. Poi sono rìtornate. E ora ci sono in città libellule e cicale. Ma la fine del mondo è sempre più vicina.
Un terzo dei gas serra è causato dall’agricoltura, in crescita esponenziale da tre decenni. E crescerà con la crescita del reddito diffusa nel globo.
L’inquinamento atmosferico è l’effetto della circolazione automobilistica. Un conto è l’auto per tutti per 400 milioni di persone, tra Europa e Stati Uniti, un altro per due o tre miliardi, col migliorato tenore di vita dei Bric, di Cina e India, del Sud-Est asiatico.
Si propaganda l’auto a batterie solari, che ingombra il doppio di una berlina di lusso equivalente, e costa 150 mila euro.
La macchina comoda, più larga, con più bagagliaio, più pesante, per la sicurezza naturalmente, che consuma tre e quattro volte il carburante di una vecchia berlina, ingombra (consuma spazio) il doppio e il triplo, e solleva più polveri.
Si magnifica l’auto elettrica per incentivare il rinnovo del parco macchine. Che elimina, si argomenta, le polveri sottili da combustibile esausto, mentre invece le accumula nei luoghi di produzione delle batterie, in quelli di produzione dell’energia elettrica, e poi nello smaltimento delle batterie, una volta esauste. E non elimina quelle di attrito, viaggiando su gomma, su asfalto.
Il trasporto su gomma, anche elettrico, che l’ecologia preferisce al treno, creatore e stramoltiplicatore delle polveri sottili
L’industria delle fonti di energia rinnovabili, che l’utente paga a carissimo prezzo, massima inquinatrice della politica: un torta da 16 (sedici) miliardi di euro l’anno, pagata dagli utenti in bolletta come investimento di ricerca, a vantaggio di piccoli e micro produttori “amici degli amici” – circa 800 operatori.
Un’industria che inquina l’informazione.
Si moltiplicano gli sciacquoni di origine californiana a doppia vaschetta, una per la pipì, una per la cacca. Per tacitare le coscienze e anzi renderle ecofriendly. Per nessun risparmio di acqua – un litro? L’acqua non si risparmia e si rigenera.
L’ecologia è il business del momento, con molti sovrapprezzi, e molti danni all’ambiente, per lucrare sulla buona volontà – attraverso il terrore: si fa un uso dell’ecologia come arma terroristica a fini di profitto.
L'ecologia è un business che crea più danni di quanti ne evita.
(fine)
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Wagner contro gli ebrei
La “naturale stoltezza degli
ebrei” dice tutto, si può anche non andare oltre. Anche perché poco prima o poco dopo Wagner rivendica una
“insormontabile ripugnanza nei confronti della natura ebraica”. Ma la lettura
merita: dice molto del razzismo, oltre che della Germania e di Wagner.
Wagner scriveva molto, di musica
e di politica, e quasi sempre in guerra contro qualcuno. Da polemista, quindi,
anche qui. Contro Hegel, tra i tanti, per “la devastazione provocata” dalla sua
filosofia “nelle menti tedesche”, rifacendosi a Schiller, estetica del bello, e
a Kant, dalle “grandi idee”. Contro gli impresari d’opera, che non lo mettono
in scena. Contro i critici musicali, che non apprezzano la sua “musica
dell’avvenire”. Ma soprattutto contro gli ebrei. Che monopolizzano
l’informazione, l’editoria, i teatri, il mercato dell’arte. E contro gli artisti
ebrei, incapaci di “vera arte”.
Contro Heine: “L’ebreo Heine, pur
dotato di rare qualità poetiche, ha portato alla luce, con beffardo sarcasmo, la
menzogna, la smisurata monotonia e la gesuitica ipocrisia dei fabbricatori di
versi che si danno arie da poeti”. Ma soprattutto contro i musicisti. Contro Meyerbeer,
che non nomina, dopo avere abusato dei suoi favori, a Parigi e anche in
Germania, per un lungo decennio, importunandolo con ogni sorta di richieste. Mendelssohn-Barholdy,
delle cui doti “germaniche” inoppugnabili si profonde in elogi e rimpianti,
ripetitivamente ricacciando nel suo limite invalicabile dell’essere comunque
ebreo.
Sulle prima non sembra, Wagner
non è virulento. Sembra, vuole essere, persuasivo. La premessa è perfino
onesta. Di uno, afferma che non è mai stato in conflitto con gli ebrei “sul
piano esclusivamente politico”. Di più, “non ce la prenderemmo con loro nemmeno
se fondassero un regno di Gerusalemme” – concludendo però beffardo: “Piuttosto
abbiamo un solo rammarico: che il signor Rothschild sia stato troppo astuto per diventare re
degli ebrei, preferendo invece, com’è noto, rimanere «l’ebreo dei Re»”. Il
problema è gli ebrei tra noi, “la natura di questa involontaria ripugnanza che
la personalità e l’essenza degli ebrei suscitano in noi, questa istintiva e
spontanea avversione… il nostro naturale disgusto verso la natura ebraica”. Niente
di meno.
Abbiamo combattuto, ha premesso, “per
l’emancipazione degli ebrei”, ma “combattevano più per un principio astratto
che per un fatto concreto”. Wagner è reduce dalla rivoluzione del ’48, ancora
bakuniniano, e quindi democratico, molto, ma con preclusioni. Psicologiche, dice: essere
tedeschi di fronte a una presenza aliena. E di radicamento. Tanto più per un
artista: il radicamento è necessario all’arte, il riconoscersi parte di una
storia e una comunità, di un popolo. Con subisso già all’epoca, quarantottesca,
di Volk e völkisch - quale si avrà nella Germania hitleriana e in Heidegger (ma
anche, nota Wagner in segno di rimprovero, in Berthold Auerbach, che si vuole cantore
ebraico di Volk e völkisch).
L’arte ha bisogno di radicamento, storico, tradizionale, sociale: popolare. Il poeta
non può creare, solo il popolo. L’ebreo è incapace di arte perché è sradicato, non
ha un popolo.
E non è tutto. Con l’emancipazione,
aggiunge, abbiamo “consegnato nelle mani di ebrei operosi il comune gusto
artistico del nostro tempo”. Da qui “l’impossibilità di produrre, sulla base
dell’attuale sviluppo delle arti, opere d’arte naturali, necessarie e veramente
belle”. Lunghe pagine quindi per dimostrare che l’ebreo resta straniero. E che
l’ebreo è incapace, di musica, di arte. Quello che si dice razzismo biologico, tra
raffigurazioni fisiche grottesche e ripetuti sarcasmi sule melopee in
sinagoga.
Con tutta la buona volontà, l’ebreo
non ha la lingua, il suono, il canto. “La musica è la lingua della passione”. L’ebreo
ne è incapace. Un’insensibilità particolare ha per il canto. È arrivato alla
musica con l’imborghesimento. Che però facilita la riflessione ma non la
poesia, non la musica. Per quanto accettato, l’ebreo riane diverso, specie
nelle arti, limitato. E di suo inerte: “L’ebreo non ha mai avuto un’arte
propria”. Per l’ebreo in generale anzi non c’è salvezza. Alla fine dell’argomentazione
Wagner si fa profetico. La sola redenzione per lui possibile è la rovina, sono
le ultime parole: “La redenzione di Ahasverus, la rovina, la fine, la morte, la
caduta!”
Un senso c’è, è giusto non
censurare questo Wagner. Il nazionalismo völkisch,
tradizionale, etnico, sia pure rivoluzionario, fa più paura dell’antisemitismo
– l’antisemitismo radica nel völkisch,
ne è l’espressione popolare, fare breccia contro l’estraneo, l’intruso, in automatico
eretto a nemico. Non vi vergognate di non provare ribrezzo per l’ebreo, chiede
a un certo punto Wagner, sdegnato che non tutti i buoni tedeschi facciano quello
che lui dice debbono fare.
A Wagner si perdona molto, ma ha
molto da farsi perdonare. Non di cattiveria, ma di confusione. Da “buon
tedesco”.
Il testo del 1850, di una
trentina di pagine, pubblicato con uno pseudonimo, K. Freigedank, libero
pensiero, tradotto per la prima volta nel 1897, è qui rimpolpato per la prima
volta con la lettera, di lunghezza analoga, che inviò nel 1869 a Marie
Muchanoff, contessa Nesselrode, che ne desse conto agli amici e nel suo
circolo, per lamentare le critiche, vittima dei “giornali, non solo in
Gerrmania, ma anche in Francia e persino in Inghilterra”, e le resistenze dei
direttori dei teatri d’opera. Che il compositore attribuisce “agli ebrei”, agli
editori, direttori di teatro, giornalisti e musicisti ebrei, che non gli
perdonano la critica del giudaismo, di cui allega la copia. Leonardo V. Distaso,
che ha tradotto e cura la pubblicazione dei due scritti wagneriani, li dota di
un’ottima dettagliata contestualizzazione. Ricca di golosi dettagli. Basti quello
di Spontini, ricavato dall’autobiografia di Wagner. È il bello algido compositore marchigiano che, a Parigi, porta il tedesco all’antisemitismo “musicale”: fautore della “serietà
dell’arte”, gli spiega che gli italiani sono cochons, i francesi imitatori degli italiani, e i tedeschi rovinati
dagli ebrei.
Richard Wagner, Il giudaismo nella musica, Mimesis, pp.
171 € 15
martedì 21 luglio 2020
Il morbo cinese attacca il lavoro
La Massimo Zanetti Beverage inagura glamour a Shenzen, in Cina, la prima
caffetteria 24 ore completamente self-service, robotizzata. Come primo passo
nell’intelligenza artificiale. È una partenza sbagliata, come se il caffè fosse
uno smercio qualsiasi, e non un luogo di incontro e una pausa, un colloquio, sia
pure col cassiere e il barista. Ma è la Cina. E il modello che la Cina, retta
da un partito Comunista tra i più ferrei, a capo di un paese arretrato, con una
forza lavoro immane tenuta alla sopravvivenza, impone a un sprovveduto Occidente
di affaristi. Della presunta innovazione continua unicamente mirata non al
progresso scientifico o alla ricchezza di tutti ma allo svuotamento dell’Occidente
stesso nella sua valvola socio-economica rigeneratrice, la catena lavoro-accumulazione-investimento
(innovazione).
Il caffè robotizzato non è un caso. Pieranni del
“Manifesto” ha potuto passare una giornata interamente robotizzato, servito da WeChat,
come vanta in apertura al suo “Red Mirror”: ha fatto tutto per lui la super
app WeChat - la superapp cinese, tiene a precisare, che gli americani cattivi non riescono a replicare.
La “fabbrica del mondo” prospera sul lavoro
servile, nelle paghe e negli orari. Col plusvalore del quale insidia e svuota
l’onesta produzione occidentale, che il lavoro rispetta e retribuisce. Non è un
caso, è un progetto. Che la “fabbrica del mondo” prosperi arricchendo una
miriade di occidentali furbi, delocalizzatori o mediatori di affari, non dice
altro, semmai che il progetto è raffinato, ben articolato.
Il vero morbo cinese è l’umiliazione del
lavoro. Che è stato il volano del boom economico dell’Otto-Novecento: il lavoro
per tutti, a condizioni sempre più dignitose. Per proporre, dietro la vetrina
dell’intelligenza artificiale, un mondo di esseri senza arte né reddito. Alle condizioni delle sterminate masse popolari che il Partito Comunista Cinese ferreamente gestisce, che però vengono da secoli di fame, e di
sottomissione.
Mesto congedo di Camilleri
Una strenna Camilleri per gli affezionati. Una prima edizione speciale con le
due redazioni dell’“ultimo” Montalbano, del 2005, dallo scrittore
affettuosamente riservata a Elvira Sellerio, “la migliore amica”,
collazionata con una successiva, l’ultimissima, del 2016 (di questa l’editore
fa una pubblicazione a parte). Con una breve nota di Salvatore Silvano Nigro,
l’editor di Camilleri in casa
Sellerio, sulle variazioni tra i due testi, quasi tutte fonetiche – “un lavoro
da maestro lapicida, o miniaturista”.
La vicenda si risolve con
“mascherine bianche di quelle che portano medici e infermieri”, e con “guanti
di gomma”. Questo già nella prima versione, 2005. Ma nulla di profetico. Anche
se Montalbano si supera, quasi divinatorio. In contesa con il suo autore,
Camilleri, che lo importuna al telefono con critiche e suggerimenti. E affronta
un lungo, complicato, indovinello di filosofia con il vescovo..
Non il migliore Montalbano.
Camilleri mette insieme le sue due vene narrative, il racconto “di costumi”,
cioè di letto, e il giallo (il suo genere preferito era il romanzo storico, ma
si legge per questi due generi). Per un ordito più che altro arruffato, sia la
storia che i personaggi. “Riccardino” si ricorderà, oltre che per la simpatia
dell’autore a un anno dalla morte, per l’intromissione dell’Autore. Per la
quale i riferimenti pirandelliani naturalmente si sprecano. Mentre ha uno scopo
preciso: dire la sua sul rapporto dell’Autore col racconto cine-televisivo, e
con la critica.
I Montalbano sono due, anche se
quello scritto è inevitabilmente cannibalizzato da quello mediatico. Nulla di
scandaloso, precisa l’Autore, personaggi sdoppiati troviamo in Werfel, Jean
Paul, Maupassant, Poe, e in Raymond Roussel. Più precisa, e malinconica, la
contesa con la critica, amara benché il successo sia enorme, o per questo – la
ragione probabilmente perché Camilleri ha voluto che “Riccardino” fosse
pubblicato postumo. “Sono considerato uno scrittore di genere. Anzi, di genere
di consumo”, lamenta l’Autore. Che non controbatte, anche se insinua che sono
critiche invidiose: “Ma tu lo sai quanti, tra quelli che mi accusano di essere
un prodotto mediatico…vorrebbero disperatamente esserlo? Hai presente la storia
della volpe e l’uva?” Solo precisa: “Io semmai sono il risultato di un
passaparola tra i lettori”. Una cerimonia di addio, apprestata dallo stesso dipartente, che quindi commuove, a prescindere.
Andrea Camilleri, Riccardino. Seguito dalla prima stesura del
2005, Sellerio, pp. 276 + 286, ril. € 20
lunedì 20 luglio 2020
Ecobusiness 2
astolfo
Di
che parliamo quando parliamo di protezione dell’ambiente.
L’ambiente è in
cima alle “scalette” mondiali delle priorità, politiche e personali, e se
ne fanno convegni mondiali, dal Brasile a Parigi e a Madrid, ma solo come nuova
attività economica – promozionale di nuovi business.
Impegni solenni
cinque o sei anni fa a Parigi sul clima, e inquinamento moltiplicato
successivamente a casa. Negli Stati Uniti di Trump ma anche, e soprattutto, in
Cina, che continua a costruire centrali a carbone. E impone l’elettrico perché
ne costruisce, a grande inquinamento, le batterie. Materiale tossico, che sarà
alimentato dalle centrali a carbone.
Veleni
alimentari
È soprattutto
l’effetto dell’agricoltura, secondo il rapporto Onu-IPCC, Intergovernmental
Panel on Climate Change: delle coltivazioni intensive e sempre più estese,
anche se “la terra è scarsa”, per fare fronte a consumi più ampi e sofisticati,
con le crescita diffusa del reddito per effetto della globalizzazione. Al
secondo posto dopo i combustibili fossili, ma in più rapida crescita. E
soprattutto incontenibile, mentre sul consumo dei combustibili fossili si può
agire col contenimento dei consumi e le fonti di energia alternative. L’Ipcc
calcola che un quarto dell’effetto serra sia provocato direttamente
dall’agricoltura. Un’incidenza che arriva alla metà con la combustione per
cucina e conservazione (raffreddamento) degli alimenti.
Il consumo di
carne (l’allevamento) è tra i principali colpevoli del cambiamento climatico.
C’è la carne senza carne, di proteine vegetali. Riduce il colesterolo, e
l’effetto serra, ma introduce più grassi, e più sodio e più calorie, e i
tumori.
Una bistecca
inquina più di un’automobile – non è vero (i dati non sono comparabili) ma è
suggestivo: per ogni chilo di manzo si producono nella filiera a partire
dall’allevamento “fino a 60 kg di CO2”, equivalenti a venti litri di benzina
bruciati da una macchine di media cilindrata.
E l’acqua? Per
arrivare a un kg. di carne dal macellaio si utilizzano fino a 15 mila litri di
acqua.
Per un kg. di
riso 2.500 litri. Per uno di patate 500. Per un rotolo di carta da cucina
1.500.
Si sostituisce
il latte vegetale a quello animale. Consigliato come dietetico, il latte
vegetale, che all’80 per cento è acqua, si vende a due volte, e anche quattro
volte, il latte animale.
La chimica
nell’alimentazione ha moltiplicato le patologie, le specie e il numero – non
c’è alimentazione senza chimica, anche a coltivare personalmente
l’orto e tenere il pollaio. Ma questo non è materia del’Earth Day né delle
crociate di Greta né dei forum ambientalisti mondiali. Tanto meno degli accordi
internazionali per la riduzione dell’inquinamento.
Non c’è ricerca
sugli effetti della chimica sulla salute. Cesare Maltoni, l’oncologo bolognese
che si è dedicato a questi studi, analizzando la tossicità di oltre duecento
sostanze chimiche, è un isolato e quasi una bizzarria, meritevole di un
bio-doc, “Vivere che rischio”. La cancerogenesi dell’industria alimentare, che
è il solo fattore certo della diffusione dei tumori, è materia non trattabile.
Meglio il carbone?
Stati generali
del clima e impegni solenni a Madrid a fine novembre 2019. In un clima da fine
del mondo. Con India e Cina che moltiplicano le centrali a carbone, le più
produttive e meno costose. Le più inquinanti?
Le centrali a
carbone di Cina e India, che le moltiplicano malgrado gli impegni presi a
Parigi, potrebbero salvarci dall’effetto serra. Non è un paradosso e non è una
bufala: è un fatto. E significa che la polemica antindustriale con cui il business verde
o della sostenibilità si promuove è solo un aggiornamento delle guerre fra
monopoli industriali, e può fare danni.
Fino al 1975,
per almeno 35 anni, malgrado la guerra, la mobilitazione industriale bellica, e
e la superproduzione del lungo boom postbellico, anche sgangherata, senza
controlli delle emissioni, la temperatura terreste fu in diminuzione. Lieve, ma
allarmante. E misteriosa: l’ipotesi più accreditata fu che il particolato di
solfato rilasciato dal carbone riflettesse nello spazio l’energia del sole, la
rimandasse indietro. Ma incrementava le piogge acide. La decarbonizzazione ha
fatto sparire le piogge acide, ma contemporaneamente ha portato al rialzo la
temperatura del gloco.
Nel quasi mezzo
secolo dal 1975 la temperatura media è aumentata di poco più di mezzo grado, di
0,6° C. Non è poco ma non è allarmante. E gli studi più accreditati ne danno
merito –merito, nonm colpa - a una sola causa,
all’uso estensivo del carbone nei grandi paesi asiatici, da quando hanno
accelerato il decollo economico: India e Cina sarebbero leader
dell’antinquinamento con le loro centrali a carbone perché le imponenti
emissioni di solfato ritardano il riscaldamento da gas serra.
Uno studio, che
porta la firma di otto ricercatori di vari paesi, pubblicato sull’autorevole
“Geophysical Reserach Letters”, “Climate Impacts from a Removal of
Anthropogenic Aerosol Emissions”, si conclude con questa minaccia: “La
rimozione dell’insieme delle emissioni aerosol del mondo potrebbe aggiungere
0,7°C alle temperature globali”.
Concertistica e bandiere
I Coldplay
dicono “basta concerti”, inquinano. Per vendere il nuovo disco?
Lo stesso
Jovanotti: prima fa i concerti sulle spiagge poi dice stop ai concerti. Che in
inverno, certo, non si possono fare.
Pioggia di bandiere blu, quest’anno come
ogni anno, di Legambiente per i mari toscani, per la quasi totalità
infrequentabili, per affluenti sporchi, a cominciare dal Versilia, e altri
scarichi. Con il record italiano, mediterraneo, europeo e forse mondiale,
di microplastiche nel mare, lungo le coste e nell’arcipelago toscano, portate
dai fiumi, Arno compreso – più inquinato del Po e del Tevere. Vecchia
complicità Pci – la Toscana è l’ultima roccaforte?
Quest’anno bandiera blu anche per Marina
di Carrara. Che si apprestava a farne celebrazione quando grossi topi di fogna
si sono segnalati tra le scogliere artificiali a protezione del (residuo)
arenile.
Finis aquae
Si finanziano
abbondantemente a fondo perduto le fonti di energia “rinnovabili”, biomasse,
voltaico, eolico, che tutte sono comunque inquinanti, qualcuna anche più dei
combustibili fossili, e costano un’enormità. Si vede in Italia, dove la
decarbonizzazione si riduce invece di incrementarsi, malgrado gli enormi
sussidi.
Si annuncia la fine dell’acqua, che non
può finire, per farla pagare il doppio – come si specula sulla fine del
petrolio, che invece è strabbondante, per farlo pagare come l’oro. Speculano
sull’acqua Comuni e Acquedotti consortili che mediamente sprecano metà dell’acqua catturata agli invasi.
L’acqua pubblica
è più che raddoppiata di prezzo dopo il referendum nove anni fa, nel maggio
2011. Si fa pagare il terrorismo ecologico sulla “fine dell’acqua” – che è una
scemenza. Invece di riparare le condotte e razionalizzare le sorgenti, le prese
d’acqua. Si specula, i Comuni speculano, su una paura, invece di riparare il
danno – metà dell’acqua prelevata alle sorgenti, montagna, fiumi, laghi, si
disperde nelle tubature prima di arrivare ai rubinetti.
Quanta acqua non si spreca per
pulire i rifiuti da raccolta diversificata, plastiche, vetri?
La “differenziata” non è una soluzione. Costa
– le tariffe sono poco meno che raddoppiate. Si fa con spreco di tenpo, di
acqua, e di calore, per ripulire vetri e multimateriali.
Scoppiati
L’Italia è al
primo posto in Europa - dati Aea, Agenzia europea per l’ambiente - per morti
premature da biossido di azoto, prodotto principalmente dai motori diesel:
14.600 nel 2018.
L’Italia ha
anche il più alto numero – dopo la Germania, che ha però una popolazione di 82
milioni – di decessi prematuri causati dal particolato fine PM2,5,
le polveri sottili: 58.600 nel 2018. L’Italia muore di particolato pur avendo
un clima relativamente mite: due quinti del particolato, il 38 per cento, è
l’effetto del riscaldamento. Il 22 per cento è prodotto in campagna, dagli
allevamenti e le colture. Il 16 per cento è l’effetto della circolazione
stradale, compresi i carichi pesanti.
Non c’è salvezza
– è il secolo della paura? Con la paura si governa meglio.
La promozione
dell’entusiasmo è magistrale, la narrazione deviata
Si sbandierano
calcoli del genere: “Metà della plastica esistente oggi è stata prodotta negli
ultimi quindici anni”. O: “Nel 1950 la produzione di plastica era di
2,3 milioni di tonnellate, nel 2015 di 448 milioni. Si prevede che raddoppi
entro il 2050”. Ma non si dice che non si beve acqua se non “minerale”,
soprattutto al ristorante: non ce n’è altra. Trent’anni fa si beveva acqua
corrente. Si beve anche sule Alpi, sull’Appennino tosco-emiliano, su mondi
della Laga, acqua in bottiglia, di plastica. Molte famiglie sono passate
all’acqua da bere “minerale”, cioè nella plastica. Né si può compare niente al
banco alimentari del supermercato se non avvolto in triplice involucro di
plastica. Spesso servito con guanti indossati ad hoc.
Viviamo
compiaciuti, tra modelli superpromozioanti, all’epoca dei Suv. Macchine
inutili, che ingombrano tre e quattro volte la dimensione utile, consumano il
doppio, producono emissioni e polveri come un autobus. Per portare il bambino a
scuola la mattina.
Il Suv è al
centro delle strategie di fabbricazione – l’Alfa Romeo è in crisi perché non ha
ancora un Suv.
Ma tutte le
macchine sono cresciute di peso e dimensioni, a nessun effetto – la sicurezza,
si dice, ma gli incidenti non sono meno onerosi: basta paragonare la vecchia
Cinquecento alla nuova. Con doppio-triplo ingombro su strada, doppie-triple
emissioni nocive, doppio-triplo consumo di materiali, gomme, plastiche,
metalli, vernici.
Quanta CO2
inutile non si butta nell’atmosfera – se è sua la colpa dell’effetto serra –
per avere il termosifone a 130 gradi, il condizionatore in ogni stanza, la
lavapanni e la lavastoviglie sempre in funzione? Vent’anni fa non c’erano i
condizionatori, e non si moriva di calore. Neanche quindici anni
Le risorse fossili
sono in esaurimento ma per effetto della globalizzazione. L’urbanizzazione
accelerata della Cina per effetto dalla globalizzazione – manodopera in città –
ha consumato più sabbia per l’edilizia di quanta ne abbiano consumato gli Stati
Uniti dalla fondazione due secoli e mezzo fa.
Flygskam e
tagskryt, vergogna di volare e vantarsi di andare in treno, sono due hashtag in
voga in Svezia per per dirsi impegnagti nella riduzione delle emissioni di
anidride carbonica. Come se il treno non viaggiasse con l’elettricità, che una
centrale termica deve produrre. E non producesse con al frizione nuvole di
particolato e altre emissioni nocive, metalliche. Mentre della Co2 in fondo
viviamo.
“Io compenso
sempre le mie emissioni di andride carbonica” è la nuova frontiera delle
ecofavole. Anche se immobili non possiamo stare. Far scorrere l’acqua dal
rubinetto produce CO2, anche mandare un sms. Alimentarsi ne produce molto di
più: due chili per un bicchiere di vino, tre per una bistecca. Andare in
macchina – o in treno – ne produce ovviamente molto di più.
L’ecofriendly preferisce
la doccia al bagno, per ridurre l’emissione, non copre i termosifoni, usa un
solo condizionatore per la tutta la casa, sbrina speso il freezer…. E pianta
alberi. Questo è già un business, fiorente: ci sono onlus
specializzate nel piantare alberi per noi, in Italia e all’estero, per un fee,
mdesto naturalmente. Phoresta Onlus offre anche “servizi ecosistemici” –
“Paghiamo, per esempio, per rimandare il taglio di un bosco da legna di dieci
anni”, spiega il titolare.
Quel che resta di Parigi
Inverosimili
copricapi d’inverosimili capi indiani e vecchi beatnik col
codino declinano la morte del pianeta a Parigi. Declinavano qualche tempo fa,
già cinque o sei anni. Ma la kermesse non è stata di parata, dietro il folklore
c’è un business solido. Soprattutto tutti sono – erano - contenti coi cento
miliardi da spendere nei paesi del “Terzo mondo” – a Parigi c’era ancora il
Terzo mondo… Che poi non sono stati spesi.
La morte del
pianeta sarebbe evitata nell’immediato, e di colpo, abolendo il motore a
scoppio: basterebbe l’idrogeno, o altra miscela non fossile, e l’aria torna
subito pulita, il surriscaldamento stoppato. Ma questo non era in agenda, non
si fanno ricerche di combustibili alternativi. Si investe – soldi pubblici –
per ridurre le emissioni nocive dopo averle prodotte e non per evitarne la
produzione. Il resto – la deforestazione, le mascherine, etc. - serve a duper
le bourgeois, sempre tenero di cuore, perché apra il portafoglio contento.
Gli obiettivi
restano vaghi, gli impegni imprecisi, tutto ciò che serve è creare un po’ di
panico che giustifichi presso l’opinione pubblica l’impegno di ingenti risorse
pubbliche per il business. Obama lo ha detto all’apertura:
“Mostriamo agli affari e agli investitori che l’economia globale è sul cammino
stabile per un futuro a basso carbonio. Ci sono centinaia di miliardi di
dollari pronti all’uso in giro per il mondo se avranno il segnale che abbiamo
intenzioni serie. Mandiamo quel segnale”. Era
questo il messaggio del primo presidente americano che lanciò l’industria
dell’antinquinamento: Nixon, appena eletto, fine 1968.
A
Obama ha fatto eco a Parigi l’allora segretario dell’Onu Ban-ki-moon: “Affari e
investitori si aspettano un forte accordo a Parigi che mandi al mercato i
giusti segnali”. E l’allora segretario di Stato Kerry il giorno successivo:
“Quello che stiamo facendo è mandare al mercato un segnale straordinario”.
(continua)
Scoppiati
L’Italia è al
primo posto in Europa - dati Aea, Agenzia europea per l’ambiente - per morti
premature da biossido di azoto, prodotto principalmente dai motori diesel:
14.600 nel 2018.
L’Italia ha
anche il più alto numero – dopo la Germania, che ha però una popolazione di 82
milioni – di decessi prematuri causati dal particolato fine PM2,5,
le polveri sottili: 58.600 nel 2018. L’Italia muore di particolato pur avendo
un clima relativamente mite: due quinti del particolato, il 38 per cento, è
l’effetto del riscaldamento. Il 22 per cento è prodotto in campagna, dagli
allevamenti e le colture. Il 16 per cento è l’effetto della circolazione
stradale, compresi i carichi pesanti.
Non c’è salvezza
– è il secolo della paura? Con la paura si governa meglio.
La promozione
dell’entusiasmo è magistrale, la narrazione deviata
Si sbandierano
calcoli del genere: “Metà della plastica esistente oggi è stata prodotta negli
ultimi quindici anni”. O: “Nel 1950 la produzione di plastica era di
2,3 milioni di tonnellate, nel 2015 di 448 milioni. Si prevede che raddoppi
entro il 2050”. Ma non si dice che non si beve acqua se non “minerale”,
soprattutto al ristorante: non ce n’è altra. Trent’anni fa si beveva acqua
corrente. Si beve anche sule Alpi, sull’Appennino tosco-emiliano, su mondi
della Laga, acqua in bottiglia, di plastica. Molte famiglie sono passate
all’acqua da bere “minerale”, cioè nella plastica. Né si può compare niente al
banco alimentari del supermercato se non avvolto in triplice involucro di
plastica. Spesso servito con guanti indossati ad hoc.
Viviamo
compiaciuti, tra modelli superpromozioanti, all’epoca dei Suv. Macchine
inutili, che ingombrano tre e quattro volte la dimensione utile, consumano il
doppio, producono emissioni e polveri come un autobus. Per portare il bambino a
scuola la mattina.
Il Suv è al
centro delle strategie di fabbricazione – l’Alfa Romeo è in crisi perché non ha
ancora un Suv.
Ma tutte le
macchine sono cresciute di peso e dimensioni, a nessun effetto – la sicurezza,
si dice, ma gli incidenti non sono meno onerosi: basta paragonare la vecchia
Cinquecento alla nuova. Con doppio-triplo ingombro su strada, doppie-triple
emissioni nocive, doppio-triplo consumo di materiali, gomme, plastiche,
metalli, vernici.
Quanta CO2
inutile non si butta nell’atmosfera – se è sua la colpa dell’effetto serra –
per avere il termosifone a 130 gradi, il condizionatore in ogni stanza, la
lavapanni e la lavastoviglie sempre in funzione? Vent’anni fa non c’erano i
condizionatori, e non si moriva di calore. Neanche quindici anni
Le risorse fossili
sono in esaurimento ma per effetto della globalizzazione. L’urbanizzazione
accelerata della Cina per effetto dalla globalizzazione – manodopera in città –
ha consumato più sabbia per l’edilizia di quanta ne abbiano consumato gli Stati
Uniti dalla fondazione due secoli e mezzo fa.
Flygskam e
tagskryt, vergogna di volare e vantarsi di andare in treno, sono due hashtag in
voga in Svezia per per dirsi impegnagti nella riduzione delle emissioni di
anidride carbonica. Come se il treno non viaggiasse con l’elettricità, che una
centrale termica deve produrre. E non producesse con al frizione nuvole di
particolato e altre emissioni nocive, metalliche. Mentre della Co2 in fondo
viviamo.
“Io compenso
sempre le mie emissioni di andride carbonica” è la nuova frontiera delle
ecofavole. Anche se immobili non possiamo stare. Far scorrere l’acqua dal
rubinetto produce CO2, anche mandare un sms. Alimentarsi ne produce molto di
più: due chili per un bicchiere di vino, tre per una bistecca. Andare in
macchina – o in treno – ne produce ovviamente molto di più.
L’ecofriendly preferisce
la doccia al bagno, per ridurre l’emissione, non copre i termosifoni, usa un
solo condizionatore per la tutta la casa, sbrina speso il freezer…. E pianta
alberi. Questo è già un business, fiorente: ci sono onlus
specializzate nel piantare alberi per noi, in Italia e all’estero, per un fee,
mdesto naturalmente. Phoresta Onlus offre anche “servizi ecosistemici” –
“Paghiamo, per esempio, per rimandare il taglio di un bosco da legna di dieci
anni”, spiega il titolare.
Quel che resta di Parigi
Inverosimili
copricapi d’inverosimili capi indiani e vecchi beatnik col
codino declinano la morte del pianeta a Parigi. Declinavano qualche tempo fa,
già cinque o sei anni. Ma la kermesse non è stata di parata, dietro il folklore
c’è un business solido. Soprattutto tutti sono – erano - contenti coi cento
miliardi da spendere nei paesi del “Terzo mondo” – a Parigi c’era ancora il
Terzo mondo… Che poi non sono stati spesi.
La morte del
pianeta sarebbe evitata nell’immediato, e di colpo, abolendo il motore a
scoppio: basterebbe l’idrogeno, o altra miscela non fossile, e l’aria torna
subito pulita, il surriscaldamento stoppato. Ma questo non era in agenda, non
si fanno ricerche di combustibili alternativi. Si investe – soldi pubblici –
per ridurre le emissioni nocive dopo averle prodotte e non per evitarne la
produzione. Il resto – la deforestazione, le mascherine, etc. - serve a duper
le bourgeois, sempre tenero di cuore, perché apra il portafoglio contento.
Gli obiettivi
restano vaghi, gli impegni imprecisi, tutto ciò che serve è creare un po’ di
panico che giustifichi presso l’opinione pubblica l’impegno di ingenti risorse
pubbliche per il business. Obama lo ha detto all’apertura:
“Mostriamo agli affari e agli investitori che l’economia globale è sul cammino
stabile per un futuro a basso carbonio. Ci sono centinaia di miliardi di
dollari pronti all’uso in giro per il mondo se avranno il segnale che abbiamo
intenzioni serie. Mandiamo quel segnale”. Era
questo il messaggio del primo presidente americano che lanciò l’industria
dell’antinquinamento: Nixon, appena eletto, fine 1968.
A
Obama ha fatto eco a Parigi l’allora segretario dell’Onu Ban-ki-moon: “Affari e
investitori si aspettano un forte accordo a Parigi che mandi al mercato i
giusti segnali”. E l’allora segretario di Stato Kerry il giorno successivo:
“Quello che stiamo facendo è mandare al mercato un segnale straordinario”.
(continua)
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