sabato 26 settembre 2020
Ombre - 531
“Comincia a prendere forma uno dei pilastri della riforma fiscale”,
annuncia trionfante “Il Sole 24 Ore”, “il taglio delle detrazioni”. Cioè: la
riforma è un amento delle tasse.
Notturno notturno
Presentato con grandi ambizioni
per nascondere un flop? Immagini di
recupero, molte anche di repertorio o propaganda, nel Kurdistan iracheno, della
guerra contro l’Is (il lamento della madre per il figlio morto, il plotone delle
miliziane, il carcere dei terroristi islamici, la scuola, i disegni e i ricordi
delle violenza attraverso i bambini). Mixate con una sola scena a soggetto, del
giovane caravaggesco che vive di espedienti, e con minute cartoline di viaggio,
l’attraversamento dei fiumi mesopotomaci, anche a guado, il traffico alla
frontiera siro-libanese. Un mondo piatto, fangoso. Di cieli bassi e luce
grigia. Tra Iraq, Siria, Libano, i luoghi menzionati, un mondo di squallore,
apatico.
Curvato nel montaggio sulla
politica, e allora confuso? Non pacifista. Non antinazionalista: scandito in
capitoli di confine, evita i confini “giusti”, divisori, bellicosi, quelli con
la Turchia per esempio. E arriva tardi nella guerra all’Is.
Lo spettatore ne media un mondo
senza respiro. Senza nemmeno anima. Mentre è un mondo di montagne e non piatto,
alla frontiera siro-libanese, nel Kurdistan. E di coraggio, nel Curdistan e non
solo – la frontiera con il Libano è stata passata da oltre due milioni di
siriani, quanto l’intera popolazione del Libano.
Gianfranco Rosi, Notturno
venerdì 25 settembre 2020
Briganti di passo sull’Aurelia
Sull’Aurelia, che alterna ogni poche centinaia
di metri il limite di velocità tra 50, 70 e 90, al km. 174 + 500 località
Rispescia direzione Roma il limite passa da 110, dalla velocissima
circonvallazione di Grosseto, a 70. Al km. 174 + 640 il sindaco di Grosseto Vivarelli
Colonna apposta i Vigili, che così possono multare tutti i quelli che transitano.
Multarli di grosso, perché tra 70 e 110 la velocità è eccessiva per ben 40 km.
Con decurtazione dei punti patente, e altri soprusi: spese esagerate di
notifica, privazione del diritto alla riduzione del 30 per cento dell’ammenda
attraverso furbesche procedure di notifica.
Ora, il grossetano si sa che è terra di
banditi di passo, hanno infestato per qualche millennio la via Francigena. I
dannati dell’Aurelia soprattutto lo sanno: vivono di soprusi, e non c’è rimedio. I sindaci impediscono da cinquant’anni per questo, per tassare gli automobilisti non
residenziali, l’autostrada. Ma perché farli anche pubblici ufficiali, dargli il
potere di comminare sanzioni, oltre a estorcere il pizzo?
E l’Anas, un ente statale? L’Aurelia alterna
ogni pochi metri il limite di velocità, come ogni altra strada ex statale o
provinciale, da un paio d’anni retrocesse all’Anas, per l’appalto delle paline.
Uno dei (non) pochi rivoli di guadagno supplementare per la dirigenza della
nota azienda statale. Sulla cinquantina di km. da Garavicchio alla
circonvallazione di Grosseto ci saranno un migliaio di paline – che e leggerle
anche solo in minima parte uno va subito fuori strada. Duemila nei due versi.
I nemici degli italiani
I nemici siamo noi. Siamo il prodotto di secoli di invasioni,
siamo quello che gli invasori via via sono stati, stratificazioni, l’Italia è
sempre stata occupata, dalla fine dell’impero romano. Sottinteso: così va il
mondo, non dobbiamo preoccuparci se una nuova invasione si prospettasse?
Un paradosso. Le occupazioni possono essere benefiche.
L’Italia lo sa, che è stata occupata e anche occupatrice. Con beneficio tutto
sommato, oltre che dell’Italia, della Gallia, la Germania, la Spagna,
l’Inghilterra, la Romania eccetera, e di tutto il Medio Oriente, Nord Africa
compreso, nonché della ex Dalmazia, di Cipro e di Creta, delle isole joniche, e
fino al Dodecaneso dopo l’impero ottomano, specialmente Rodi. L’imperialismo ha
le sue ragioni, per quanto “straccione”.
Ma è un errore. È un errore storico proporre ogni invasione
come una fine della storia, dopodiché, dopo qualche tempo, una nuova
ricomincia, è ricominciata. Dove? Non nella storia, nemmeno in quella
dell’Italia. E c’è un dovere di difesa, morale e anche democratico, popolare –
la linea è comunque sempre quella: “Graecia capta ferum victorem cepit”, che il nuovo impari dal vecchio, almeno un poco.
Amedeo
Feniello-Alessandro Vanoli, I nemici
degli italiani, Laterza, pp. 113 € 10
giovedì 24 settembre 2020
Al muro del sant’Eustachio
Una ragazza mussulmana prende il caffè con
cornetto al Sant’Eustachio su uno degli alti tabouret ora in uso, contro il muro accanto all’entrata. L’immagine
riportando del grande caffè pasticceria dietro l’università ad Algeri, città
allora francofona, nel 1973, di una signora giovanile che vi aveva portato i
nipoti, riducedone l’irruenza fino a farli stare seduti al tavolino, intento
ognuno al suo gelato, e alla fine ne aveva preso uno anche per sé, golosa, si era
alzata, e lo aveva degustato rivolta al muro.
La ragazza sarà francese? Il Sant’Eustachio è
il caffè rinomato di Roma vicino all’area francese, San Luigi dei Franecsi, il
Centro cuturale, la libreria Stendhal, e per questo famoso anche in Francia, ai
tavolini si sentono mormorii francesi. Sarà sola? Potrebbe essere il giovane
ventruto con due ragazzi seduti al tavolino sotto il marciapiedi un suo
familiare? Dev’essere mussulmana, è affardellata dalla testa ai piedi, benché
faccia ancora molto caldo. Che sia giovane non si può sapere, si suppone vista
l’irruenza con cui affronta la colazione.
Appalti, fisco, abusi (185)
Il Monte dei Paschi è appetibile per la
consolidata presenza in Toscana, Lazio, Veneto, Lombardia, più alcune posizioni
redditizie al Sud, in Sicilia, Campania, Calabria, Abruzzo. Ma il Tesoro non
risce a vendere il Monte dei Paschi perché oberato da carichi pendenti a non
finire – il petitum dei vari aventi
causa si valuta sui 10 miliardi. Un buco colossale, in aggiunta ai 20 miliardi
di aumenti di capitale già divorati, a partire dal 2008. Con un deficit
nuovamente di capitale già sui 3 miliardi – la valutazione minima, di
Mediobanca che deve collocare Mps, è di un miliardo e mezzo. Un buco senza
fondo?
Mps ha impoverito la Fondazione, e un centinaio
di migliaia di risparmiatori. Senza che mai la Consob o la Banca d’Italia, a
ogni aumento di capitalle, esprimessero la minima avvertenza.
Un buco colossale, al Monte dei Paschi, che
non è l’errore di una gestione ma l’accumulo di parecchi “errori”, a partire
dal 2007. Tutti degli anni in cui alla Banca d’Italia vigilante era Draghi. Che
non vigilava oppure chiudeva un occhio?
Per gli affarucci del partito “abbiamo una
banca”, l’ex Pci?
È per questo che Fazio, il predecessore di
Draghi, fu cacciato nel 2005 con (finta) ignominia? Dai giudici del partito
“abbiamo una banca”.
In molti ospedali, per esempio al Policlinico
di Roma, non tutte le cliniche hano riaperto ai controli e alle visite
specialistiche ambulatoriali dopo la chiusura – la maggior parte non ha riaperto.
Si possono però fare controlli e visite nelle cliniche dove i primari e gli specialisti
ricevono privatamente. Il coronavirus è indubbiamente selettivo, molto.
La felicità in Sicilia nella povertà
Un bambino abbandonato, “magro e
sfilato come uno stecchino”, donde il soprannome, cresce ingegnoso e felice
nella ricca masseria dove è stato preso a guardiano dei tacchini. Inventivo,
pratico, in pace col mondo, costruendosi il futuro – fino al salto nella vita
propria, nella vita tumultuosa dei treni e delle navi, coscritto bersagliere.
Un racconto di formazione felice, che si fa
leggere. Lungo ma con penna lieve, semplice, scorrevole, Per “un’eco, sia pure
affievolita”, si poponeva Capuana dedicando il racconto a Michele La Spina,
pittore siciliano operante a Roma, “della mite poesia di Teocrito non spenta
ancora nelle nostre campagne siciliane – Bonaviri fa di Teofrasto,
nell’introduzione, addirittura un “poeta siculo ellenico”… Gratuito come è ogni
racconto, ma senza una parola di troppo.
La fotografia di un Faunetto
abbozzato da La Spina, “non finito e polveroso” nello studio del pittore a via
Margutta, ha ispirato via via il racconto – Capuana era un fanatico della
fotografia. Ma è un ritorno a casa in realtà. Il tormentato Capuana ambienta la
storia sotto la natìa Minéo, nella “vallata chiusa della montuosa catena
dell’Arcùra”, spiega Bonaviri nell’introduzione, dove ancora oggi s’incontra
rudere la grande masseria di famiglia, che aveva visto lo scrittore nascere e
crescere. Minèo la nota editoriale dice “Parnaso siciliano” – “a Minèo i poeti
a cento a cento”. Un’altra Sicilia, un altro mondo. Certo più gradevole, ma
forse anche più vero di questo, ora deprecato - e, se non altro per questo, deprecabile.
Luigi Capuana, Scurpiddu, Bur, remainders, pp. 171 € 4
Un racconto di formazione felice, che si fa leggere. Lungo ma con penna lieve, semplice, scorrevole, Per “un’eco, sia pure affievolita”, si poponeva Capuana dedicando il racconto a Michele La Spina, pittore siciliano operante a Roma, “della mite poesia di Teocrito non spenta ancora nelle nostre campagne siciliane – Bonaviri fa di Teofrasto, nell’introduzione, addirittura un “poeta siculo ellenico”… Gratuito come è ogni racconto, ma senza una parola di troppo.
La fotografia di un Faunetto abbozzato da La Spina, “non finito e polveroso” nello studio del pittore a via Margutta, ha ispirato via via il racconto – Capuana era un fanatico della fotografia. Ma è un ritorno a casa in realtà. Il tormentato Capuana ambienta la storia sotto la natìa Minéo, nella “vallata chiusa della montuosa catena dell’Arcùra”, spiega Bonaviri nell’introduzione, dove ancora oggi s’incontra rudere la grande masseria di famiglia, che aveva visto lo scrittore nascere e crescere. Minèo la nota editoriale dice “Parnaso siciliano” – “a Minèo i poeti a cento a cento”. Un’altra Sicilia, un altro mondo. Certo più gradevole, ma forse anche più vero di questo, ora deprecato - e, se non altro per questo, deprecabile.
Luigi Capuana, Scurpiddu, Bur, remainders, pp. 171 € 4
mercoledì 23 settembre 2020
Il problema è Salvini
Il centro-destra non cresce più, anzi è andato
sotto ai sondaggi. Per il problema del dopo-Berlusconi: con quale leader? Con
le Europee l’anno scorso la leadership è passata a Salvini, che con la Lega è
andato poco sotto il 40 per cento, con molti voti anche nel Centro-Sud. Sembrò
un risultato straordinario, che avrebbe fatto della Lega la nuova Dc, il nuovo
Grande Centro. Che era poi l’ambizione dichiarata di Bossi, il creatore della
Lega, al suo primo voto nazionale, nel 1994: cacciare la Dc, prenderne il
posto. Ma Salvini non è Bossi, per temperamento e per cultura. Ha gestito la
leadership in questo anno e mezzo fino a dimezzare i consensi al suo partito.
Creando malumori, nell’elettorato, e all’interno della coalizione.
I candidati del centro-destra in Puglia e in Toscana, che erano dati dai
sondaggi testa a testa col Pd al governo, non sono andati oltre il 40 per cento.
I salviniani hanno boicottato Fitto in Puglia, e i berlusconiani la leghista Ceccardi
in Toscana – è andata in minoranza perfino al suo paese, Pontassieve, di cui è
anche stata sindaco.
Potrebbero avere pesato gli scandali
giudiziari a carico della Lega che sono stati aperti in varie sedi sui giornali alla vigilia
del voto. Ma non è il tipo di azione che impensierisce l’elettore leghista, che
vota principalmente contro. Di più
potrebbe avere pesato la sterilità della politica di Salvini dopo le Europee.
Fuori dal governo. Senza un progetto, o una proposta forte di qualche tipo.
Logorato sulla immigrazone, e sul risentiimento.
L’effetto è diffuso nel suo stesso partito e
tra gli alleati. Che si sentono maggioranza nel Paese e probabilmente lo sono (crisi
economica, lavoro, pensioni, immigrazione, governano anche quindici regioni su
venti, e molte città (anche Roma e Milano, virtualmente), ma non sfondano.
Troppi errori in poco più di un anno
Sartre in Italia, di cattivo umore un po’ gaio
“Il turista è un uomo di risentimenti. Uccide”. Ma la cosa non è così
drammatica, è un libro di viaggio.
Esumati e annotati da Arlette
Elkaïm-Sartre, figlia adottiva e titolare dell’eredità intellettuale, sono i
materiali del libro sull’Italia che Sartre coltivò a lungo nel primo
dopoguerra, e poi non completò – o forse sì: un manoscritto esisteva, che non si
trova. “Frammenti” è il sottotitolo, che Arlette ha collazionato in quattro
gruppi: Napoli, Capri, Roma, Venezia. Questa estesa, prima stesura di un
saggio, benché un po’ erratico, fra impressioni, idiosincrasie, scopi di
entusiasmo. Su Napoli due pagine, stereotipe – di più e più vivaci ha scritto
nella novella “Dépaysement”, che non si ripubblica. Sette su Capri, senza
riserve, anzi sorprese ed entusiaste, memore probabilmente di un precedente
soggiorno, nel 1934, in compagnia di Simone de Beauvoir – questa vacanza
italiana è invece in compagnia di Michelle Vian, la moglie di Boris (e a Roma
anche, nota Arlette, di J.-L.Bost: Jacques Laurent Bost, giornalista, era amico
di Sartre e amante di Simone de Beauvoir).
È un viaggio di vacanza - dopo il
lavoro impegnativo su Genet. Che Sartre prova a elaborare da turista
controvoglia. Questo probabilmente è stato uno dei progetti: fare il “viaggio
in Italia”, eponimo del turismo, come un baedeker anti-turismo. Segue comunque
le tracce scontate, le immagini già note di ogni luogo, Napoli, Capri e
Venezia, dove entra citando “Barrès e Thomas Mann, “la morte a Venezia”. Solo
di Roma dà tratti personali, originali – per un senso suo della storia,
probabilmente, poiché mostra sempre un italiano incerto, che non gli deve avere
facilitato il contatto con i luoghi. Gli appunti, nota la curatrice, sono sotto
questo frontespizio italiano: “La regina Albemarla o il ultimo turisto”.
Uno svago? “Viva la letteratura
disimpegnata”, scriveva qualche tempo dopo il viaggio alla compagna Michelle:
“Tornando, mi rimetto alla deliziosa, alla buona Italia”. La curatrice dà più
peso al progetto, ricordando che Sartre lo disse anche “la «Nausea» della mia maturità”.
Nel senso, spiega Arlette, che “il Turista come Roquentin cerca il segreto
delle cose”. Nella “Nausea” la Contingenza, qui il Tempo, “uno dei grandi temi
di queste pagine”. Ultimo, dice ancora la curatrice nella premessa, come
“ultimo cacciatore di sogno, di bellezza o di senso, ultimo e incerto rampollo
di una stirpe che passa per Montaigne, Chateaubriand e Valéry Larbaud. È infine
il testimone della fine della Storia – decadenza della Borghesia e Rivoluzione
o fine dell’umanità con la bomba atomica” – ma la storia allora non finiva,
semmai culminava.
La regina Albemarle del titolo la
curatrice prospetta immaginaria patrona interiore, irrelata al nome storico -
la contea o ducato di Albemarle, nome latino e inglese di Aumale in Normandia.
Ma forse “ultimo” sta solo per turista fuori stagione, quando la stagione è
finita – allora a ottobre era finita.
Il modello sembrano essere gli
“Städtebilder” di Walter Benjamin, le sue fortunate immagini di città, a
partire da Napoli “porosa”. Perciò forse questo Sartre bizzarro, ma come suole
perentorio: niente del fluido, ipotetico, suggerito e suggestionante, di
Benjamin. Gli interni romani dice “vuoti”. È contro “il verticale”, le città
vorrebbe piatte. Ma nulla di memorabile, a parte il desiderio di entrare nei
luoghi, d’immedesimarvisi. A Venezia come se si avesse sempre vissuto. Ci ha
anche pensato al suicidio, crede di ricordare, una notte del 1934, nel primo
viaggio, in compagnia di Simone de Beauvoir. Ma, appunto, non si libera di se
stesso. Il compito si limita a svolgere facendo di Venezia una “Amsterdam del
Sud”, oltre che di Napoli una città di gaglioffi. O in lodi sperticate: “Il
mondo veneziano è finito e illimitato come l’universo di Einstein”. Quando non
è riduttivo, sempre di Venezia, “Questo labirinto per lumache, che conserva le
sue misure e le sue velicità del XVImo secolo”.
Imbronciato spesso. Anche per altri motivi. Il
teorico, appena sei anni prima, dell’impegno, così lo irride a Venezia: “Tutti
militano oggi, è la regola: ho visto vecchie carcasse sfinite reimpegnarsi per
dieci anni nell’«Arte per l’Arte» per militare contro l’«Arte impegnata».
Si è militante o miliziano o militare” – è l’effetto compagnia della
divertente Michelle? Anche un po’ stufo. Ma a Venezia si ricorda di essere stato
felice. E a Roma “leggero”, così si dice da Venezia: “Ebbene sì: a Roma ero più
leggero. Meno colpevole. Roma può anche essere deliziosa e mai mi stanca”.
Un libro – un viaggio? – confuso,
instabile. Del turista che si nega. Ma, di più, di Sartre. Che ha immagine
monolitica, ma era di suo confuso e instabile, quasi di programma – la
variegata dispersa produzione ha pure un senso, di teatro, narrativa,
filosofia, reportages, politica, vita sociale, memorialistica. Uno che gli
piaceva andare a cento allora – lo nota anche qui, nella morta Venezia: “È la
ragione che fa New York, città così dura per tanti aspetti, malgrado tutto
rassicurante: vi si vive a cento all’ora”. Così almeno la vede, per poi dire:
“Che follia mi ha infilato, proprio me, saltando da Nizza (a prendere Michelle,
n.d.r.) a Roma in aereo, da Roma a Venezia in treno rapido, tutto vibrante
ancora della mia velocità, che follia mi ha infilato in questo labirinto per
lumache…”.
Un po’ anche stregato – dalla
compagnia? dal ricordo? dalla città? “A Roma, in mezzo alla commedia, ero io
stesso commediante. A Venezia, in mezzo a un miraggio, mi sento miraggio io
stesso”. Nel passo contro l’impegno proseguiva: “E in questa società militare,
il cittadino non sa fare a meno di queste eccitazioni leggere e costanti, di
queste irritazioni superficiali il cui compito è di mantenerlo in un cattivo
umore un po’ gaio”.
Jean-Paul Sartre, La regina
Albemarle o l’ultimo turista, Il
Saggiatore, pp.189 € 21
Esumati e annotati da Arlette Elkaïm-Sartre, figlia adottiva e titolare dell’eredità intellettuale, sono i materiali del libro sull’Italia che Sartre coltivò a lungo nel primo dopoguerra, e poi non completò – o forse sì: un manoscritto esisteva, che non si trova. “Frammenti” è il sottotitolo, che Arlette ha collazionato in quattro gruppi: Napoli, Capri, Roma, Venezia. Questa estesa, prima stesura di un saggio, benché un po’ erratico, fra impressioni, idiosincrasie, scopi di entusiasmo. Su Napoli due pagine, stereotipe – di più e più vivaci ha scritto nella novella “Dépaysement”, che non si ripubblica. Sette su Capri, senza riserve, anzi sorprese ed entusiaste, memore probabilmente di un precedente soggiorno, nel 1934, in compagnia di Simone de Beauvoir – questa vacanza italiana è invece in compagnia di Michelle Vian, la moglie di Boris (e a Roma anche, nota Arlette, di J.-L.Bost: Jacques Laurent Bost, giornalista, era amico di Sartre e amante di Simone de Beauvoir).
È un viaggio di vacanza - dopo il lavoro impegnativo su Genet. Che Sartre prova a elaborare da turista controvoglia. Questo probabilmente è stato uno dei progetti: fare il “viaggio in Italia”, eponimo del turismo, come un baedeker anti-turismo. Segue comunque le tracce scontate, le immagini già note di ogni luogo, Napoli, Capri e Venezia, dove entra citando “Barrès e Thomas Mann, “la morte a Venezia”. Solo di Roma dà tratti personali, originali – per un senso suo della storia, probabilmente, poiché mostra sempre un italiano incerto, che non gli deve avere facilitato il contatto con i luoghi. Gli appunti, nota la curatrice, sono sotto questo frontespizio italiano: “La regina Albemarla o il ultimo turisto”.
Uno svago? “Viva la letteratura disimpegnata”, scriveva qualche tempo dopo il viaggio alla compagna Michelle: “Tornando, mi rimetto alla deliziosa, alla buona Italia”. La curatrice dà più peso al progetto, ricordando che Sartre lo disse anche “la «Nausea» della mia maturità”. Nel senso, spiega Arlette, che “il Turista come Roquentin cerca il segreto delle cose”. Nella “Nausea” la Contingenza, qui il Tempo, “uno dei grandi temi di queste pagine”. Ultimo, dice ancora la curatrice nella premessa, come “ultimo cacciatore di sogno, di bellezza o di senso, ultimo e incerto rampollo di una stirpe che passa per Montaigne, Chateaubriand e Valéry Larbaud. È infine il testimone della fine della Storia – decadenza della Borghesia e Rivoluzione o fine dell’umanità con la bomba atomica” – ma la storia allora non finiva, semmai culminava.
La regina Albemarle del titolo la curatrice prospetta immaginaria patrona interiore, irrelata al nome storico - la contea o ducato di Albemarle, nome latino e inglese di Aumale in Normandia. Ma forse “ultimo” sta solo per turista fuori stagione, quando la stagione è finita – allora a ottobre era finita.
Il modello sembrano essere gli “Städtebilder” di Walter Benjamin, le sue fortunate immagini di città, a partire da Napoli “porosa”. Perciò forse questo Sartre bizzarro, ma come suole perentorio: niente del fluido, ipotetico, suggerito e suggestionante, di Benjamin. Gli interni romani dice “vuoti”. È contro “il verticale”, le città vorrebbe piatte. Ma nulla di memorabile, a parte il desiderio di entrare nei luoghi, d’immedesimarvisi. A Venezia come se si avesse sempre vissuto. Ci ha anche pensato al suicidio, crede di ricordare, una notte del 1934, nel primo viaggio, in compagnia di Simone de Beauvoir. Ma, appunto, non si libera di se stesso. Il compito si limita a svolgere facendo di Venezia una “Amsterdam del Sud”, oltre che di Napoli una città di gaglioffi. O in lodi sperticate: “Il mondo veneziano è finito e illimitato come l’universo di Einstein”. Quando non è riduttivo, sempre di Venezia, “Questo labirinto per lumache, che conserva le sue misure e le sue velicità del XVImo secolo”.
martedì 22 settembre 2020
“Signora mia!” al potere
A Roma solo Centro Storico-Prati e Parioli-San Lorenzo hanno votato NO.
Quelli che pensano, la vecchia classe dirigente. Ma Roma è delle periferie: è
tutto sì a Tor Sapienza, al Prenestino, al Tiburtino e, purtroppo, alla
Garbatella. È l’odio del “potente”, che si esprime contro il Parlamento, dei
“vaffanculisti”, queli che non pagano le tasse e nemmeno il contributo al
partito. Si vogliono i 5 Stelle sbandati, ma la loro pancia è sempre piena, il livore non ragiona. A Tor Bella Monaca e Torre
Angela hanno votato in pochi ma tutti per il sì, tre su quattro.
Sono periferie privilegiate, privilegiatissime (si veda l’analogo a
Milano, Torno, Londra, Parigi…). Nell’edilizia, nei trasporti, nei servizi:
sanità, verde, spazzatura, scuole – nuove e nuovissime. Ma sempre a lamentarsi: “Rubbeno,
signora mia!”. Quelli, quelle, che postano sorci e maiali quando non “sono al
governo”, e ora che “sono al governo” li fanno scomparire mentre invece ora
circolano veramente, vivi. Quella della “Raggi forever”, l’insipienza della presunzione.
E quasi tutti-e non hanno mai pagato una tassa, non sanno cos’è. L’antipolitica
è feroce, una bestia selvaggia.
Appalti, fisco, abusi (184)
Lo Stato ha una convenzione per la
corrispondenza con le Poste, che però sono anche una banca. La commistione tra
i due servizi crea enormi disservizi sul lato corrispondenza, invii e ritiri –
un pratica bancaria non prende secondi o minuti, ma decine di minuti e anche
ore. I due servizi andrebbero separati, se non nei locali nella ripartizione
degli sportelli. Le Poste sono o dovrebbero essere un servizio e non una condanna
per l’utente.
La regola è chiara: “Il presente plico deve
essere consegnato possibilmente al destinatario. Se questi è assente può essere
consegnato a persona di famiglia che conviva anche temporaneamente con il
destinatario o a persona addetta alla casa o al servizio di essa, purché il
consegnatario non sia manifestamente afflitto da malattia mentale e non abbia
età inferiore ai quattordici anni. In mancanza delle persone suindicate il
plico può essere consegnato al portiere dello stabile o a persona che, vincolata
da rapporto continuativo, è tenuta alla consegna della posta al destinatario”.
Cioè, è impossibile non consegnare la raccomandata. Ma il postino non lo fa:
suona solo una volta, e il più delle volte nemmeno – il secondo lavoro urge. L’Antitrust
ha multato Poste Italiane per questo, ma di poco – niente rispetto ai danni che
Poste provoca.
La succitata è la regola della “Notificazione
degli atti giudiziari\amministrativi”. Una regola importante, perché dalla consegna,
dai termini, discendono conseguenze importanti, di valori, scadenze, obblighi. La
mancata consegna a domicilio in particolare annulla, quatro volte su cinque, la
riduzione di legge del 30 per cento dell’ammenda pagata entro i cinque giorni
dalla notifica (la raccomandata non consegnata risulta “notificata” dopo
qualche giorno).
Una raccomandata costa sei euro alla Posta – e
non viene consegnata. E tre euro, anche meno, con uno spedizioniere – che la
consegna. Ma non ha valore legale: gli atti giudiziari\amministrativi (le multe)
devono viaggiare con le Poste.
Perché gli “atti giudiziari\amministrativi”
devono viaggiare con Poste Italiane? È il costo di Poste Italiane alla base
dell'abnorme costo di notifica delle multe, 15 euro, trentamila lire?.
Unico tra i servizi pubblici, dalla chiesa al
bar, l’ufficio postale è sbarrato agli utenti. Che devono aspettare fuori, e
non dentro, come sarebbe e dovrebbe essere possibile, col dovuto distanziamento.
Ora che comincia a piovere e vengono i malanni, immobili in piedi per ore sotto
l’acqua, Poste Italiane sono passibili di denuncia. Ma nessuna associazione dei
consumatori lo fa: la protezione è totale.
Oltre che con gli uffici sbarrati, Poste
Italiane lavora con personale ridotto, del 30 per cento: sono aperti quattro
sportelli – quando sono aperti – su sei, sei su dieci negli uffici più grandi.
Lavorano comodamente da remoto, a non consegnare la Posta?
Il Sud Europa trae pochi benefici dall’euro
Un miracolo di generosità e
onestà – e un caso rincuorante di buona vecchia politica, che non ha paura
degli isterismi alla “signora mia!” (“Pietà non l’è morta”, non ancora, in qualche
posto dell’Europa, anche se, certo, bisogna rifarsi ai canti della Resistenza, semi-clandestini).
Un appello aggiornato alla solidarietà europea per la ricostruzione dopo il crollo
del 2020. Un appello del presidente della Banca centrale d’Olanda. Argomentato
e appassionato. Contro l’apparente logica dei “frugali”, Olanda compresa, che recalcitrano
ai vincoli di solidarietà.
Il cinquantenne governatore, a capo
della banca centrale da dieci anni, forse l’ultimo socialista, spiega a lungo,
sornione e documentato, con foto e diagrammi, come le economie con conti
pubblici forti alla nascita dell’euro vent’anni fa, compresa l’olandese, si
sono avvantaggiate dell’euro. Mentre per le economie allora indebitate, come
quella italiana, il cambio rigido ha implicato degli svantaggi. Di costo
unitario del debito comparativamente aggravato. E di produttività comparata necessariamente
arrancante, non potendosi più giovare dell’adeguamento del cambio – Klaas dice “molti svantaggi”. Per questo
motivo, sottintende, se non per un moto di solidarietà, conviene “emergere dalla
crisi più forti insieme”, il titolo che ha voluto dare alla alla cosiddetta lectio HG Schoo, la conferenza annuale
che si tiene a Amsterdam in memoria del pedagogista e giornalista Hendrik Jan Schoo ai primi di settembre, per la riapertura del Parlamento.
Il primo ausilio visivo che Knot mostra
è la nave dei migranti. Il secondo è un grafico dei benefici annui dell’euro
per ogni paese: si parte dal Lussemburgo, con 20 mila euro, poi l’Irlanda, con
15 mila, e poi Olanda, Belgio, Austria, Danimarca “tra 6.000 e 10.000 euro ogni
anno” – per l’Italia si scende sui 2-3.000. “Anche se mettiamo nel conto il
contributo olandese al bilancio europeo, ci sono ancora vantaggi
sostanziosi di benessere per l’Olanda”. Moltiplicati dal cambio: un euro è nato
come duemila lire, e pari a un fiorino, mentre prima dell’euro ci volevano due, tre e
anche sei fiorini per mille lire. Un anti-euro non saprebbe dire meglio, ma Knot
sa farne un punto di forza pro-Europa.
I paesi del Sud Europa hanno troppo
debito – è il quarto grafico? Ce l’avevano prima dell’euro, e per quanto abbiano
rimediato con sacrifici (le cosiddette riforme, e per l’Italia un bilancio
primario, al netto degli interessi sul
debito, ogni anno da quasi trent’anni in attivo) sono sempre in difficoltà. D’altra
parte, spiega sorridendo, “gli italiani hanno una bella espressione per questo:
«se mia nonna avesse le ruote, sarebbe una carriola»” - in italiano. La realtà è
questa e bisogna fronteggiarla al meglio – bisognava ridurre il debito prima
dell’euro.
Al centro della presentazione il
quinto sussidio visivo: la copertina del settimanale “EW-Elsevier Magazine” (il
settimanale che Schoo portò al successo…) di fine maggio, che fece scandalo in
Italia, “Non un centesimo in più per l’Europa meridionale!”, con la coppia
olandese che fatica e quella italiana sdraiata al sole all’ora dell’aperitivo. Che
Knot presenta con questo commento: “L’Europa meridionale trae relativamente
poco beneficio dall’euro”. Non c’è ragione al risentimento: “Se mettiamo in
dubbio l’etica del lavoro degli italiani, un paese dove il lavoratore medio
lavora quasi 300 ore all’anno in più dell’olandese”, la deriva è pericolosa per
gli stessi olandesi.
Knot va più in là. Paesi come Grecia
e Italia hanno un debito talmente elevato che un Recovery Fund non basta.
Bisogna o eliminare (consolidare) il debito di questi Paesi, oppure rendere il Recovery
Find europeo permanente. Una proposta sensata, e perfino necessaria, per la interconnessione tra le economie, per esempio tra tra la meccanica e la chimica italiane e quelle tedesche, ma oggi
utopica.
Knot non è quello che si dice una
colomba. Alla Bce è fra i consiglieri più critici della politica di Draghi, e
ora di Lagarde, dei programmi di acquisto senza limiti delle obbligazioni di Stato. Perché non è una soluzione, o un metodo per avviare una soluzione, ma un intervento fine a se stesso. Ma di più teme lo stallo europeo nella crisi.
Disponibile in inglese sul sito
della Banca centrale olandese – con traduzione simultanea in italiano.
Klaas Knot, Emerging from the crisis stronger
together
https://www.dnb.nl/nieuws/nieuwsoverzicht-en-archief/speeches-2020/dnb389989.jsp
lunedì 21 settembre 2020
Diamoci un senso
Parlare a nuora perché suocera intenda. O è viceversa: parlare alla suocera perché nuora intenda? Ma alla suocera di chi, essendo in età? Del proprio figlio? Cioè alla madre della nuora, perché la nuora intenda? Nel presupposto che la madre riferisca tutto alla figlia, cosa che avviene di rado. O bisogna parlare alla suocera della nuora? Ma la suocera della nuora è la propria moglie: non sarebbe meglio parlarle direttamente?
Letture - 433
letterautore
Fenoglio- Lorenzo Mondo, che lo ha per primo e a lungo pubblicato postumo, ne apprezza con Gnoli sul “Robinson” “il rigore morale”: “Un rigore attinto dagli scrittori puritani inglesi. Amava «Cime tempestose» e adorava Coleridge di cui tradusse «La ballata del vecchio amrinaio»”.
La conversazione Mondo conclude con un ricordo: “Ho sofferto davanti
alla sufficienza con cui Norberto Bobbio parlava di Pavese e Fenoglio”.
Francese – È lingua
femminile? Anatole France, “Le crime de Sylvestre Bonnard”, si dice attraverso
il personaggio: “La voce delle signore di Francia è la più gradevole al mondo.
Gli stranieri, come noi, sono sensibili al suo fascino”. Con un testimone a
sorpresa: “Filippo di Bergamo ha detto, nel 1483, di Giovanna la Pulzella: «Il
suo linguaggio era tanto dolce quanto quello delle donne del suo Paese»”.
Filippo, o Filippino, di Bergamo è il dimenticato autore di uno “Speculum
regiminis”, un primo trattato di sociologia politica, in prosa e in versi, un
best-seller del secondo Trecento malgrado il altino, che andò presto a stampa.
Italia – Gor’kij da Capri
la vedeva così, “Racconti d’Italia”, 1910 circa: “Qui sono sopraffatto da una
leggerezza mentale; qui vien voglia di scrivere dei vaudevilles, sì, dei vaudevilles
con canzonette. Qui la vita non è reale.
È un’opera. Qui non si pensa, si canta: Romeo, Otello e tanti eroi del genere.
È stato Shakespeare a crearli. Gli italiani sono incapaci di scrivere tragedie.
Qui non avrebbero potuto nascere né Byron né Poe”.
Gor’kij ha vissuto in Italia circa vent’anni, dal 1906 al 1913 a Capri,
dove ospitò tra gli altri un paio di volte Lenin ,e dal 1921 al 1933 a
Sorrento. A Capri organizzò pure una scuola politica per fuoriusciti. E scrisse
“Racconti italiani”. Ma non padroneggiava l’italiano. Molti privilegiano
l’Italia come una colonia: se l’aria è buona, costa poco, e si è serviti.
“È dissimetrica” invece per Sartre, che scrisse molto della sua vacanza
a Roma, Napoli e Venezia nel settembre del 1951 (duecento pagine sono nel
volume “La regina Albemarle o l’ultimo turista”), in compagnia felice di Michelle
Vian, la moglie di Boris Vian, a proposito della piazzetta San Marco a Venezia
e delle due colonne, quella col leone di bronzo e quella con san Teodoro: “Sono
dissimmetriche come la piazza San Marco, come tutto in Italia, ed è la dissimmetria
che amiamo” – a Ruskin che la lamentava dà del “pederasta”.
Ma anche, velocemente, il filosofo trova gli italiani, “drogati,
dopati”, per via dei carboidrati di cui si nutrono.
O silenziosi. Sì: aspettando a Venezia il vaporetto in compagnia di “dodici
ragazzetti miserabili che tornano a casa con le cartelle”, “rotte e sporche”,
li trova “gai ma non troppo gai. Un
po’ rumorosi all’inizio, poi si calmano, ricadono in questo silenzio italiano
di cui non è mai veramente parlato, silenzio di emigranti fatto di fatica e
fatalismo, di pazienza anche”.
E disinvolta – anche Sartre scopre in Italia la disinvoltura, come
già Ernst Jünger a proposito di tedeschi e italiani. Sia a Napoli che a Roma e
a Venezia: “Le donne italiane hanno conservato il naturale di Stendhal. Ammiro
come sanno entrare al ristorante, al dancing. Le nostre cercano un
atteggiamento. Loro no. Gli uomini pure. Quando vedo un uomo severo dai capelli
pettinati con austerità e che gioca alla noia distinta dei forti, l’uomo d’azione
al riposo, penso che è un francese. Nove volte su dieci ho ragione. Visti dall’Italia,
come facciamo nordico!”
“Accessibile”, la dice ancora Sartre: “L’Italia è all’aperto. Accessibile
a tutti. Il passato è nelle pietre”.
E non provinciale, ma per un motivo preciso Ci vuole centralizzazione
e predominanza della captale, in breve unità, perché ci sia provincia.
Provincia di che: Milano, Firenze, Roma?” Poi la risolve così: “Mezza provincia,
mezza principato” (“L’Italia è un’altra cosa. Che deve spiegarsi da sé. Mezza
provincia, mezza principato”).
Lazzarone - Protagonista
del primo Dumas napoletano, “Il corricolo”, 1836, gli deve l’immortalità, un
tentativo di definizione lungo quattro pagine: il lazzarone non ha padrone, non
ha leggi, è al di fuori di tutte le esigenze sociali, dorme quando ha sonno,
mangia quando ha fame, beve quando ha sete. Gli altri popoli si riposano quando
sono stanchi di lavorare: lui, invece, quando è stanco di riposare lavora.
Lavora, ma non di quel lavoro del Nord”, in miniera, nei campi, sui tetti e sui
muri, “bensì di quel lavoro giocondo, spensierato, trapunto di canzoni e di
lazzi, sempre interrotto dalla risata che mostra i suoi denti bianchi, e dalla
pigrizia che rilascia le sue braccia; di quel lavoro che dura un’ora, una
mezz’ora, dieci minuti, un istante…”.
E “che cos’è questo lavoro? Dio solo lo sa”.
Napoleone – Italiano anche
per Conan Doyle, ma per motivi particolarissimi (“Through the Magic Door”, cap. IX): “Napoleone lasciò un legato
in un codicillo del testamento a un uomo che aveva tentato di assassinare Wellington.
Ecco qui di nuovo l’italiano medievale! Non era più corso di un inglese che
nato in India si dica indù. Si leggano le vite dei Borgia, degli Sforza, dei
Medici, di tutti gli appassionati, crudeli, tolleranti, amanti dell’arte, despoti
di talento dei piccoli Stati italiani, inclusa Genova, da dove i Bonaparte erano
emigrati. Qui in un solo colpo si ottiene la vera discendenza dell’uomo, con
tutte le stigmate chiare su di lui – la calma fuori, la passione dentro, lo
strato di neve sopra il vulcano, tutto ciò che caratterizzò i vecchi despoti
della sua terra nativa, gli allievi di Machiavelli, ma elevati a genio”.
Roma – Sartre a Roma a
settembre del 1951 è ossessionato dal “vuoto della casa romana”. In visita da Carlo
Levi a palazzo Altieri in piazza del Gesù non fa che rilevare il vuoto, del palazzo, e
dell’appartamento, “l’insaziabile vuoto romano”, sotto il bric-à-brac, “lo
spazio puro” – “L. è il primo Romano che
non mi sembra avere il gusto del vuoto”.. Il “vuoto” interno come opposto al
pieno delle strade, dei vicoli, la vera casa dei romani, “saloni-salotti intimi
dove si può passeggiare, senza essere fuori posto, in pantofole e giacca da
camera” (“Visita a Carlo Levi”, in “La regina Albemarle o l’ultimo turista”). Anche
se, aggiunge (“Un parterre di cappuccini”, nella stessa raccolta), “questa
città di terra è più sola in mezzo alle terre che una barca sul mare”.
Ma a Roma Sartre dà un’identità fissa. Anche sotto la pioggia: “Sotto
la pioggia, tutte le grandi città si rassomigliano, Parigi non è più a Parigi,
né Londra a Londra: ma Roma resta a Roma”. Per un motivo semplice: “L’Antichità
vive a Roma, di una vita odiosa e magica,
perché le si è impedito di morire del tutto per tenerla in schiavitù” – un
“ordine “ delle rovine “conservato dall’alcol dell’odio cristiano”.
Città “lucida”, la dice anche Sartre: “Roma si contorce su se stessa,
si vede, si guarda da tutte le parti, è una città di lucidità come New York:
perpetuamente si fa il punto”.
Stenterellesco - Gadda
lo irrideva di comuni amici, andando in gita in fregola nello spider col
giovane Parise, due non toscani. All’ombra però di Carducci, pure nostalgico
oltre che toscano, che “Davanti a san Guido” biasima(va) “la favella toscana,
ch’è si sciocca\ Nel manzonismo de gli stenterelli”.
letterautore@antiit.eu
Nostalgia di Gerusalemme città aperta
“Sono diventato
scrittore anche perché vengo da una famiglia dal cuore a pezzi”. Amos Oz,
76 anni quando scriveva questo pamphlet, ha una memoria lunga, una
memori diversa. Del mondo e di Gerusalemme, cioè di Israele. “Tutti i miei
parenti, sia per parte di padre sia per parte di madre, erano degli europei
devoti”, è la second frase: “In sostanza, dei grandi appassionati dell’Europa.
Conoscevano lingue svariate, e varie culture; nutrivano una inesausta
infatuazione per l’Europa”. Erano in Israele per compiere un pellegrinaggio,
cercare un ritrovamento. Senza preclusioni o esclusioni, Gerusalemme era una
città già abitata. Parlavano tolstojano, si sentivano dostoevskjani, un po’
maledetti, vivevano nella nostalgia cechoviama di “Mosca” – “che poteva essere
Berlino, o Parigi o Varsavia o chissà che altro”.
Oz sempre celebra
nostalgico la sua Gerusalemme, dove è nato nel 1939. Da genitori variamente
emigrati, dalla Russia alla Polonia e in Israele. Sempre e comunque
indefettibilmente europei. Come tutti i parenti e conoscenti. Anzi, gli unici
“europei d’Europa”, mentre gli altri si dividono per etnie – detto per celia,
ma non senza fondamento: due tribù in Cecoslovacchia, cechi e slovacchi, più
una terza di cecoslovacchi, “cioè noi”, nove diverse in Jugoslavia, più unn
jugoslava, “cioè noi”, tre in Gran Bretagna ma una sola di britannici, “cioè
noi”.… Con un padre “in grado di leggere sedici o diciassette lingue”, undici
delle quali parlava correntemente, “sebbene con un forte accento russo”, e la
madre sei o sette.
La storia di Israele lo
ha deluso, e il ricordo scherzoso conclude amaro: “A dove apparteniamo, dunque?
Forse non apparteniamo affatto”. Ma, criticato e anche osteggiato, non rinuncia
a chiedere la pace, “un compromesso”. Prova anche a svelenire l’impasse odierno. Sintomatico vuole
l’aneddoto, che racconta lungamente, della notte prima dell’attacco nelle
guerra vittoriosa dei Sei Giorni. Una lite continua al campo, tra generali,
ufficiali, graduati e soldati semplici del reparto, su ogni insipido argomento:
in Israele piace litigare. Ma dalla sua operosa vita, più lunga di quella di
Israele, deriva solo incomprensioni e delusioni. Tra queste quella di aver
perduto la sua città. La sua Gerusalemme non riconoscendo più in quella
post-1967, abbattuta e accresciuta. Un tempo e una città in cui le tribù e le
fedi convivevano, sebbene fossero del tipo esclusivo, che ognuno pensava di
averne l’unica: “In ogni quartiere si pregava in modo diverso, si parlava una
lingua diversa, e ci si abbigliava diversamente”. Però “comunicavano”: una città
a più anime, non in guerra.
Oz resta uno che non si
è adattato alla nuova Gerusalemme, capitale d’Israele. La sua Gerusalemme è
un’altra. Richiamato nell’esercito nella guerra dei Sei Giorni, ha visto e poi
documentato molte cose che non gli sono piaciute. E tuttora non sa entrare nei
panni dei “coloni israeliani in Cisgiordania”.
Ma non dispera. Saprà
bene che il piatto rotto non si ricompone, ma non dispera di un compromesso –
sono gli anni di Nethanyahu, che pure dovrebbero finire: “Il compromesso è considerato
una mancanza di integrità, di dirittura morale, di consistenza, di onestà. Il
compromesso puzza, è disonesto. Non nel mio vocabolario. Nel mio mondo la
parola compromesso è sinonimo di vita. Dove c’è vita ci sono compromessi”.
Una proposta di buona
volontà, debole. Anche se è vero: “Il contrario di compromesso non è integrità,
e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione, devozione. Il contrario di
compromesso è fanatismo, morte”.
Amos Oz, Contro il fanatismo, Feltrinelli, pp. 78 € 7
domenica 20 settembre 2020
Problemi di base #metoo made in Usa - 595
spock
Il tabù del sesso è puritano o
anti-puritano?
Liberatorio o oppressivo?
Le
americane sono vergini o virago?
Non
si potrebbe salvare Ovidio in qualche forma di lgbtqiapk?
Nessuna
vergine americana è mai disturbata da una donna, solo da uomini?
Woody
Allen è colpevole di non essere andato a letto con Kate Winslet – basta a
condannarlo?
C’è
l’obbligo per i registi a Hollywood di farsi le attrici, o di non farsele?
E
per le registe?
spock@antiit.eu