sabato 15 agosto 2020
Problemi di base cinesi storici - 588
Grande Fratello horror
Un rapimento, triplice, di tre sconosciuti,
che si ritrovano dentro una caverna profonda e fredda, alla luce di una lampada
da speleologo, con tre avvisi minacciosi: “chi sarà il bugiardo?”, “chi sarà
il ladro?”, chi sarà l’assassino?”, un paio di lettere enigmatiche del presunto
rapitore, e un cadavere senza testa, di qualcuno che se l’è fatta saltare.
Un Grande Fratello horror. Si
parla infatti molto. Nella stessa artificiosa claustralita. Con intermissioni e commenti descrittivi borderline, di Platone naturalmente, lo scrittore polacco Slavomir Rawicz, Simon and
Garfunkel, Jack London, Marcel Bleustein-Blanchet (“Ci sono uomini che la prova
rivela e ai quali la difficoltà serve da trampolino”…), Piers Paul Read, Max
Beck, Reinhold Messner e molti altri – tutti veri, Beck è il teorico americano dell’intersex, ma qui è il Grande Amico Rivale in amore. Più Verne, che deve aver dato lo spunto. Ma
non c’è suspense, nemmeno personaggi,
nemmeno alla Grande Fratello.
Nella caverna si gela, a rischio assideramento. Da qui cominciano gli orrori. Uno dei tre è stato rapito
insieme col cane, un cane lupo, che “può tornare ai suoi istinti predatori”,
carnivori, o essere divorato. Si chiama Jonathan Touvier, ha tutte le ossa rotte, alpinista per passione.
È il narratore, quindi sappiamo anche
che è sopravvissuto. Ma l’unica vertigine che procura è quando rimemora, a intervalli, che doveva accompagnare la moglie, leucemica, all’incontro col
donatore di midollo.
Peggio di tutto è il finale, quando il Grande Fratello si trasforma in una clinica psichiatrica. Si direbbe uno sberleffo dello scrittore ai suoi lettori, un vaffa.
Franck Tilliez, Vertige, Pocket, pp. 345 € 8
venerdì 14 agosto 2020
A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (433)
Giuseppe Leuzzi
“Camorro” è persona fastidiosa in toscano – parola desueta ma la riporta Fucini nelle “Veglie di Neri”, p. 90. Un significato che attesta ancora “camurria” in siciliano – in Camilleri e nella parlata comune (“camorra” è spagnolo per lite, zuffa). Ora mitizzato da Sky e i Carabinieri.
“Alta Velocità al Sud”, “Da Roma a Palermo
galleria sotto lo Stretto”, “Cantieri al Dud”, non manca mai il Sud nelle
allocuzioni del duo pugliese, levantino?, Conte-Casalino. Ma la notizia è
questa: “Ripartono i cantieri. Alta Velocità subito al Nord. Firmati i contratti
per la Verona-Padova”. Cioè, il Sud è imbecille?
C’è, in un paio di racconti “toscani” di
Renato Fucini tra le “Veglie di Neri”, qualcuno che arrivando dal Nord dà “in
giro un’occhiata di sgomento”. Giungendo in borghi isolati ma pur sempre meta
nella buona stagione di “villeggianti a popolare di festose brigate la dolce
malinconia dei colli toscani”.
Lo spaesamento in chi viene dal Nord si
connota di superiore delusione. Già negli anni delle “Veglie”, 1870.
Nel decreto del governo Conte del mese di
agosto sono previsti incentivi per chi mantiene o crea lavoro al Sud. Il
decreto non è ancora precisato, ma l’onorevole Maurizio Martina è preoccupato:
non vorrebbe che si creassero risentimenti al Nord. Martina era il segretario
del partito Democratico prima di Zingaretti. Si capisce che il Pd fosse sotto
il 20 per cento. Alla pari con Salvini.
Si dividevano il Nord? No, Salvini al
Nord prendeva di più. E anche al Sud.
Il
problema del Sud è il Nord
Fra i politici ricchi (parlamentari e
consiglieri regionali) che hanno chiesto il sussidio Covid non ci sono i
meridionali. Sciascia direbbe che la “linea della palma” è salita fino alle
Alpi. Ma si è tagliata
la coda?
Il problema del Nord è il Sud, ma
il
problema del Sud è il Nord.
Non si risolve la questione meridionale
in Italia – solo in Italia, fra tutte i paesi del mondo in un cui un’area è
economicamente depressa – perché il Nord è fatto così, avido e presuntuoso.
Il
razzismo è involontario
Una “vergogna nazionale”, e “il pericolo
manifesto di espansione e di contagio per le altre province d’Italia” Renato Fucini
sente di dover minacciare da Napoli – siano a fine Ottocento. Da dove pure
scrive cronache non prevenute. Invitato in città, dove conoscerà Giustino
Fortunato, da Pasquale Villari. Le corrispondenze sono per la “Rassegna
settimanale” fiorentina di Franchetti e Sonnino, molto attenti al Meridione, poi
(1877) confluite in “Napoli a occhio nudo”. Il rifiuto è a pelle, malgrado i
buoni propositi. Quando la differenza è pregiudiziale – razzista. Fucini aveva
contatti e strumenti per capirne di più, e li ha utilizzati, ma non è suo agio:
il razzismo è per i più involontario, risponde a un pregiudizio ambientale – l’effetto
Lega.
Il
tunnel – il Sud - è una sciocchezza
Ultimo venne Conte con la novella del
tunnel nello Stretto di Messina. Che dovrebbe correre, fa sapere l’ufficio
stampa di palazzo Chigi, fra 200 e 300
metri sotto il livello del mare, dato che lo Stretto è profondo fino a 250
metri, e il tunnel sottomarino deve avere una solida copertura terrestre sopra
il capo – il tunnel sotto la Manica corre a 50 metri sotto il fondale.
Non c’è da preoccuparsi, è una delle battute con cui si riempie il vuoto del Sud. Si vede che bastano per
raccogliere voti al Sud, e questo è preoccupante, anzi è agghiacciante -
equivale a dire che il Sud è il Sud, un mondo di scemi, e non ne parliamo più.
Ma, giusto per potesi, è un tunnel che dovrebbe partire, dalla parte della
Calabria, da Gioia Tauro, per arrivare alla profondità di 300 metri sotto il
mare a Punta Pezzo (Villa). Oppure partire da Locri- Gioiosa Jonica, perforando
l’Aspromonte, seppure in discesa, ma questa soluzione non lascerebbe in sospeso
il problema: con chi collegare il tubo, con quale Alta Velocità? A meno che non
si pensi di collegarlo alla rotta dell’antica Magna Grecia, ora riaperta dai
barconi turchi coi migranti dall’Asia.
Sul versante siciliano, il tubo dovrebbe
rispuntare verso Milazzo. Oppure, volendolo indirizzare verso Catania, risalire
gradualmente sotto i Peloritani, le montagne di Messina.
La cosa si può immaginare di Casalino,
il brain washer di Conte, e cioè una
battuta come un’altra per tenere l’attenzione attorno al suo Capo, per due o
tre giorni. Il Ferragosto è difficile da riempire, si può capire. Ma al Sud è
presa sul serio. E comunque non c’è altro.
fa, perché lo Stretto è fortemente
sismico.
Il
leghismo, la fine delle identità
Si ricordano con rammarico le esperienze
storiche recenti di coabitazioni tra popoli diversi, religioni, lingue,
culture, che arricchivano tutti: la Galizia di Joseph Roth, finita con la
Grande Guerra, Serajevo ancora a fine
Novecento. Il leghismo non fu così letale - oppure sì, a Milano il disprezzo fu
percepibile. Ora si traveste, o ha cambiato interessi, ma è stato la fine di un
modo di essere. Per chi, noi, di Milano conosceva ogni pizzo, perfino la
programmazione del Pasquirolo, che era un cinema. Ma, poi, per ognuno, compresi
gli stessi milanesi: la dine di un’idea di cultura. Di una cultura.
Milano, luogo della ricchezza, benché
leghista, ha continuato a essere polo di attrazione per molti, per commerci e carriere. Ma come una
prigione per ricchi a cieli aperti, non una patria o una cultura, un modo
d’essere. Che cultura ha dato Milano leghista, ora più che quarantenne?
O sì, si è fatta ed è scuola di
depersonalizzazione. Della famiglia lungimirante di oggi, che manda i figli
alle scuole inglesi o americane (nate appositamente….), e poi ai licei in
Inghilterra o in America, e poi all’università, in Inghilterra, negli Usa, sia
pure a Leeds o a San Antonio, dopo averli deprivati di una lingua, nonché della
stessa famiglia, e della religione solitamente, della storia, di una tradizione
– per averli poi non nel mainstream
del mondo ma, uno su due, disoccupati e senza arte, dopo avere investito
qualche milione, e senza carattere.
Aspromonte
Alvaro castratore – il grande scrittore
è un castratore? Alvaro ingombra la Calabria più che non la sorregga o la
illustri. Alvaro è molte cose, e molto ha da dire e insegnare dei suoi anni,
dei mondi che ha conosciuto, della dirittura morale. Ma l’Aspromonte giace
sotto i suoi racconti.
Molti nello stesso Aspromonte se ne
fanno materia e scudo. È così che la Montagna gentile aperta sui mari, i suoi
boschi colorati, ulivo, castagno, pino, faggio, verde e rosso, abete, l’aria
secca, salubre, variamente profumata, è solo quella, arcigna e violenta, dei
racconti di Alvaro. Solo aggiornata: anche le Madonne sono ora nere,
delinquenziali.
“Giuseppe Dessì mi diceva che da giovane
aveva odiato Grazia Deledda”, racconta Carlo Cassola in uno scritto contro il
“toscanismo”, “sembrandogli disperata l’impresa di far apparire la Sardegna
diversa da come l’aveva fatta apparire la famosa scrittrice”. Succede dei mondi
chiusi, una specie di gelosia, di appartenenza esclusiva e reclusiva, senza più
aperture, senza più divenire. Chiusure che si vogliono realistiche, e invece
sono traditrici. Forti, ma della proiezione fantasmatica, dei propri umori. Più
contagiosi e letali se depressivi.
Il
protagonista di Gautier, “Jettatura”, che sarà vittima a Napoli della
jettatura, si chiama Paul d’Aspremont. Non per un motivo particolare. Tutto il
racconto, ambientato a Napoli attorno a una giovane inglesina, Alicia Ward,
“educata con una grande libertà di spirito filosofica, che non ammetteva nulla
senza un esame”, è incongruo. Un giovane napoletano , il conte d’Altavilla,
s’ingegna a convincerla che ci sono poteri occulti, la jettatura. La Miss
resiste. Se non che, quando arriva a Napoli il fidanzato, Paul d’Aspremont, le
cose prendono a girare male. Incongruo anche il nome francese, Paul
d’Aspremont, per un nobile inglese. Ma Aspremont è usato con una certa
frequenza nelle lettere francesi.
Il turismo non c’è, è il pregio oggi più
apprezzato - rari anche i trekkers,
rarissimi. Eccetto che, nella buona stagione, quello potabile. L’acqua buona è
una fissa e si fanno viaggi di ore per riempire batterie di bottiglie alle
sorgenti.
Una passione di molti quarti, risalendo
a Corrado Alvaro, Perri, e precedenti. E generosamente compensata dalla sorgenti:
delle Vile sopra Polsi, di Bocali o Fontanelle, di Materazzelle, della Prena
(pregna, di femmina incinta). Francesco De Cristo ne tentò l’elenco in
“Vagabondaggi sull’Aspromonte”, 1932.
Lampedusa concorda - “Gattopardo”, p. 223:
“«Non c’è che l’acqua a essere davvero buona», pensò da autentico siciliano”. Ma ha rubato la
battuta al calabrese.
Non c’è solo Alvaro, una letteratura
ormai lunga ha fatto dell’Aspromonte una montagna lugubre. Ma, soprattutto,
l’Aspromonte si segnala per essere, tra tutte le montagne probabilmente
d’Italia, la meno esplorata. Dai suoi abitanti: la meno conosciuta. Non nella
toponomastica, non nei sentieri, le valli, i picchi, le vedute, le stesse
acque, il luogo di culto, Polsi, probabilmente con più continuità in Europa da
due millenni e mezzo, i monumenti. Sì, ci sono nell’Aspromonte ancora
monumenti, dopo i tanti terremoti, brezzii (o bruzi), basiliani, normanni.
Nemmeno classificati, nonché non restaurati o comunque messi o indicati in
fruizione, dei curiosi, dei camminatori. La “Chanson d’Aspremont”, capostipite
della chanson de geste in Italia,
fine XII secolo, è nota solo a
Carmelina Siclari, che l’ha studiata all’università. Non sono classificate le
specie arboree, la flora, le erbe, gli animali, benché il Parco esista da
alcuni decenni. Ne sappiamo qualcosa attraverso un saggio-racconto di Corrado
Alvaro ragazzo – segno che un secolo fa ancora la Montagna era nota, poi è
stata cancellata.
leuzzi@antiit.eu
Assurdo è vero
Dalla scepsi all’assurdo. Molto prima,1937, del teatro
dell’assurdo, di Ionesco, Beckett (ma contemporaneo di Pirandello, del pirandellismo). E prima
di Sartre, dell’esistenzialismo francese,
più voga che pensiero, che passava per filosofa
dell’assurdo – la verità dell’assurdo è pur sempre una verità. Ma di miti propositi, benché sotto le insegne
di Leopardi, Budda, Schopenhauer. “Questo libro è l’illustrazione d’una visuale: d’una
visuale scettica e pessimista”, Rensi onesto dichiara alla prima riga.
Giuseppe Rensi, La
filosofia dell’assurdo, Adelphi, pp. 230 € 13
free online
giovedì 13 agosto 2020
Problemi di base cinesi capitalistici - 587
spock
Perché la ricchezza è facile in Cina mentre noi dobbiamo
stringere la cinghia?
È il miracolo del comunismo – il paradiso in terra?
O è questione di capitalismo: quello cinese comunista è più produttivo di
quello occidentale borghese?
È un capitalismo più efficiente, sfrutta meglio il lavoro –
una ricchezza basata sul plusvalore (a Marx faranno male le orecchie, avendo
sbagliato tutto)?
Bisogna perciò abolire i media e il sindacato?
Che aspettiamo, c’è bisogno di Pechino per questo?
spock@antiit.eu
Il miglior Dio è dell’ateismo
L’ateismo come la religione
delle religioni, la religione suprema, il meglio della religiosità. Una tesi
assurda, ma il filosofo dell’assurdo prima della filosofia dell’assurdo non manca
di argomenti, naturalmente.
Nulla di scandaloso. È
argomento non nuovo che le chiese (il sacerdozio, le confessioni, le teologie,
i testi sacri) oscurino Dio. Rensi lo sostiene
lo sostiene nel quadro suo specifico di una morale anti-utilitaristica.
Nel quale la religione si può apprezzare in quanto espressione della “follia”
erasmiana, senza conto del dare ed avere. Con argomentazioni piane,
discorsive.
“Lucido e corrosivo” lo vuole
Nicola Emery aprendo la presentazione (“Terapia dell’ateismo”). Ed è anche vero
che Rensi, su cui Sciascia sosteneva di essersi formato, il punto di riferimento
tra le due guerre (non Croce, non Gentile?), è il filosofo italiano più in
stampa – più in domanda? – con una dozzina di libri ripubblicati nell’ultimo paio
di decenni.
Una riflessione già scritta,
forse nello stesso 1923 quando Gentile decretava il cattolicesimo religione di
Stato, ma pubblicata a ridosso dell’asserzione di Mussolini che “il fascismo
non è ateo, è un esercito di credenti”. Rensi la volle pubblicata, insistendo
per questo con l’editore Formìggini perplesso, nella collana “Apologia delle
religioni”. L’ateismo sostenendo una forma religiosa, anzi “la più alta e pura
di tutte le religioni”.
Anche Freud qualche anno
dopo, 1927, ricorda Emery, partendo anche lui da Schopenhauer, nell’“Avvenire di un’illusione” elabora, sì,
la genesi psichica delle credenze religiose, ma le definisce “illusioni”, per
un bisogno di “appagamento del desiderio” anche fuori dal “rapporto con la
realtà”.
Giuseppe Rensi, Apologia dell’ateismo, Castelvecchi, remainders, pp. 128 € 6
mercoledì 12 agosto 2020
Problemi di base cinesi, virali - 586
spock
La Cina è dunque immune al coronavirus?
Allora è vero, che è un virus cinese da esportazione?
O la Cina se la è inventata Trump?
O ci vuole un regime duro contro i virus?
Con prigioni su misura, per i portatori, anche
asintomatici?
C’è il virus animale e c’è quello mentale, altrettanto
micidiale?
spock@antiit.eu
Cronache dell’altro mondo - 69
Il partito Repubblicano, il partito del
presidente Trump, è stato fondato nel 1854 a Ripon, nel Wisconsin, in opposizione
al Kansas Nebraska Act, cioè alla perpetuazione dello schiavismo, giacché lo
estendeva al di sopra del 36mo parallelo, violando il compromesso del Missouri
del 1820, che invece lo vietava al di sopra di quella latitudine.
La legge Kansas Nebraska creava i due nuovi
stati per farci passare la ferrovia a Ovest, verso la California.
Il partito Democratico ha cessato di essere
segregazionista solo nel 1964, dopo la morte del presidente Kennedy, quando il
suo successore Lyndon Johnson, ex governatore del Texas, firmò il Civil Rights
Act, alla presenza di Martin Luther King. Da allora, gli Stati del Sud votano repubblicano.
Il candidato Democratico alle
presidenziali di novembre, Joe Biden, ha scelto come vice Kamala Harris, che è
afro-americana e poliziotta pura e dura. Da procuratrice distrettuale a San
Francisco, e poi da procuratrice generale della California, è famosa per aver
difeso – col temporeggiamento, le omissioni, i rinvii – la polizia accusata di
abusi, e per il mancato riconoscimento, in alcuni casi celebri, dei diritti
dell’accusato per ingiuste condanne. La partita in America è tutta Law and
Order - a chi ce l’a più duro, direbbe
Bossi.
In realtà, Kamala Harris è indiana, di casta bramina, la più ricca, elevata, e comunque dominante in India. E con quel tanto che ha di afro, il padre giamaicano, è in lite: il padre la accusa di razzismo. Era in lite anche con Biden, cui fino a un paio di mesi fa si riferiva come a un vecchietto razzista.
Le
agenzie americane d’informazione , cioè le agenzie di spionaggio e
controspionaggio, non si applicano a prevenire attacchi ostili, ma ad
analizzare il “voto” delle potenze estere nelle elezioni nazionali. Lo hanno fatto
nel 2016, quando denunciarono la Russian connection,
provocando poi il Russiagate, il processo ai rapporti Trump-Putin, finito nel
nulla. Ora affermano che c’è chi sta per Trump (Russia) e chi per Biden (Cina).
Il direttore del National Counterintelligence and Security Center, Bill Emina, che
coordina le agenzie di spionaggio, si limita a registrare gli attacchi della
Russia a Biden e della Cina a Trump. Un notaio.
Curioso
per una democrazia, ma è quello che avviene in America. Dove peraltro le
agenzie di spionaggio sono sedici. Cioè, sono agenzie politiche, politicizzate,
pro o contro questo e quel politico americano. Lavorano, in regime (presuntamente)
elettivo, un po’ come l’ex Kgb in Russia, che ha avviato e controllato la
desovietizzazione del Paese, se ne è appropriata e tuttora si ritiene controlli
l’economia e il Paese.
Ma il mondo delle "veglie" è ancora vivo
Neri (“Neri Tanfucio” è
pseudonimo di Renato Fucini, il nome d’esordio) è cacciatore, e dalle sue
camminate ricava storie, del vario mondo che incontra. Argute, ma per lo più
compassionevoli, di povertà, di fame perfino, di malattie, di morte. Sulla scia
probabilmente, comunque dopo il successo internazionale, delle “Memorie di un
cacciatore” di Turghenev – che si dice abbiano spinto lo zar Alessandro II a
liberare i servi della gleba. O di Auerbach, Berthold, l’autore dei “Racconti
rusticani della Foresta Nera”, appena tradotti con successo, nel 1869, proprio
a Firenze.
Insomma, il genere andava, negli
anni 1870-1880. In una vena leggera nel caso di Fucini. “Scrittore
sollazzevole” lo dice Luigi Russo all’avvio del breve revival dello scrittore toscano dopo la guerra - cui “Belfagor”, la
rivista dello stesso Russo, dedicò un numero nel 1960 - che culminerà nel 1963
con la pubblicazione delle opere nei Classici Mondadori. E sempre con un occhio
pietoso per la povertà e la disgrazia - “Fucini era un reazionario” scrive
Cassola irato nella presentazione di questa edizione, ma dai racconti non si
vede dove.
Le “Veglie” perfezionano il gergo
toscano per cui Fucini diventò un’icona – e forse è la lingua che ha messo
Cassola di malumore, essendo egli contrarissimo alla “toscanità”, poi di
Papini, Mapalarte, il primo Palazzschi, che dice una gabbia per gli scrittori
toscani, lui personalmente volendosi legato a Pratesi, Tozzi e Bilenchi. Ma
oggi non faticoso, con buone note a pie’ di pagina come in questa edizione, e
anzi di lettura coinvolgente, per il bizzarro ritorno dei dialetti, delle
piccole patrie, localistiche, campanilistiche. Verga a suo tempo se ne diceva
ammiratissimo, in una lettera allo stesso Fucini - che il ricco apparato di
questa edizioncina riporta - cui invidia “il tesoro della lingua”, ammirato soprattutto
della “precisione e efficacia che ci vuole pel bozzetto”. Una parlata Fucini
imita di base pisana, con l’aggiunta qua e là di costrutti e parole particolari
che interlocutori occasionali gli prospettano – il metodo lo stesso Fucini
spiega a un interlocutore, in un’altra lettera qui acclusa.
Un linguaggio suo, di Fucini,
alla Camilleri, ma di recupero e non d’invenzione, di parole e modi locali o
perenti, che di fatto non è poi il “toscano” di Papini, Malaparte e
Palazzeschi. Abbozzato nei “Sonetti di Neri Tanfucio”, 1872-1879, il libro
d’esordio, che lesse man mano che li componeva nel salotto Peruzzi a Firenze in
Borgo dei Greci, e in quello di Paolina Bicchierai, a palazzo Le Monnier, con riconoscimenti
autorevoli, di Ferdinando Martini, de Amicis, Pietro Fanfani, Sonnino e
Franchetti, che pubblicheranno poi queste “Veglie” a mano a mano che Fucini le
scriveva, 1876-1881, nella loro “Rassegna settimanale”, e rapidamente lo
portarono alla notorietà. Invitato a Napoli da Pasquale Villari, vi incontrò
Giustino Fortunato e ne ricavò le ancora interessanti cronache “Napoli a occhio
nudo”, 1878, anche queste pubblicate nella “Rassegna settimanale” - Franchetti
e Sonnino erano molto attenti agli eventi al Sud.
Anche Tozzi negli stessi anni
faceva un uso tutto suo della parlata senese, costrutti e terminologia, con un
altro uso del gergo, drammatico e non zuzzurellone, giocoso. Questo è vero, si
può stare qui con Cassola. Ma il repertorio di Fucini resta più vivace, e
significante. Soprattutto non tipico.
Una curiosa riproposta, questa
Bur, del 1979, introdotta da un Cassola furente. Incaricato di invitare alla
lettura delle “Veglie” e del loro autore, termina con “l’ideale becero di cui
Fucini era portatore”. Becero non solo lui, aggiunge Cassola: “Nesun filisteo
era stato in armonia col suo tempo come Renato Fucini”. Il suo “toscano” è
d’accatto, insiste Cassola, una lingua furba, il “toscanismo degli stenterelli”
che irritava Carducci. E invece no.
Dalle “Veglie” non si direbbe,
non sono né becere né reazionarie. In un racconto è detto “reazionario” il beghino merciaio che a un
certo punto si scuote, sull’esempio del calzolaio di fronte socialista, e del
prete mangione, e fa la rivoluzione. Il racconto borghese è uno solo, e il più
lungo, ma è una satira, anche insistita. C’è molta pietas, per il destino delle ragazze, belle e liriche
nell’adolescenza, condannate dalla vita inesorabile. Non ci sono padroni e
servi. C’è qualche stereotipo, sul tipo dei camilleriani circoli dei notabili,
ma nemmeno tanti. Soprattutto, rileggendole ora, non sono bozzetti, come si
sono definite e si volevano: sono racconti. In ritardo forse su Capuana e De
Roberto – e presto surclassati dal pirandellismo (ma Pirandello ha molte
“veglie” al suo attivo, tra i racconti e anche tra i romanzi). Ma personaggi
emergono e quadri veritieri, storicamente, quasi dei monumenti-documenti,
“Vanno in Maremma”, “Tornano di Maremma”, la fame, la leva militare (una
tragedia) - che dovrebbero stringere il cuore a chi ora, Citati, Calvino, ha
conosciuto e usato quei posti per la bellezza e il riposo. Con poveri di
sensibilità altrettanto grande che la fame e il freddo. Racconti comunque di
campagna vera, non da giardinetto di seconda casa.
Racconti peraltro di un’Italia
ancora viva, perfino nel linguaggio, involuto, chiuso, separato, tra
l’Appennino pistoiese, la Lunigiana, la
Maremma - dove pure si andava a cercare lavoro, nella malaria. In troppi luoghi
ancora talmente povera che il più abbandonato e povero Sud ci fa figura di abbiente.
Nella Maremma delle seconde case romane non più, ma sì ancora nella parte
interna del grossetano, malgrado l’affluenza recente (le case rinnovate
o costruite nuove, i luoghi di ritrovo, il wi-fi e la differenziata), e per la
Garfagnana alpestre, o la Lunigiana, per quanto prospicienti aree di forte
consumo qualitativo, perfino del lusso, della Versilia e del litorale apuano.
Il linguaggio sarà stato
ricercato e desueto già all’epoca, una costruzione immaginaria. Ma, intanto,
col glossario a pie’ di pagina non è faticoso. E resta un monumento a una parte
dell’italiano abbandonata o desueta. Modi di dire non insensati né ridondanti.
Con un che di schietto, che la lingua necessariamente perde, nella parola e nel
modo di dire, volendosi regolata. Effetto della lingua parlata trascritta –
quello che Gadda ha saputo riprodurre di certo romanesco, del romanesco
d’immigrazione.
Renato Fucini, Le veglie di Neri, Bur, remainders, pp.
236 € 4
Insomma, il genere andava, negli anni 1870-1880. In una vena leggera nel caso di Fucini. “Scrittore sollazzevole” lo dice Luigi Russo all’avvio del breve revival dello scrittore toscano dopo la guerra - cui “Belfagor”, la rivista dello stesso Russo, dedicò un numero nel 1960 - che culminerà nel 1963 con la pubblicazione delle opere nei Classici Mondadori. E sempre con un occhio pietoso per la povertà e la disgrazia - “Fucini era un reazionario” scrive Cassola irato nella presentazione di questa edizione, ma dai racconti non si vede dove.
Le “Veglie” perfezionano il gergo toscano per cui Fucini diventò un’icona – e forse è la lingua che ha messo Cassola di malumore, essendo egli contrarissimo alla “toscanità”, poi di Papini, Mapalarte, il primo Palazzschi, che dice una gabbia per gli scrittori toscani, lui personalmente volendosi legato a Pratesi, Tozzi e Bilenchi. Ma oggi non faticoso, con buone note a pie’ di pagina come in questa edizione, e anzi di lettura coinvolgente, per il bizzarro ritorno dei dialetti, delle piccole patrie, localistiche, campanilistiche. Verga a suo tempo se ne diceva ammiratissimo, in una lettera allo stesso Fucini - che il ricco apparato di questa edizioncina riporta - cui invidia “il tesoro della lingua”, ammirato soprattutto della “precisione e efficacia che ci vuole pel bozzetto”. Una parlata Fucini imita di base pisana, con l’aggiunta qua e là di costrutti e parole particolari che interlocutori occasionali gli prospettano – il metodo lo stesso Fucini spiega a un interlocutore, in un’altra lettera qui acclusa.
Un linguaggio suo, di Fucini, alla Camilleri, ma di recupero e non d’invenzione, di parole e modi locali o perenti, che di fatto non è poi il “toscano” di Papini, Malaparte e Palazzeschi. Abbozzato nei “Sonetti di Neri Tanfucio”, 1872-1879, il libro d’esordio, che lesse man mano che li componeva nel salotto Peruzzi a Firenze in Borgo dei Greci, e in quello di Paolina Bicchierai, a palazzo Le Monnier, con riconoscimenti autorevoli, di Ferdinando Martini, de Amicis, Pietro Fanfani, Sonnino e Franchetti, che pubblicheranno poi queste “Veglie” a mano a mano che Fucini le scriveva, 1876-1881, nella loro “Rassegna settimanale”, e rapidamente lo portarono alla notorietà. Invitato a Napoli da Pasquale Villari, vi incontrò Giustino Fortunato e ne ricavò le ancora interessanti cronache “Napoli a occhio nudo”, 1878, anche queste pubblicate nella “Rassegna settimanale” - Franchetti e Sonnino erano molto attenti agli eventi al Sud.
Anche Tozzi negli stessi anni faceva un uso tutto suo della parlata senese, costrutti e terminologia, con un altro uso del gergo, drammatico e non zuzzurellone, giocoso. Questo è vero, si può stare qui con Cassola. Ma il repertorio di Fucini resta più vivace, e significante. Soprattutto non tipico.
Una curiosa riproposta, questa Bur, del 1979, introdotta da un Cassola furente. Incaricato di invitare alla lettura delle “Veglie” e del loro autore, termina con “l’ideale becero di cui Fucini era portatore”. Becero non solo lui, aggiunge Cassola: “Nesun filisteo era stato in armonia col suo tempo come Renato Fucini”. Il suo “toscano” è d’accatto, insiste Cassola, una lingua furba, il “toscanismo degli stenterelli” che irritava Carducci. E invece no.
Dalle “Veglie” non si direbbe, non sono né becere né reazionarie. In un racconto è detto “reazionario” il beghino merciaio che a un certo punto si scuote, sull’esempio del calzolaio di fronte socialista, e del prete mangione, e fa la rivoluzione. Il racconto borghese è uno solo, e il più lungo, ma è una satira, anche insistita. C’è molta pietas, per il destino delle ragazze, belle e liriche nell’adolescenza, condannate dalla vita inesorabile. Non ci sono padroni e servi. C’è qualche stereotipo, sul tipo dei camilleriani circoli dei notabili, ma nemmeno tanti. Soprattutto, rileggendole ora, non sono bozzetti, come si sono definite e si volevano: sono racconti. In ritardo forse su Capuana e De Roberto – e presto surclassati dal pirandellismo (ma Pirandello ha molte “veglie” al suo attivo, tra i racconti e anche tra i romanzi). Ma personaggi emergono e quadri veritieri, storicamente, quasi dei monumenti-documenti, “Vanno in Maremma”, “Tornano di Maremma”, la fame, la leva militare (una tragedia) - che dovrebbero stringere il cuore a chi ora, Citati, Calvino, ha conosciuto e usato quei posti per la bellezza e il riposo. Con poveri di sensibilità altrettanto grande che la fame e il freddo. Racconti comunque di campagna vera, non da giardinetto di seconda casa.
Racconti peraltro di un’Italia ancora viva, perfino nel linguaggio, involuto, chiuso, separato, tra l’Appennino pistoiese, la Lunigiana, la Maremma - dove pure si andava a cercare lavoro, nella malaria. In troppi luoghi ancora talmente povera che il più abbandonato e povero Sud ci fa figura di abbiente. Nella Maremma delle seconde case romane non più, ma sì ancora nella parte interna del grossetano, malgrado l’affluenza recente (le case rinnovate o costruite nuove, i luoghi di ritrovo, il wi-fi e la differenziata), e per la Garfagnana alpestre, o la Lunigiana, per quanto prospicienti aree di forte consumo qualitativo, perfino del lusso, della Versilia e del litorale apuano.
Renato Fucini, Le veglie di Neri, Bur, remainders, pp. 236 € 4