sabato 3 ottobre 2020
Ombre - 532
Di colpo, entrato in scena Pignatone, con le “carte” vaticane, la Lega è scomparsa dalle cronache – dalle cronache giudiziarie. Prima le Procure pignatoniane di mezza Italia fornivano quattro e cinque piste, ogni giorno, nuove o seminuove, sui latrocini della Lega. Poi si è passati a quelli vaticani, in minor numero, due-tre al giorno, ma più succulenti: i cardinali che rubano le elemosine.
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Il mistero Italia svelato da Ernst Bloch
Accanto alle impressioni già note
e ampiamente discusse di Walter Benjamin su Napoli, col concetto di “porosità”,
e su San Gimignano, per la “verticalità”, prove generali del suo opus magnum su Parigi, la proposta di
alcuni testi forse più pregnanti, sul Sud Italia, Napoli, le isole, e la stessa
“porosità”, di Ernst Bloch, che anche lui soggiornò a lungo nella baia di
Napoli. Testi non tradotti, e trascurati anche nell’opera omnia, che la
studiosa del filosofo mette in luce.
Capri, Ischia, Positano, Napoli
attirarono alla metà degli anni 1920, sulle orme dei russi anteguerra, con
Gor’kij in testa, un qualificatissima presenza di scrittori e filosofi
tedeschi: Ernst e Linda Bloch, sulla strada per il Nord Africa, Benjamin e Asja
Lacis, Kracauer, Adorno, Alfred Sohn-Rethel, Kantorowicz. Non in gruppo ma
neanche isolati: si conoscevano e si frequentavano. E prolungavano i soggiorni,
per mesi, qualcuno per anni: la vita non è cara, e il fascino sorprendente,
scriveva Benjamin a un amico, Richard Weissbach. I tedeschi poi erano di casa:
il caffè della piazzetta, della famiglia Morgano, aveva preso un nome tedesco,
“Zum Kater Hiddigeigei”, al gatto Hiddigeigei, il gatto nero che a Capri
pontifica dall’alto di una torre nel poemetto “Der Trompeter von Säckingen” che
August von Scheffel aveva scritto nell’isola nel 1853. E intato mantenevano,
malgrado Goethe, il mistero, dietro il fascino, che per molta Germania è
l’Italia. Furono, quelle, vacanze stanziali, che lasciarono tracce un po’ in
tutti – con l’eccezione forse di Kantorowicz: “Questa costellazione caprese si
sarebbe mostrata straordinariamente produttiva: non soltanto tirò fuori molti
saggi, ma una eco sfaccettata se ne ritrova in ulteriori lavori dei
protagonisti”. Per Benjamin il soggiorno caprese aprirà un filone, di
riflessioni e di scritti – le “Immagini di città”, come Peter Szondi intitolerà
nel 1963 la raccolta dei suoi saggi sulle città, nella quale “Napoli” viene per
primo.
Porosità
è termine geologico, della materia di cui è fatta Napoli, il tufo. E -
nell’accezione di Asja Lacis che l’avrebbe coniato, attrice di teatro, regista,
scenografa – architetturale: la contiguità o commistione di elementi
architettonici diversi, portale, cortile, scalone, ballatoio, balcone. Nonché
sociale: commistione di attività e di ceti sociali, ricchi e poveri, colti e
ignoranti, lusso e lerciume. Per E . Bloch, che ci ripenserà qualche anno
dopo, in “Aprile Italiano”, è solo questo: “Essa significa nient’altro che una
mescolanza del basso con l’alto e dell’alto col basso”.
La
porosità è “di due specie”, spiega Ujma, nelle descrizioni delle città italiane
che fanno Benjamin e E. Bloch. Per Benjamin è l’informe e l’informalità:
l’adattabilità. Per E. Bloch, che il concetto di “porosità” estende a tutta
l’Italia, è la non classicità, di Napoli e del Sud. È anzitutto l’esterno come
interno, “Italien und di Porosität”, 1926: “Dalla Piazzetta di Capri a Piazza San Marco a Venezia,
l’Italia è cosparsa di tali saloni da festa, anzi da ballo, all’aperto. In
queste piazze si mescola – è anzi in esse che si trova finalmente a casa – il
caldo riparo degli interni. Ma se si pensa che la porosità abbia a che fare
solo col semplice rovescio di dentro e fuori, la strada di Napoli invece
insegna come una città italiana possa uscire allo scoperto anche senza piazza;
come sia la stessa caoticità della stanza a costruire una piazza nell’immagine
della città”. La piazza per dire, evidentemente, la socievolezza,
l’informalità - la “disinvoltura” di E. Jünger).
Questa
caratteristica E .Bloch estende all’Italia tutta. Contro l’opinione corrente –
allora come oggi, con i tanti discorsi ancora in corso sulla Magna Grecia –
Bloch lega il Sud, e in qualche misura anche il Nord Italia, al bacino
mediterraneo, al Nord Africa: “Il modo giusto per conoscere l’Italia è dal Sud”.
“Si «scende» in Italia, dalle Alpi,
questo non va bene”, esordisce il filosofo in “Italien und die Porosität”, 1926, dopo la lettura di
Benjamin: “Si visita questo Paese in modo sbagliato. Portandosi dietro desideri
e immagini fuorvianti, o perlomeno unilaterali. Sicché molto della vita
italiana finisce per sfuggire”. Perché
l’Italia non è “classica”, come in Europa si pensa, e al Sud questo è
evidente: “Nel Sud non esiste soltanto la misura classica, che esso sembra
peraltro non stimare troppo”. Gli uomini e le stesse cose. “Non solo l’animale
uomo che lì fiorisce così variopinto si oppone alla nobile semplicità e alla
composta grandezza”, che si presumono
della classicità, ma anche le cose: “Non tutte le cose vi riposano ferme nella
luce, nella loro bella forma antica e ben definite in ogni aperte”. Ovunque
eccessi, eccezioni, sregolatezze.
Ma di
più E. Bloch era interessato al rapporto Germania-Italia, alla reciproca
percezione. Nel saggio “Die italienische Deutschfreundlichkeit”, 1925, e
qualche anno dopo, 1932, in “Aprile italiano”, scritto dopo un soggiorno a Salò
sul lago di Garda. Nel quadro di una riflessione lunga alcuni anni, 1928-1932,
sulla esperienza e la percezione dello
straniero – “Mancherlei Fremde”, “Traum von einer Sache” e “Erfahrung der
Grenze”. L’idea è che le percezioni sono diverse, tra Italia e Germania, quasi
ostili, ma le esperienze hanno molto in comune. Per la storia condivisa e,
sotto le differenze religiose e di mentalità, un comune senso del bello.
Uno scritto
degli anni dell’esilio in Svizzera, dopo l’arrivo di Hitler al potere,
“Venedigs italienische Nacht”, “forse il saggio più elegante e sereno”, mette
insieme “tutti gli elementi delle sue precedenti immagini di città: Oriente,
Gotico, Barocco e Teatrale si ritrovano qui nell’architettura, il carnevale, la
musica”, nelle “fantasie che il viaggiatore si porta con sé”.
Christina
Ujma, Zweierlei Porosität. Walter Benjamin und Ernst
Bloch beschreiben italienische Städte,
“Rivista di letteratura e cultura tedesca – Zeitschrift für deutsche Literatur un
Kulturwissenschaft”. Roma-Pisa, 2008, S. 67-64
Capri, Ischia, Positano, Napoli attirarono alla metà degli anni 1920, sulle orme dei russi anteguerra, con Gor’kij in testa, un qualificatissima presenza di scrittori e filosofi tedeschi: Ernst e Linda Bloch, sulla strada per il Nord Africa, Benjamin e Asja Lacis, Kracauer, Adorno, Alfred Sohn-Rethel, Kantorowicz. Non in gruppo ma neanche isolati: si conoscevano e si frequentavano. E prolungavano i soggiorni, per mesi, qualcuno per anni: la vita non è cara, e il fascino sorprendente, scriveva Benjamin a un amico, Richard Weissbach. I tedeschi poi erano di casa: il caffè della piazzetta, della famiglia Morgano, aveva preso un nome tedesco, “Zum Kater Hiddigeigei”, al gatto Hiddigeigei, il gatto nero che a Capri pontifica dall’alto di una torre nel poemetto “Der Trompeter von Säckingen” che August von Scheffel aveva scritto nell’isola nel 1853. E intato mantenevano, malgrado Goethe, il mistero, dietro il fascino, che per molta Germania è l’Italia. Furono, quelle, vacanze stanziali, che lasciarono tracce un po’ in tutti – con l’eccezione forse di Kantorowicz: “Questa costellazione caprese si sarebbe mostrata straordinariamente produttiva: non soltanto tirò fuori molti saggi, ma una eco sfaccettata se ne ritrova in ulteriori lavori dei protagonisti”. Per Benjamin il soggiorno caprese aprirà un filone, di riflessioni e di scritti – le “Immagini di città”, come Peter Szondi intitolerà nel 1963 la raccolta dei suoi saggi sulle città, nella quale “Napoli” viene per primo.
Porosità è termine geologico, della materia di cui è fatta Napoli, il tufo. E - nell’accezione di Asja Lacis che l’avrebbe coniato, attrice di teatro, regista, scenografa – architetturale: la contiguità o commistione di elementi architettonici diversi, portale, cortile, scalone, ballatoio, balcone. Nonché sociale: commistione di attività e di ceti sociali, ricchi e poveri, colti e ignoranti, lusso e lerciume. Per E . Bloch, che ci ripenserà qualche anno dopo, in “Aprile Italiano”, è solo questo: “Essa significa nient’altro che una mescolanza del basso con l’alto e dell’alto col basso”.
La porosità è “di due specie”, spiega Ujma, nelle descrizioni delle città italiane che fanno Benjamin e E. Bloch. Per Benjamin è l’informe e l’informalità: l’adattabilità. Per E. Bloch, che il concetto di “porosità” estende a tutta l’Italia, è la non classicità, di Napoli e del Sud. È anzitutto l’esterno come interno, “Italien und di Porosität”, 1926: “Dalla Piazzetta di Capri a Piazza San Marco a Venezia, l’Italia è cosparsa di tali saloni da festa, anzi da ballo, all’aperto. In queste piazze si mescola – è anzi in esse che si trova finalmente a casa – il caldo riparo degli interni. Ma se si pensa che la porosità abbia a che fare solo col semplice rovescio di dentro e fuori, la strada di Napoli invece insegna come una città italiana possa uscire allo scoperto anche senza piazza; come sia la stessa caoticità della stanza a costruire una piazza nell’immagine della città”. La piazza per dire, evidentemente, la socievolezza, l’informalità - la “disinvoltura” di E. Jünger).
Questa caratteristica E .Bloch estende all’Italia tutta. Contro l’opinione corrente – allora come oggi, con i tanti discorsi ancora in corso sulla Magna Grecia – Bloch lega il Sud, e in qualche misura anche il Nord Italia, al bacino mediterraneo, al Nord Africa: “Il modo giusto per conoscere l’Italia è dal Sud”.
Uno scritto degli anni dell’esilio in Svizzera, dopo l’arrivo di Hitler al potere, “Venedigs italienische Nacht”, “forse il saggio più elegante e sereno”, mette insieme “tutti gli elementi delle sue precedenti immagini di città: Oriente, Gotico, Barocco e Teatrale si ritrovano qui nell’architettura, il carnevale, la musica”, nelle “fantasie che il viaggiatore si porta con sé”.
Christina Ujma, Zweierlei Porosität. Walter Benjamin und Ernst Bloch beschreiben italienische Städte, “Rivista di letteratura e cultura tedesca – Zeitschrift für deutsche Literatur un Kulturwissenschaft”. Roma-Pisa, 2008, S. 67-64
venerdì 2 ottobre 2020
Problemi di base - 597
spock
“Il
Bordeaux era meglio o peggio nel 1780, senza igp né doc”, J.P.Sartre?
“Gli
uomini stupidi&fatui\ non sono tutti necessariamente\tutti
stupidi&fatui”, J.Kerouac?
Perché
bisogna sempre fare la fila alle Poste?
Conviene
indebitarsi?
Conviene
indebitarsi, e comprare oro?
(Perché)
chi passa la giornata sui social è muto quando deve parlare?
Si
parla a distanza meglio che da vicino?
spock@antiit.eu
Se la tradizione è cativa
Scene belle, da documentarista
esperto quale è Roccati. Per una storia di resistenza agli inquinatori. Una
storia semplice. Del contadino, vedovo inconsolabile, padre di una figlia
problematica, che con lei deve affrontare un’odissea terrestre per aver
resistito agli inquinatori, per cui vediamo la Lucania quale è, fascinosa,
ordinata e pulita, per finire poi vittima degli inquinatori, una morte che
libera dalla figlia dai suoi diavoli interiori. Ma anche ambigua. L’ambiguità
della storia è data dalla localizzazione gridata dal titolo: la Lucania.
Violenta, anche il padre lo è, di linguaggio cupo e chiuso. E ancora immersa
nella stregoneria, nera e bianca – la musica.
Una storia di tutti, siamo tutti
contro l’inquinamento, benché localizzata, sarebbe stata più accetta, mentre così
sembra un attacco polemico. Che un mondo moderno accula alla durezza familiare,
la stregoneria, la violenza sull’ambiente e sugli uomini – nel mentre
che dice i briganti storici combattenti
di libertà. La tradizione non è bella se è cattiva.
Il film si vede su Sky perché
all’uscita, ancora in stagione, a giugno 2019,
è andato deserto - visto da tre-quattromila spettatori, tutti in Lucania,
la curiosità della prima uscita, e subito uscito dalle sale. È difficile trangugiare
un mondo fantastico e favolistico che si pretende reale, da denuncia sociale.
Gigi Roccati, LUCANIA –Terra Sangue e Magia
giovedì 1 ottobre 2020
Il mondo com'è (411)
astolfo
Plautilla Bricci – La prima architetta
della storia moderna. Riconosciuta documentalmente autrice di un palazzetto di
fronte alla chiesa di San Giovanni in Aymo, e del completamento di san Luigi
dei Francesi, la cui costruzione era stata avviata da Fontana. Nota soprattutto
per la vila Benedetta, o del Vascello, a Porta san Pancrazio a Roma, sul
Gianicolo.
La
villa Benedetta, ridota in macerie dai cannoneggiamenti francesi che posero
fine nel 1849 alla Repubblica Romana, è stata restaurata, su due piani, nei tardi
anni 1970 come civile abitazione di Eleonora Giorgi, l’attrice moglie di Angelo
Rizzoli jr. è stata a lungo ascritta a Basilio Bricci, fratello di Plautilla.
Mentre Plautilla veniva menzionata all’epoca come coautrice, in qualità di “ottima
pittrice”. Lavorò anche alla decorazione interna della vila, insieme con altri
pittori, Pietro da Cortina, Francesco Allegrini, Giovan Francesco Grimaldi. Ma
il capitolato di appalto la dà architetta.
Villa
Benedetta, o del Vascello, fu commissionata da Elpidio Benedetti, agente
francese in Roma prima per conto del Mazzarino, il successore di Richelieu, fino
alla morte di quest’ultimo, nel 1661, e poi del re Sole Luigi XIV. Benedetti
era stato inviato in Francia del cardinale Francesco Barberini, nipote del papa
Urbano VIII, nel 1635, in cerca di opere d’arte e d’influenza politica. In
Francia divenne segretario del Mazzarino. Che lo incaricò in particolare di
organizzare il viaggio di Bernini in Francia, e poi di controllare gli artisti
francesi a Roma che avrebbero dovuto progettare il Louvre.
La
villa fu detta del Vascello per la facciata a onde. Sull’esempio delle increspature
che Bernini aveva disseminato sotto le finestre e lateralmente al palazzo d
Montecitorio. Lo stesso tipo di facciata è stata ripresa nel restauro anni
1970.
Plautilla
Bricci si diceva, almeno nel suo caso non conoscendosene altri, “architettrice”.
Non si poneva allora, fine Seicento, il problema del femminile dei mestieri.
Francia-Gran Bretagna – A un certo punto
delle sue letture, parlando di un libriccino pubblicato a Londra agli inizi dell’Ottocento,
“Intercepted Letters”, che avrebbero testimoniato di intrighi francesi contro
gli espatriati inglesi in Egitto e in Africa,
Conan Doyle usa l’espressione: “Il quasi incredibile odio che esisteva tra le
due nazioni alla fine del Settecento”. Non solo alla fine del Settecento, ma
per tutto il Millennio, si può dire, a partire dall’invasione normanna dell’Inghiltera,
fino a fine Otttocento, qua do al flotta che il kaiser Guglielmo II, volendo la
sua flotta militare grande quanto e più di
quella dei sui cugini a Londra, spinse la filogermanica Gran Bretagna
all’Intesa con la Francia. Buona parte del Novecento è stato di amicizia
anglo-francese, almeno fino alla creazione del Mec e poi della Unione Europea,
e con alti e bassi dopo – si è fatto il tunnel sotto la Manica, Brexit mostra
di avere interrotto il legame.
A
lungo i re inglesi contrastarono la creazione della nazione francese, occupando
e sovvertendo la Francia, contri Giovanna d’Arco e per molti secoli. La guerra
fu lunga e “totale”, per le dimensioni degli schieramenti bellici dell’epoca.
Ancora contro la rivoluzione francese, e poi contro Napoleone. Si era intanto
allargata, ed è poi proseguita con numerose scaramucce su tutti i mari e in
tutti i continenti nei secoli del colonialismo, nelle Americhe, in India, nelle
isole del Pacifico, e a a lungo, fino ala seconda guerra mondiale e dopo.
Soprattutto in Africa, a Sud del Sahara, e a Nord.
Giotto – Fu coetaneo di
Dante, 1267 lui, 1265 Dante. E fiorentino anche lui, essendo nato a Vicchio nel
Mugello e morto a Firenze – Dante passò gli ultimi venti anni in esilio e morì
a Ravenna, presto, di 56 anni, Giotto durò fino ai 70. Attivo soprattutto a
Assisi, Padova, Roma – e in varie altre città, Bologna, Milano, Napoli, Rimini,
Prato, etc.. A Firenze veniva richiamato di tanto in tanto, per commesse
circoscritte. Se si eccettua alla fine il campanile che porta il suo mone, per
un progetto che però non fu realizzato.
Il
campanile di Giotto non è di Giotto. Il suo progetto di campanile era una
cuspide piramidale da elevarsi sopra il primo piano, altra circa 30 metri. Il
campanile è di Arnolfo di Cambio, Andrea Pisano e Francesco Talenti. Giotto fu
chiamato a occuparsene, sovrintendente alle opere pubbliche, con lo stipendio
onorevole di cento fiorini l’anno, nei suoi ultimi anni, dal 9 luglio 1934, due
anni e mezzo dopo, l’8 gennaio 1337 moriva, settantenne. Lasciò l’impronta nel
ciclo figurativo che adorna il basamento della costruzione. Che non è opera sua
ma di Andrea Pisano, con alcuni bassorilievi di Luca della Robbia, ma a Giotto
si vuole fare credito di averlo programmato.
Giulio II – Fu papa solo
per dieci anni, il più grande committente d’arte della storia, competente,
fortunato: Bramante, il progetto di San Pietro, Tiziano ventunenne, Raffaello venticinquenne,
Michelangelo. E Perugino, Lotto, Bramantino,
Sodoma, Baldassarre Peruzzi. Committente di grandi opere, San Pietro, la Cappella
Sistina, Stanze Vaticane.
Fu
anche, da cardinale, in esilio in Francia per proteggersi dal papa Borgia che
l’aveva sconfitto al conclave, l’artefice della discesa in Italia di Carlo
VIII, con la pretesa al regno di Napoli, e della fine delle speranze italiane. Rovina
continuata da Roma, con la guerra che volle europea contro la Repubblica di
Venezia.
Guicciardini
ne è ammirato. Nel “Principe” Machiavelli ne fa perfino il modello del
“principe fortunato”. Ma non nella politica. Tentò alla fine di recuperare promuovendo
una Lega Santa contro la F rancia, ma l’Italia restò destinata allo
smembramento, nel mentre che si costituivano le nazioni europee.
Fu
la Roma di Giulio II a scandalizzare Lutero nella sua visita a Roma nel 1510, di
un papa che non era principe della chiesa ma del potere e delle ricchezze.
Erasmo lo giudicò severamente in morte, nella satira “Iulius exclusus e Coeli”,
rappresentando Giulio II che tenta invano di accedere al paradiso.
Resistenza – La Francia, malgrado la retorica, e la Germania, i
due paesi che hanno avuto il movimento di Resistenza più ampio al nazismo, la
Francia sotto l’occupazione, la Germania per i tutti i dodici anni di Hitler,
sono quelli che meno la celebrano, e anche non la fanno valere. In Germania il
silenzio è quasi totale, con l’eccezione di pochi e ininfluenti storici. In
Francia si fa di più ma poco. Per non dover aprire il fronte della Resistenza che
non fu possibile nei primi anni dopo la sconfitta, perché Hitler era l’alleato
di Stalin, la Germania nazista dell’Unione Sovietica, e il patto Hitler-Stalin
era salutato nei tre anni e mezzo fino al giugno 1942 come un patto di libertà
dal partito Comunista francese, al punto che in prossimità e durante la breve guerra
fu operato anche il sabotaggio della produzione, in favore di Hitler. Si
celebra la Resistenza sotto il regime collaborazionista di Vichy, di Pétain, ma
non si fa intera la storia.
Curiosamente, perfino al storia politica e militare è per questo monca
in Franca, sulla “drôle de guerre”, la strana guerra, non combattuta, contro l’invasione.
astolfo@antiit.eu
Tra figlio e padre quasi un capolavoro
Si procede su un’onda lunga di tensione
subliminale, senza eccessi, di scene e immagini semplici e geniali. Partendo da
un improvviso inspiegato colpo di panico del protagonista adulto in
metropolitana. E da un ragazzo inquieto, tifoso laziale che gioca a subbuteo
con un compagno invisibile. Si procede ansiosi, con l’attentato dei terroristi
Nap, Nuclei Armati Proletari, al padre vice-questore e alla sua scorta, un
attacco coi mitra, in piazza, a Roma, con sparatorie da western. L’assenza del padre,
muta. Il ritorno. La materializzazione dell’amico del ragazzo, di un amico,
calciatore abilissimo. La fuga dalla scuola. Le visite degli amici e colleghi
della Polizia. Con pistole che s’intravedono tra borse e fondine, la cinepresa
per un minuto di svago, le chiacchiere preoccupate e svagate al pokerino. Con l’amico
che appare e scompare. Fino al viaggio in vacanza in Calabria, un ritorno per
il padre. Con la coda, di notte, in una galleria non illuminata, il traffico bloccato
da un incidente. E il ritrovo con i tanti parenti, sapido e rapido. Poi tempi lenti,
dilatati, ripetitivi.
Autoritratto dell’autore da
giovane. Un bambino-ragazzo inquieto, che fugge da scuola, esce di casa la mattina
all’alba, e intrattiene un amico immaginario, con cotolette, palloni firmati da
Chinaglia, furti in sacrestia, biciclette, bagni di mare. Un po’ come “Nuovo
cinema Paradiso”, con la tensione del noir,
della violenza incombente.
La Coppa Volpi che ha sorpreso
Favino per la migliore interpretazione è in effetti sorprendente, avendo l’attore
poche pose e battute - il focus è sul bambino-ragazzo. Ma è come usa ai festival,
un risarcimento e un riconoscimento al film, indiretto potendosi premiare solo
un film, e “Padrenostro” essendo imperfetto. Un capolavoro a metà: il racconto si
stiracchia nella seconda parte, riverberando negativamente su tutto il film, la
suspense della prima metà rifluisce
in irritazione – lo spettatore si sorprende a rifarsi un rimontaggio (si fece
con successo per “Nuovo cinema Paradiso”), con 15-20 minuti in meno, la gita in
barca per esempio, qualcuna delle tante volte sopra la scogliera minacciosa al
mare, per una sorta di fai-da-te del racconto, per ridargli fisionomia tanto apprezzandone
il resto.
Claudio Noce, Padrenostro
mercoledì 30 settembre 2020
Problemi di base papali papali - 596
spock
I
preti prima tutti pedofili ora tutti ladri: solo il papa non capisce?
E Erdogan,
il primo cui fece visita, sorridente, che bombarda gli Armeni, colpevoli di essere
cristiani, dopo aver sfrattato santa Sofia?
E gli accordi di Abramo, tra Israele e i governi arabi?
Siamo laici, ma turchi?
O è la geografia che manca a questo papa, benché gesuita, e la storia?
(Perché non) si può sapere dell’accordo Vaticano-Cina?
Meglio
l’ordine comunista che le proteste di Hong Kong, ancorché umane e cristiane?
Una
Realpolitk confessionale?
spock@antiit.eu
Eco nemico di Eco
Ci creiamo nemici per farci
belli. Dichiariamo nemico anche soltanto è diverso da noi, per storia, religione
e cultura, o per il colore della pelle.
Eco parte alla Eco in questa
conferenza del 15 maggio 2008 all’università di Bologna alle serate sui classici
(già pubblicata nella sua raccolta di scritti vari dallo stesso titolo nel
2011, e ancora prima, nel 2009, nella raccolta “Elogio della politica”, a cura
di Ivano Dionigi): l’aneddoto ormai famoso del tassista pakistano a New York
che si meraviglia che l’Italia, il paese da cui proviene il suo passeggero, non
abbia nemici è spassoso. L’argomentazione porta poi avanti con baluginio di citazioni,
di autori più disparati, da Giovenale a Orwell, con sant’Agostino, Berchet
((“irto, increscioso alemanno”),Cicerone, Omero naturalmente, Tacito, Chaucer, il
Bérillon della “Policresia della razza tedesca” (più cacca, più fetida), Liutpramdo
e Lombroso, Hitler e Wagner, Franti e De Amicis, e James Bond.
“Pare che del nemico non si possa
fare a meno”, è la conclusione, “la figura del nemico non può essere avobolita
dai processi di civilizzazione”, il tassista ha ragione.
Ha
ragione? Finito il fuoco d’artificio, il dubbio viene. Sulla
scia di Carl Schmitt, l’unico che non nomina, la “costruzione” del nemico
sembra in questa conferenza l’attività principale dell’uomo. Si può dire uno
dei paradossi di Eco, che li amava – col metodo non sottile di “partire per la
tangente”, il paradosso costruendo sul paradosso. Se non che questa non sembra
essere l’attività ordinaria di Eco, che è uno di noi – non lo è? Non sa infatti costruire oggi un nemico, con
tutto il suo ingegno brillante, se non ricorrendo
a un po’ di politicamente corretto: l’immigrato siamo noi, eccetera.
Si
vede nel particolare. Nemico, dice, “oggi diremmo l’immigrato extracomunitaro,
che in qualche modo si comporta in modo diverso o parla male la nostra lingua”,
e l’extracomunitario individua nel “nemico rumeno, capro espiatorio”, cioè nella
comunità più numerosa, un milione, di più antica immigrazione, e meglio
integrata in Italia (ma già allora i rumeni non era “comunitari”?).
È vero che per rumeni s’intenono
vari tipi di rom – anche quando non lo sono. Ma i rom non sono di accettazione facile
perché non vogliono. E comunque nessuno li odia. Un nemico è un problem serio,
è un fatto di odio e di interessi, con la battute non si risolve.
Umberto Eco, Costruire il nemico, La Nave di Teseo, pp. 64 € 5
martedì 29 settembre 2020
Secondi pensieri - 430
zeulig
Guerra
giusta –
La guerra perde nel suo svolgersi le sue motivazioni, non c’è giustificazione per
la guerra giusta, Simone Weil rileva dai primi svolgimenti della guerra civile
in Spagna: “Le necessità belliche fanno dimenticare molto presto le lo scopo
iniziale; esse costringono a trascurare il desiderio di giustizia, di libertà e
dì umanità che ha fatto intraprendere
quella stessa guerra”. E un anno dopo, nei “Nouveaux Cahiers” (“Non
ricominciamo la guerra di Troia”), elenca ironica gli “ideali” per i quali i
popoli europei si apprestavano a sterminarsi: “Nazione, sicurezza, capitalismo,
comunismo, fascismo, ordine, autorità, proprietà, democrazia”.
In precedenza, però, nelle “Riflessioni
sulla guerra”, 1933, - lontana da minacce di guerra, ma “dopo il trionfo di
Hitler in Germania” – ha teorizzato come giusta perfino la guerra preventiva: “La
pace sembra meno preziosa, dal momento che può comportare gli indicibili orrori
sotto il cui peso languono migliaia di lavoratori nei campi di concentramento
tedeschi”. Contro il fascismo chiama alle armi “le nazioni ancora democratiche”.
Senza un problema di giusta causa: “Poco importa che si tratti di una guerra di
difesa o di una ‘guerra preventiva’; sarebbe persino meglio una guerra
preventiva”. Confermandosi col principio d’autorità: “Marx ed Engels non hanno
forse cercato, a un certo punto, di spingere l’Inghilterra da attaccare la Russia?”.
Non c’è una guerra “giusta” in astratto.
Specie se senza limiti.
Hölderlin – Gravosamente portato da Heidegger a
testimone della filosofia come poesia, il Dichter
des Dichters, nelle tante riflessioni
a lui dedicate (raccolte nel 1944, quando il “destino” era segnato ma non
ancora per la Germania, per certi tedeschi) e un po’ ovunque nella vasta opera.
Mentre la questione è semplice, si può dirla con Eco (“Assoluto e relativo”, in
“Costruire il nemico”): “Alcuni filosofi ingenui hanno avanzato la proposta che
solo i poeti sappiano dirci che cosa sia l’Essere o l’Assoluto, ma essi di fato
esprimono soltanto l’indefinito”.
Eco non porta a esempio
Hölderlin ma Mallarmé: “Erta la poetica di Mallarmé, che ha speso la vita per
cercare di esprimere una «spiegazione orfica della terra»”, senza riuscirvi.
Una scacco, della poesia inclusa, che Eco commenta beffardo: “Scacco che Dante
aveva dato per accettato fin dall’inizio, comprendendo che è orgoglio luciferino
pretendere di esprimere finitamente l’infinito, e aveva evitato lo scacco della
poesia proprio facendo poesia dello scacco, che non è poesia che vuole dire l’indicibile bensì poesia
dell’impossibilità di dirlo”.
Patria – “Il patriottismo è l’amore dei suoi, il nazionalismo è
l’odio degli altri”, Romain Gary, “ Educazione europea”, cap.31.
Sartre – Uno scrittore,
con curiosità filosofiche. Ha opera sparsa, rileggendo la quale gli scritti
teoretici sono parte minima, e comunque trattati in forma letteraria. Ha
immagine monolitica, ma era di suo confuso e instabile, quasi di programma.
Scriveva – la variegata dispersa produzione ha pure un senso, di teatro,
narrativa, filosofia, reportages, politica, vita sociale, memorialistica. Si
direbbe uno e centomila, come è anche giusto, suo diritto. Se non che si fatica
a non rimproverargli la coerenza, l’uniformità. Perché? Perché è professorale,
mentre era un adolescente attardato: femminista impenitente e pentito,
bugiardo, posatore (opportunista), filosofico e antifilosofico, sempre
tagliente (definitivo), e rideva anche spesso. Un adolescente, rimasto al
liceo, di quando lo frequentava, e di quando vi insegnava la filosofia. Uno che
gli piaceva andare a cento allora – “È la ragione che fa New York, città così
dura per tanti aspetti, malgrado tutto rassicurante: vi si vive a cento
all’ora” (“La regina Abemarle o l’ultimo turista”). Aperto a ogni esperienza, a
ogni vento del tempo: iniezioni di mescalina nel 1935, passività sotto
l’Occupazione, poi i caffè e le boîtes,
staliniano prima, maoista poi, il cinema, perfino i rotocalchi, e una
pubblicistica variata.
Storia – Non si sente
più molto bene. Espulsa dalle scuole e dalla ricerca, traballa, come un pugile
suonato anche se ancora in piedi nel ring. Per un forte verso anche alla fase
del rifiuto-rigetto. In America con le cancel
culture e gli inclusion standard, in Gran Bretagna con la Brexit – qui la rinuncia
alla storia si veste di ritorno a una storia non più vivente. La Francia non ne
produce più, morti Furet e Foucault. E anzi se ne disfa: le chiese che non “si”
incendiano, le svende ai fratelli in massoneria, per farci baretti e
pied-à-terre. Nel mentre che vuole chiudere e frontiere e si lamenta di essere
invasa dai mussulmani. È curioso come anche la Francia, che critica la rabbia iconoclasta
e obliteratoria americana, abbia voglia di privarsi della storia.
Francesco
De Gregori, il cantautore, storico
mancato ma di solida formazione, dice in
un sua composizione, “La storia”: “La storia siamo noi”, padri e figli, ricchi
e poveri, “nessuno si senta escluso”. La storiografia anche nelle forme del
secondo Novecento, che ne fu fertile, delle mentalità, egli esclusi, delle
minorane, delle microstorie, delle donne o di genere, trova questo compito
arduo. Ma ora si è perduta anche la storiografia tradizionale, politica e dei
grandi eventi, imperiale, economica, delle guerre, calde e fredde, delle personalità
“decisive”. “La storia dà i brividi”, canta ancora De Gregori, “perché nessuno
la può cambiare”. Ma conoscerla, anche mentre si fa? “La storia non si ferma”,
ancora De Gregori, la storiografia sì?
È
mobile: si racconta, si ricostruisce, si scrive, e quindi si riscrive.
Revisionismo suona male perché è accorgimento, arma di conflitti ideologici o
politici, ma è nei fatti, la storia non è immutabile. Nuovi documenti si
acquisiscono, nuovi metodi di ricerca, nuove sensibilità.
Vite – Una buona metà dei
film a Venezia erano di vita, propria e altrui, biografie e autobiografie,
anche di registi giovani e di poca o nessuna esperienza. In un solco già
scavato in Italia, da Nanni Moretti e, in parte, da Fellini. Ma ora senza
pretese d’autore, di costruzione comico-drammatica: come testimonianza. Vite
critiche o compiaciute non importa, ma sempre autoreferenti – così succede, in
fondo, anche nelle biografie: si racconta (romanza) una vita in cui ci si
rispecchia. Anche nella narrativa, il genere che va è la biografia, meglio se
propria – Carrère che è partito dalle vite degli altri (“L’avversario”,
Limonov, Philip Dick, “Vite che non sono la mia”), è approdato alla propria –
già in “Un romanzo russo”, in parte nel “Regno”, e ora dilaga in “Yoga”. A partire dal caso Annie Ernaux. Che però raccontava contestualizzando, mentre ora si racconta
introspettivamente.
A un secolo dalle “Confessioni” di Svevo (il genere certo è antico,
da Rousseau a sant’Agostino, ma era casi unici), una patristica rinforzata
dalla narrativa americana del secondo Novecento - fino a Auster - di cultura o
famiglia ebraica. Meglio se condita da uno storione familiare, ma anche
semplice. Anzi, ora più spesso come sagra nuda dell’autorappresentazione.
I social sono la forma
genera lizzata di questo bisogno di essere esibendosi invece che ritraendosi, seppure povera, minuscola, in fondo inerte pur
in mezzo alle frotte di follower –
che leggono distratti, come di riflessi allo specchio. E sono non un insulto al riserbo tradizionale, come sogliono
rappresentarsi, ma piccoli schermi, tenui, poco illuminati, di minute-minime
realtà, voglie, desideri, ansie, le più recenti “inadeguatezze”. Molti del
resto, che non filmano o non scrivono, pagano il cosiddetto psicoanalista per
farsi ascoltare.
L’autorappresentazione esprime un bisogno di essere, di essere
manifestandosi. Un tempo si sarebbe detto vanagloria, oggi si rappresenta sotto
il segno della sofferenza, la depressione, la disgrazia, il mal di vivere, la
crisi. Ma è anche un forma di isolamento – non salva la confessione dallo
strizzacervelli, interlocutore freddo. Di ritiro dal mondo? La massima socievolezza
come una forma di conventualizzazione, di ritiro dal mondo.
zeulig@antiit.eu
Evaso da Auschwitz, liquidato da Stalin
Nella primavera del 1940 si hanno
notizie nella Resistenza polacca dell’avvio di un campo di lavoro forzato nazista
a Auschwitz. Dove vengno fatti confluire lavoratori dei paesi occupati, principalmente
da Francia, Polonia e Cecoslovacchi, e ebrei di ogni condizione, età e genere, dagli
stessi paesi. Witold Pilecki ha l’idea di farsi rinchiudere a Auschwitz per
organizzarvi la Resistenza. È un tenente dell’esercito polacco, che lavora nella
Resistenza dopo la disfatta. Il progetto è approvato, e Pilecki fa in modo di
farsi arrestare dalla Gestapo e rinchiudere a Auschwitz.
È il settembre del 1940. Sei mesi
dopo un suo primo rapporto è inoltrato a Londra, al governo polacco in esilio.
Che lo gira al governo britannico, Che lo giudica “esagerato”.
È Ian Karski che porta questa e
altre testimonianze della realtà dei lager
di Htler, non creduto, a Londra e poi anche a Washington, come ha raccontato
in dettaglio nel suo libro di memorie. Pilecki rimase a Auschwitz fino al 26 aprile
1943, quasi tre anni. Quella notte riuscì a evadere. Scrisse un rapporto
dettagliato su Auschwitz, che mandò a Londra. Al governo polacco in esilio e
quindi al governo britannico. Anche questa volta senza esito.
Della serie Terzo Reich, tornato
in voga col nazismo privato nel Millennio - con le “assaggiatrici” di Rosella
Postorino e l’americano V.S .Alexander, e altre familiarità di Hitler, la nipote,
la fotografia, il cane, la fidanzata, la bambina, la spia, la voce (P. Handke), “Le benevole” di Littell, etc.. Ma questa particolare ripresa, dopo
la riproposta delle memorie di Karski, è parte della storia dello sterminio. Che
a lungo non
fu parte della guerra.
L’obbrobrio del nemico è parte della guerra, e
a un certo punto la resa incondizionata e la colpa collettiva emersero. Non lo
sterminio, che pure si sapeva atroce, non c’era bisogno d’inventarlo o simularlo.
Ci fu più di un rapporto di Pilecki da Auschwitz – che Karski portò a Londra. Se
ne parlava. Anne Frank lo seppe dalla Bbc il 9 ottobre
1942: “La radio inglese parla di camere a gas”. Le Nazioni Unite lo dettagliarono a dicembre. Il
“New York Times” ne aveva riferito il 30 giugno e il 2 luglio. Ma non si
prendevano contromisure.
Nelly Sachs sapeva nell’esilio a Stoccolma, nel
‘43, quando scrisse “il tuo corpo è fumo nell’aria”, l’epicedio per il
“fidanzato morto”, il giovane che mai la amò. Malaparte, ospite gradito a Varsavia
del Re tedesco di Polonia Hans Frank, lo diceva e lo scrisse nel ‘43, degli
ebrei morti in massa, dentro e fuori del ghetto, per fame, forca, mitra, e dei vagoni
piombati, delle ragazze ristrette nei postriboli. A fine ‘43 circola in
Svizzera un “Manuale del maggiore polacco”: Jerzy Tabeau, uno studente di
medicina, evaso da Auschwitz, vi stima in mezzo milione gli ebrei già eliminati
nei lager. Ma la consegna è del
silenzio: i russi, che libereranno Auschwitz a gennaio del ’45, ne parlano a
maggio, senza menzionare gli ebrei. È che il disprezzo dell’ebreo è un fatto, prima
di Hitler, e durante.
Pilecki reintegrò le fila della Resistenza,
partecipando nell’agosto-settembre 1944 alla rivolta di Varsavia. Finita la
guerra, a maggio del 1945 fu inviato in Italia, tra i collaboratori del generale
Anders. Incarico che presto lasciò per partecipare in Polonia alla formazione
della Resistenza antirussa. Si infitrò nei servizi di sicurezza di Stalin e
mandò vari rapporti al suo governo. Che a un certo punto, temendo che si fosse
esposto troppo, gli ordinò di tornare in Italia. Pilecki, che ora aveva in Polonia
moglie e due figli, chiese di restarvi. Arrestato dal Kgb, fu ucciso con un colpo
di pistola alla nuca il 25 maggio 1948. Il divieto di parlarne fu totale, compresi
i familiari, fino al 1989.
Jack Fairweather, Volontario ad Auschwitz, Newton
Compton, pp. 416 € 9,90
lunedì 28 settembre 2020
Letture - 434
letterautore
Capuana – Della famiglia
dei notabili di Minèo in provincia di Catania, appassionato e inventivo
fotografo, come sarà Zola in Francia, le prime macchine fotografiche
costruendosi da sé, giovane unitario e garibadino, animatore dopo l’unità del
caffè fiorentino dell’epoca, il caffè Michelangelo, con Telemaco Signorini, Aleardi,
Prati, Capponi, Nencioni, critico teatrale della “Nazione”, quindi di nuovo a
Minèo, ispettore scolastico, sindaco, animatore, poi a Milano, chiamato da
Verga, critico letterario e teatrale del “Corriere della sera”, andando e
tornando da Minèo per sfuggire l’inverno milanese, che il suo fisico non sopporta,
viaggi di due e re giorni, quindi a Roma direttore del “Fanfulla della
domenica”, supplemento letterario, dove pubblica per primo Pirandello, che personalmente
ha indirizzato dalla giovanile vocazione di poeta alla prosa, mediatore di Zola
in Italia, che invita a Roma nel 1895, facendolo incontrare con Verga, infine
di nuovo in Sicilia, professore di Stilistica all’università di Catania,
scrittore di molti romanzi, dalla vena arguta per ragazzi e adulti, fu costante
amante della giovane serva di famiglia, Beppa Sansone, alla quale scriveva
lettere appassionate in dialetto, che l’amico d’infanzia Corrado Guzzanti (un
bisavolo?) le leggeva, e con la quale fece una mezza dozzina di figli, che
lasciava in orfanotrofio, a Caltagirone.
A 69 anni, sette prima di morire, sposerà – testimone Verga - Adelaide
Bernardini, che undici anni prima, ventenne e col morbo di scrivere, aveva
tentato il suicidio, e Capuana impietosito aveva preso come bibliotecaria.
Cognomi – Il catalogo è fisso, non ce ne sono più di
nuovi. In tutte le specie di formazioni note – che possiamo sintetizzare con
Bonaviri in un suo excursus sui soprannomi (prefazione a Luigi Capuana,
“Scurpiddu”, ed. Bur): “Un po’ tutti i cognomi (che danno origine alla scienza
dell’antroponimìa),derivano da soprannomi indicanti un carattere corporeo, o un
aspetto morale del portatore; o possono avere anche estrazione etnica o
religiosa; o possono nascere da toponimi, o nomi di regioni e città; o, infine,
riportano nomi dei genitori (patronimici e matronimici).
Non ci sono più soprannomi, e quindi non ci
sono cognomi nuovi? O il catalogo è fisso da quando è stata creata l’anagrafe?
Umberto Eco – Non ha un
solo riferimento tedesco. Ha scritto tanto, narrativa, filosofia, giornalismo
ma senza mai un riferimento alla onnipresente Kultur tedesca. Kant nel
titolo dei saggi filosofici, in cui contesta, di striscio, Heidegger, ponendo
il problema del realismo. Nemmeno di Marx fa il nome, pur professando politicamente
la Sinistra, e anche trinariciuto sotto l’arguzia, con i tanti “manifesti” di
protesta. Non ha in riferimento tedesco quindi di proposito.
Gary-Malaparte – Alcuni
capitoli di “Educazione europea” ,
il romanzo d’esordio, hanno un flair distintamente
“malapartiano” – alla Malaparte di “Kaputt”, del realismo irreale. Due in
particolare, sul finale, aggiunti alla storia: il 29, dei tedeschi congelati, e
il 31, dei corvi, tedeschi e russi, che
filosofeggiano sui cadaveri. Il
sarcasmo sulla guerra era nell’aria? Gary era un poliglotta. Fra gli pseudonimi
adottati per i primi romanzi c’ anche un Fosco Sinibaldi. Pilota dell’aviazione
francese (col grado di caporale, non essendo un francese etnico), nel 1940
aveva raggiunto Londra per unirsi a De Gaulle. Fu pilota combattente in molte
missioni, anche contro obiettivi italiani, e finì la guerra col grado, nel
marzo 1945, di capitano. A gennaio aveva visto “Educazione europea”, il romanzo
della resistenza polacca – anche ai russi - pubblicato in Francia. Dove
Malaparte era autore apprezzato - aveva scritto anche in francese.
La scrittura di “Kaputt” Malaparte
data da agosto 1941 (Pessianka, in Ucraina) al settembre 1943 (Capri). Il libro
fu pubblicato a Napoli, da Casella, nel settembre 1944, con successo: ebbe più
edizioni , la seconda reca un finito di stampare il 15 febbraio 1945. Preceduto
nel 1943 da “Il Volga nasce in Europa”, narrazione della guerra sugli stessi
temi che poi saranno di “Kaputt”.
Gotico – “È un
divertimento, non una necessità” - Sartre in Italia, a Venezia specialmente
(“La regina Albemarle o l’ultimo turista”).
Joyce – Dannunziano lo
dice Eco, con Richard Ellmann – come non averci pensato? Eco lo dice
concionando su fuoco e fianna al festival La Milanesiana nel 2008 (ora in
“Costruire il nemico”), con citazioni. “Ispirato proprio dal «Fuoco» d
annunziano, che aveva letto e amato, ecco il massimo teorico dell’epifania,
James Joyce”. “Per epifania intendeva Stefano una improvvisa manifestazione
spirituale”, «Stephen Hero»”, Eco ricorda. E ancora: “La parola ‘fuoco’ ritorna
nel «Portrait» 59 volte, ‘fiamma’ e ‘fiammeggiante’ 35 volte, per non dire di
termini associati come ‘radiosità’ o ‘splendore’”. Analoghe dice ancora le
sensazioni per la Foscarina e Stelio Effrena, e per Stephen Dedalus, con
citazioni da “Il fuoco” e dal “Portrait”.
Pirandello – Diventa
narratore in età, dopo un’adolescenza e una prima giovinezza da poeta. A venticinque
ani, quando viene presentato a Capuana, che ne legge i componimenti e, senza
criticarlo, gli consiglia la prosa.
Due anni dopo, alle nozze Piandello-Portulano Capuana presenta in
dono la plaquette di poesie “Istantanee” – era un fotografo appassionato
e capace.
Romanzo – “Il genere della
totalità che moltiplica il senso della vita”, W. Pedullà, “Il pallone di
stoffa”, 71.
Tintoretto – “Un regista
moderno” lo vuole Sartre in vacanza a Venezia nel settembre 1951. Nelle
lunghissime note su Venezia, quasi un libro “La regina Albemarle o l’ultimo
turista”), buona parte delle riflessioni sono su Tintoretto – con qualche
sbavatura: “Non è ancora l’opera comique di Raffaello”, nota a proposito del
“teatro” del veneziano, come se fosse un precursore.
Poi però lo farà Seicento, copernicano, galileiano, pre-einsteiniano:
“Col Tintoretto la terra gira ma, di colpo, l’uomo è perduto nello spazio”. Lo
assilla un problema: “Il suo problema è come mettere tutto l’uomo in un quadro. Problema moderno. È il passaggio dallo
spazio-concetto di Leibniz allo spazio kantiano”.
Trump - Sarà l’“americano
rurale” la sua base elettorale, il pilastro del primo uomo d’affari, di denari,
a capo degli Stati Uniti? L’americano rurale di Kerouac, “Il libro degli
schizzi”, p. 165, dei vagabondaggi per l’America dei primi anni 1950 (niente è
cambiato?): “L’Americano rurale\ è l’Americano più forte\ perché vicino alla
con-\ dizione dei Fellaheen” – il fellah,
contadino egiziano, Kerouac aveva eletto e idealizzato nell’americano povero e
puro, di campagna o anche di periferia.
Verga – La lingua di Verga
Bonaviri trova dolcemente musicale” nell’introduzione a Luigi Capuana,
“Scurpiddu”, Bur: “Nata dalle tante stratificazioni d’umori e di lingua del
popolo siciliano”.
letterautore@antiit.eu
Un papa laico - e comunista?
Fa senso legge un “Espresso” dedicato al papa. Sotto un
titolo evangelico, certo, “Fuori i mercanti dal tempio”. Inteso: scacciati dal
papa. È il papa Franceso un papa laico, consacrato dal settimanale anti-Vaticano, dopo avere a sua
volta consacrato Scalfari, massone professo (il settimanale non si smentisce: chiude proponendo contro il Covid la marijuana)?
Laico non si sa – in Argentina c’è confusione in proposito -
ma comunista sì. Comunista nel senso proprio, politico, del partito Comunista,
che oggi come oggi esiste solo in Cina. Papa Francesco non riceve il segetario
di Stato americano Pompeo, perché il governo Trump è anti-Cina. Non ha ricevuto
il cardinale di Hong-Kong Zen, che era venuto a Roma per perorare la nomina di
un vescovo a Hong-Kong, sede vacante da un anno e mezzo. Non nomina il vescovo
di Hong-Kong per non dispiacere al partito Comunista Cinese.
Non ha speso una parola nei sermoni domenicali, e neppure in
privato, per Hong-Kong in rivolta contro gli statuti polizieschi di Pechino,
anche se la città conta molti cattolici. Anzi, i manifestanti di Hong-Kong per
la libertà ha assimialto in conferenza stampa ai gilet gialli francesi, dei casseurs. E a chi gli ha obiettato che
la Francia non è la Cina, che rispetta i manifestanti, ha risposto per una
volta laconico: “La repressione c’è anche in Francia”. Anche questo fa
impressione, un papa comunista, oggi, nel 2020.
Un’altra vita con Paolo Conte
Una rimpatriata. Una celebrazione
di Conte, poeta, musicista, pittore (immaginista). Malinconica – “vedere tutto
il tempo che è passato mi mette un po’ di malinconia” si dice lui stesso. Ma
non per fatto personale: è un altro mondo, appena pochi decenni fa, Conte come
De André, Modugno, Jannacci, un’altra canzone, un’altra musica. Solo diversa? Un fatto geenrazionale? No: musica, e poesia, a fronte del nulla, con tutti i suoi likes e followers.
Semplice, anche. “Mah, l’autobiografia
serve, marginalmente. Asti è una città particolare. Non ha poeti. Siamo per le tragedie.
Comporre canzoni è come fare il cinema, i luoghi sono importanti, ma servono
gli sguardi, i tempi giusti, i sorrisi”. Con tanta musica naturalmente, dei
primissimi interpreti di Conte, il ragazzo Celentano e Enzo Jannacci, Caterina
Caselli, Milva, e di Conte passato e presente, e in giro per il mondo, a Parigi in particolare, nei tanti concerti,
compreso l’ultimissimo a luglio, e al San Carlo di Napoli. E tante testimonianze.
Giorgio
Verdelli, Paolo Conte – via con me
domenica 27 settembre 2020
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (437)
Giuseppe Leuzzi
Conrad ha “il tipo del giovanotto
italiano del Meridione”, nel racconto napoletano “patetico” del “Gruppo di sei”,
“Il Conde – Vedi Napoli e poi muori”: “Carnagione chiara e pallida, labbra
rosse, baffetti neri e neri occhi
liquidi, così meravigliosamente espressivi nella tenerezza e nel cipiglio”. Di
uno che riserva sorprese, camorriste.
Trovando sul tavolo di Carlo Levi a Roma
nel 1951 due caciocavalli in forma di “statuette di cavalli”, Sartre chiede:
“Sono africani? Etruschi?” “Sono formaggi”, risponde Levi, “me li mandano dalla
Calabria”.Sartre: “Si direbbe gres”. Levi:
“Più si scende al sud e più i cibi si avvicinano alla pietra o al legno morto.
Per forza: bisogna conservarli a lungo”.
Il Nord non fa conserve, o allora di
porcellana? È lo stesso Levi del “Cristo s’è fermato a Eboli”. Bisogna
reinterpretarlo?
“Diminutivi e vezzeggiativi”, Mimmo,
Mico o Mimì, Nino, Totò, ‘Ntoni o Ninì, Sasà, Pepè, Rorò o Nanà, “per evitare
di chiamare qualcuno Domenico, Antonio, Salvatore, Giuseppe o Fortunato”,
Walter Pedullà riconduce allo “stato infantile caro alle madri” (nelle “memorie
di un nonagenario” in uscita, “Il pallone di stoffa”, 71-72) – con quei Mimì, Sasà,
Nanà e Pepè non si invecchia mai”,
Se
l’Africa fosse stata in Europa
La fotografa americana Maxine Helfman ha
avuto l’idea di sostituire volti neri a una serie di ritratti fiamminghi del
Seicento – il tipo del viso contornato da “cornette” (copricapi con le ali), gorgiere
o soggoli, merletti, candidi sulla veste rigorosamente nera - sotto il titolo
“Historical Correction”. Come a dire che sarebbe stata un’altra storia se le
africane e gli africani in Europa o in America fossero stati commercianti o
baroni invece che schiavi. Ma la cosa non si presenta bene, i visi africani sul
“nero spagnolo” (americano in realtà, la nuova tintura veniva dal Nuovo Mondo),
che trine e merletti candidi non ravvivano, anzi scuriscono. Gli africani probabilmente
si sarebero vestiti colorati, nonostante la Controriforma o il puritanesimo.
La storia naturalmente non si rifà, ma
anche a ipotizzarla diversa, bisogna ipotizzare, quela è, l’Africa diversa
dall’Europa, il nero diverso dal bianco. Senza contare che “l’Africa ha più
storie e più geografie”, come Igiaba Scego scrive sul settimanale “D”, a
commento della collezione di Helfman -
“e anche gli afrodiscendenti partecipano a questa molteplicità di
storie”.
Mettersi nelle scarpe, sulle orme, degli
altri, i più ricchi, fortunati, intelligenti, potenti, è una cosa buona e
cattiva. Se è un camuffamento. Per essere bisogna solo affermarsi: Anche differenziandosi
– differenziarsi è più produttivo, per esempio oggi. È la chiave – e il
problema – delle teorie dello sviluppo. Nei mercati come nelle culture:
integrarsi al meglio ma non cancellarsi, copiare ma non dssolversi, aggiungere
e, se possibile, senza diminuirsi.
La
fame a Gerace
Presentando il libro della sua vacanza
con tre amiche in Turchia, “Quel tipo di donna”, Valeria Parrella ricorda che
la madre di una di loro “insegnava in un istituto magistrale di un paesino della
Calabria. Un giorno, per l’apertura della Upim di Crotone, organizzò un’uscita
della classe: nessuna delle ragazze aveva mai visto un grande magazzino. Un’altra
volta le porta a Taormina, e loro s’incantano davanti alla scala mobile, anche
quella mai vista prima nella vita”.
Fatta la tara della “Calabria” dei
napoletani, l’aneddoto è verosimile. Fra i quaranta e i cinquanta, a giudicare
dalla foto, le amiche in viaggio, l’aneddoto si riferisce ai tardi anni 1960-primi
1970. Cinquant’anni fa, appena. Riguarda ragazze fra i 14 e i 18 anni. E
l’istituto magistrale non poteva essere che di Crotone (ora l’hanno chiuso),
non di un paesino: non c’erano scuole superiori nei paesi, nemmeno le medie. Crotone
era già un “polo chimico” (anche questo chiuso, inquinava). E s’intitolava un
premio letterario rinomato, con Debenedetti e tutta l’intellighentsia Pci. Che però
erano mondi a parte. Ora Crotone ha l’aeroporto, molto turismo, molta inventiva,
anche ambientale, molte produzioni agroindustriali, e gioca in serie A.
Anche Pasquale Clemente, un amico ora
morto, aveva un ricordo analogo, di un altro luogo dello Jonio, il versante
calabrese ora in spolvero ma povero e semiabbandonato non molti anni fa. Insegnava
materie tecniche nella scuola media di recente istituzione a Gerace. E ricordava
classi
cenciose,
benché pulite, e smagrite, di ragazzi che spesso si addormentavano, come
sfiniti. Un giorno che si era portato in classe un pane, un “pane di grano”, di
due chili, come allora usava, cotto a legna dal fornaio locale, che al nostro
paese non si faceva più, vide che i ragazzi lo guatavano, e propose una pausa:
“Assaggiamo questo pane, se è vero pane di grano”. “Fu divorato”, ricordava,
“senza vergogna”. Lo rifece con lealtre due classi, e diventò un’abitudine, di
cui nessuno si vergognava. La scuola media obbligatoria è stata istituita a
fine 1962, il ricordo di Pasquale era quindi degli anni anni a metà del 1960.
“Avevamo tanta fame che avremmo sgranocchiato il legno”, ricorda di qualche anno prima Walter Pedullà a Siderno, poco distante, nelle memorie, “Il pallone di stoffa”. Oggi, ma già da alcuni decenni, Gerace è un borgo d’arte, restaurato,
rinnovato, e uno dei posti più prosperi, oltre che meglio tenuti e più belli,
dello Jonio e della Calabria.
La geografia economica è mutevole, anche
in breve periodo, basta l’impegno, anche poco – e l’ingegno, certo.
L’Italia
va vista dal Sud
Il modo giusto per conoscere l’Italia è –
come questa rubrica da tempo sottintende - dal Sud. Arrivare dal Sud è la raccomandazione
di Ernst Bloch in uno scritto poco conosciuto dei suoi tanti sull’Italia, dove
viaggiò spesso negli anni 1920 - una parte di questo scritto è stata tradotta
in “Dadapolis”, l’antologia di opinioni su Napoli voluta e stampata dagli
editori tedeschi una trentina di anni fa come omaggio all’Italia ospite della
fiera del libro di Francoforte.
“Si “scende” in Italia, dalle Alpi, questo
non va bene”, esordisce il filosofo: “Si visita questo Paese in modo sbagliato.
Portandosi dietro desideri e immagini fuorvianti, o perlomeno unilaterali.
Sicché molto dela vita italiana finisce per sfuggire”. Perché l’Italia non è “classica”, come in Europa si
pensa, e al Sud questo è evidente: “Nel Sud non esiste soltanto la misura
classica, che esso sembra peraltro non stimare troppo”. Gli uomini e le stesse
cose. “Non solo l’animale uomo che lì fiorisce così variopinto si oppone alla
nobile semplicità e alla composta grandezza”, che si presumono della classicità, ma anche le
cose: “Non tutte le cose vi riposano ferme nella luce, nella loro bella forma
antica e ben definite in ogni parte”. Ovuqnue eccessi, eccezioni, sregolatezze
- quello che si sa, che si legge, in parte anche si vive.
A meno che la classicità non sia quella
costruita in epoca umanistica e rinascimentale – che potrebbe avere preso,
molto o poco, dalle pratiche e le forme d’oltralpe, iperboree. Che sia come
l’architettura e la statuaria greche, che erano dipinte e variopinte, non così
semplici, levigate, serene come il museo ora le rappreenta.
Il
senso della mafia
Conrad, benché di poca esperienza in
Italia, e di quasi nessuna del Sud, ma uno che ha vissuto, prima di scrivere,
dà nel racconto napoletano “patetico”, “Il Conde”, il senso vero della amfia, del suo impatto, della sua forza
dissolutrice – perché la mafia è dissolutrice, checché ne dicano i suoi tanti
aedi millennial. Il cachet proprio della prepotenza mafiosa, dietro le sociologie
da caserma, dell’omerta, il familismo, la vendetta, il giuramento, il
“santino”: è la prepotenza.
Conrad non lo dice ma lo racconta. Un
gentiluomo del Nord che per ragioni di salute e convenienza sverna a Napoi, felice
nella sua modesta routine di uomo
senza problemi, una persona pregevole e gradevole sotto tutti gli aspetti, ha una
brutta avventura una sera, che passeggia sovrappensiero, acoltando la banda che
suona nei giardini pubblici, alla Villa Nazionale. Viene derubato con la minaccia di un coltello da un giovanotto
azzimato, un viso sconosciuto che aveva notato al ristorante dell’albergo, e il
sigarettaio gli ha sussurrato di passaggio essere un camorrista. Di fatto non viene
derubato, poiché non ha soldi con sé, non ha gioielli addosso, a l’orologio
porta di poco conto. Ma l’umiliazione lo sopraffà, l’aggressione senza risposta
possibile. “Da quanto potei capire”, dice il narratore di Conrad, “era
disgustato di se stesso. Non già del suo contegno. .. No, non era questo. Egli
non provava vergogna. Era nauseato dall’idea di essere stato vittima di tanto
disprezzo, più che del furto in se stesso. La sua tranquillità era stata empiamente
profanata. La sua lieta, serena visione del mondo, che l’aveva accompagnato per
tutta la vita, era stata sfigurata”.
Lo sconforto contagia pure il narratore:
“In quell’oltraggio premeditato vi era una sfrenata insolenza che sgomentò me
pure”. L’oltraggio premeditato. E la sfrenata insolenza.
Calabria
Partono
dalla Turchia, curdi, iraniani, iracheni, afghani, e arrivano tra Roccella
Jonica e Crotone, la vecchia rotta della magna Grecia, molti in barca a vela. La
Magna Grecia, le migrazioni, furono disegnate dalle correnti, dai venti.
Satireggiando
Salvini, Michele Serra scrive oggi sull’“Espresso”: “Ora la sua leadership viene
messa in discussione perfino nelle sezioni leghiste dell’Aspromonte, fino a
pchi mesi fa una sua roccaforte, ora devotissime a Zaia”. Che è vero, la roccaforte:
il capo della Lega è senatore della Calabria – Zaia non si sa, per ora siamo al “chi
è questo?”
I
migranti arrivano dalla Turchia in Calabria, tra Roccella e Crotone, non in
minor numero che a Lampedusa, non con più sicurezza - invece dei gommoni
vecchie barche a vela – e non senza infezioni contagiose. Accolti in strutture
piccole e minime, ognuna delle quali con
problemi di contagi indotti dagli arrivi. Con pochi rimedi, né per la
prevenzione – nessuno va a trattare la questione in Turchia – né per
l’accoglienza: la Calabria è come se non esistesse. Un mondo che non sa
comunicare, e non sa contare, farsi valere.
“La cosa terribile della Calabria è l’invidia, è tremenda”, diceva un anno fa a Patrizia Capua , “le Repubblica” (16 giugno 2019), Eleonora Acton, la nobildonna di Cannavà, borgo di Rizziconi, nell’agro di Gioia Tauro, dove ha sede l’azienda agricola di famiglia, 300 ettari, che lei a lungo ha gestito, col marito Pierluigi Taccone. Zona di ‘ndrangheta, da cui si è dovuta salvare con un lungo soggiorno a Napoli, e il marito ha faticato a fronteggiare. Ma l’invidia è più distruttiva.
La Regione Calabria, di centro-destra, appalta a Gabriele Muccino un documentario promozionale per il turismo al costo di 1,7 milioni – cifra paperoniana. Muccino si vuole di sinistra ma accetta volentieri. Bisogna punire la dabbenaggine?.
Reggio si scopre con sorpresa una delle città in cui si legge di più, si leggono libri. Scesa in un anno dal 51.mo posto, fra le città capoluogo, al 37mo.
Lombardo, Lombardi è il cognome più ricorrente in Calabria dopo quelli greci, e Morabito, che è arabo.
S’intendono Platì, San Luca, paesi che non riescono a farsi un sindaco, di sequestri di persona e ogni altro traffico sporco, di ‘ndrangheta e di spaccio, come due centri chiusi, cupi, remoti. Invece guardano il mare da cui distano pochi minuti, e raggiungono agevolmente, San Luca in macchina una decina di minuti al più, a piedi un’ora e mezza, Plati il doppio, su tratturi e strade semplici e quasi in rettilineo, senza scoscendimenti, lungo i torrenti. Non è la geografia che fa le “razze”, i “caratteri originari” della Enciclopedia Einaudi.
Era “calasebrella” il terziglio, gioco di carte comune nelle osterie e ritrovi popolari in tutta Italia a fine Ottocento – variante del tresette a tre giocatori. Fucini la mette al centro della lite tra amici del racconto “La pipa di Batone” (“Veglie di Neri”).
Si organizza in Calabria un Cammino Basiliano, sulle orme del vecchio ordine monastico greco-otordosso rifugiatosi nella penisola nel VII secolo, per sfuggire all’iconoclastia di Bisanzio. Sulla traccia del Camino de Compostela (Santiago) e altri itinerari di escursone religiosi – la via Francigena, per esempio, che stenta a decollare da un cinquantennio ormai, la via dei pellegrini dal Centro Europa verso Roma. Con questa presentazione: “Il Cammino Basiliano – 1.040 km da Rocca Imperiale a Reggio Calabria , 77 tappe, 149 borghi – permetterà di conoscere monasteri, chiese e fortezze orientali, che evocano le atmosfere del Monte Athos, dell'Armenia, della Siria e della Turchia, e castelli, chiese e monasteri latini, al punto che al visitatore sembrerà di trovarsi in Germania, Framcia, Belgio, Spagna, o in Inghilterra”. Niente di meno.
Si scoprono ora ovunque “chiese” (rovine) bizantine. Dopo la scoperta, con trentanni di ritardo, malgrado le tante rappresentazioni che della cosa sono state fatte dove si decide, che ci sono fondi europei per le civiltà minori. Senza però progettare o comunque mettere in moto i fondi europei: si scoprono i tanti sant’Elia disseminati nella penisola col gusto dell’antichista. Una volta stabilito che il sito è bizantino, la soddisfazione è colma.
Quando in Grecia scoprirono, negli anni 1980, i fondi europei per il recupero culturale, i mille santi e chioschi bizantini abbandonati per il paese furono recuperati e rinnovati. In non più di cinque anni. C’è Grecia e Grecia? O l’eredita della Magna Grecia è infetta?
“Testa di calabrisi” ricorre ancora nei racconti di Camilleri, per esempio ne “La confessione”, anche se “Vigata” è agli antipodi (siciliani) dalla Calabria, per dire testardo, cocciuto.
Il “Tirreno cosentino”, bei paesi e belle spiagge, da Maratea a Diamante, il primo a dotarsi di infrastruttire moderne di accoglienza, fin dagli anni 1960, auspice il Gran Referente dell’area, Giacomo Mancini, alberghi, ristoranti, stabilimenti balneari, secondo case a gogò, festival estivi e invernali, non decolla. Tavole rotonde. Piani. Recriminazioni. Poi si scopre che un anno – cinque di fatto, un’estate dopo l’altra – è ostaggio di introvabili bidoni velenosi inabissati dalla ‘ndrangheta. Un anno soffre di cattivi odori. Un anno le acque in mare di colpo si sporcano. Un tesoro sterile, se non buttato via. Mentre si sa, ma non si dice, che un Comune trova più semplice scaricare i liquami a mare. E che la rete dei depuratori è “disomogenea” - un depuratore non può supplire all’altro, quando ha problemi tecnici o è in sovraccarico. Programmare è impossibile in Calabria, mettere d’accordo, anche solo due interlocutori?
leuzzi@antiit.eu
Appalti, fisco, abusi (186)
Nel “settembre nero” di Borsa, che si è mangiata una buona metà
della ripresa estiva dei mercati azionari, il ribasso medio è un trend che
attraversa un’altalena di rimbalzi. Per tutti i
titolo eccetto uno, Unicredit. Era a 8,31 a inizio mese, è a 6,74 (cioè
a metà della quotazione ante coronavirus) , per sfilacciamento costante. I
titoli bancari, come gli industriali, vanno anch’essi in altalena in Borsa, un
giorno superrialzi, un giorno superribassi. Intesa, Bpm, Bper, Mediobanca scendono e
salgono, eccetto Unicredit. Anche se non
è cambiato nulla – a parte il passaggio indolore del piano esuberi, che avrebbe
dovuto favorire il titolo. I conti sono gli stessi, i piani pure, Unicredit deve passare di mano? Non è possibile, forse deve solo comprare il Monte dei Paschi fallimentare.
Da un anno ormai, abbondante, si dà in vigore il rebate fiscale sugli acquisti con carta
di credito. Mentre invece non c’è niente, solo chiacchiere.
E perché non un rebate
con i pagamenti bancomat – se la misura è di polizia, la tracciabilità, per chi
compra e per chi vende? Lavoriamo per le banche, commercianti, acquirenti e
fisco, uniti nella lotta?
Fuoco
di sbarramento coordinato contro il presidente dell’Inps che osa aumentarsi lo
stipendio da 62 mila euro, lordi, una sorta di soglia di povertà dirigenziale,
lo stipendio di un dirigente di prima nomina, un terzo di quello dei suoi 40 (quaranta) direttori generali, a 150 mila. Uno scandalo? Un
attacco all’Inps?
L’Inps
è il maggior assicuratore italiano, di gran lunga – anche nel ramo vita.
L’attacco viene dai giornali di Exor e di Mediobanca.
La
richiesta periodica dei dati personali, ogni due anni, per dire che “io sono
io”, in banca, all’assicurazione, con le carte di credito, “ai fini dell’antiriciclaggio”
è una sciocchezza, e tutti lo sanno. È un sopruso, in quanto obbliga a perdere
ore e giorni, oltre che attenzione, ora imponendo anche la pec, per
dichiarazioni che nessuno utilizzerà mai – quando non uno spreco di carte,
specie in banca, dove raccolgono queste assicurazioni in montagne che nessuno,
anche volendolo, potrà consultare mai (anche perché non vengono archiviate). Senza contare che uno è sempre se stesso,
finché vive.
Si
impongono queste vessazioni, nel nome dell’antiriciclaggio antimafia per non
fare i controlli veri?
Camilleri novelliere
L’innocenza vince nel primo
racconto. Nelle forme estreme: la ragazza orfana e ingenua, il ragazzo che ha
bisogno del “sostegno”. C’è chi scommette su di essa, e ne organizza lo
sfruttamento, ma non c’è partita: i semplici vincono.
Alla Don Camillo e Peppone il
secondo. Con un Camilleri che tradisce sbadato le professioni di fede
politicamente corrette: l’“opposizione” trinariciuta non ci fa bella figura
– invoca pratiche magiche, si affida al vescovo.
Camilleri prova, nella raccolta
da cui i due racconti sono tratti, “Le vichinghe volanti e altre storie d’amore
di Vigata”, tutte le corde della tradizione novellistica.
Vale quanto questo sito
evidenziava all’uscita della raccolta nel 2015: “L’affabulazione
viene meglio a Camilleri in dialetto, rispetto a quella su temi analoghi finora
esercitata in lingua nei romanzetti di costume. Con un effetto doppio. Il
rinvio indiretto, il dialetto risuonando come un arcaismo, al Tre-Quattrocento,
quando la narrazione non aveva messo le mutande, e il toscano-volgare era
ancora dialettale. E la costituzione, attorno all’aneddoto lubrico, di un
piccolo mondo chiuso, di caratteri diversi e quindi interessanti benché di vite
inutili”.
Andrea Camilleri, L’asta
I
fantasmi,
la Repubblica, gratuiti col quotidiano
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