sabato 3 ottobre 2020
Ombre - 532
Di colpo, entrato in scena Pignatone, con le “carte” vaticane, la Lega è scomparsa dalle cronache – dalle cronache giudiziarie. Prima le Procure pignatoniane di mezza Italia fornivano quattro e cinque piste, ogni giorno, nuove o seminuove, sui latrocini della Lega. Poi si è passati a quelli vaticani, in minor numero, due-tre al giorno, ma più succulenti: i cardinali che rubano le elemosine.
Il mistero Italia svelato da Ernst Bloch
Accanto alle impressioni già note
e ampiamente discusse di Walter Benjamin su Napoli, col concetto di “porosità”,
e su San Gimignano, per la “verticalità”, prove generali del suo opus magnum su Parigi, la proposta di
alcuni testi forse più pregnanti, sul Sud Italia, Napoli, le isole, e la stessa
“porosità”, di Ernst Bloch, che anche lui soggiornò a lungo nella baia di
Napoli. Testi non tradotti, e trascurati anche nell’opera omnia, che la
studiosa del filosofo mette in luce.
Capri, Ischia, Positano, Napoli
attirarono alla metà degli anni 1920, sulle orme dei russi anteguerra, con
Gor’kij in testa, un qualificatissima presenza di scrittori e filosofi
tedeschi: Ernst e Linda Bloch, sulla strada per il Nord Africa, Benjamin e Asja
Lacis, Kracauer, Adorno, Alfred Sohn-Rethel, Kantorowicz. Non in gruppo ma
neanche isolati: si conoscevano e si frequentavano. E prolungavano i soggiorni,
per mesi, qualcuno per anni: la vita non è cara, e il fascino sorprendente,
scriveva Benjamin a un amico, Richard Weissbach. I tedeschi poi erano di casa:
il caffè della piazzetta, della famiglia Morgano, aveva preso un nome tedesco,
“Zum Kater Hiddigeigei”, al gatto Hiddigeigei, il gatto nero che a Capri
pontifica dall’alto di una torre nel poemetto “Der Trompeter von Säckingen” che
August von Scheffel aveva scritto nell’isola nel 1853. E intato mantenevano,
malgrado Goethe, il mistero, dietro il fascino, che per molta Germania è
l’Italia. Furono, quelle, vacanze stanziali, che lasciarono tracce un po’ in
tutti – con l’eccezione forse di Kantorowicz: “Questa costellazione caprese si
sarebbe mostrata straordinariamente produttiva: non soltanto tirò fuori molti
saggi, ma una eco sfaccettata se ne ritrova in ulteriori lavori dei
protagonisti”. Per Benjamin il soggiorno caprese aprirà un filone, di
riflessioni e di scritti – le “Immagini di città”, come Peter Szondi intitolerà
nel 1963 la raccolta dei suoi saggi sulle città, nella quale “Napoli” viene per
primo.
Porosità
è termine geologico, della materia di cui è fatta Napoli, il tufo. E -
nell’accezione di Asja Lacis che l’avrebbe coniato, attrice di teatro, regista,
scenografa – architetturale: la contiguità o commistione di elementi
architettonici diversi, portale, cortile, scalone, ballatoio, balcone. Nonché
sociale: commistione di attività e di ceti sociali, ricchi e poveri, colti e
ignoranti, lusso e lerciume. Per E . Bloch, che ci ripenserà qualche anno
dopo, in “Aprile Italiano”, è solo questo: “Essa significa nient’altro che una
mescolanza del basso con l’alto e dell’alto col basso”.
La
porosità è “di due specie”, spiega Ujma, nelle descrizioni delle città italiane
che fanno Benjamin e E. Bloch. Per Benjamin è l’informe e l’informalità:
l’adattabilità. Per E. Bloch, che il concetto di “porosità” estende a tutta
l’Italia, è la non classicità, di Napoli e del Sud. È anzitutto l’esterno come
interno, “Italien und di Porosität”, 1926: “Dalla Piazzetta di Capri a Piazza San Marco a Venezia,
l’Italia è cosparsa di tali saloni da festa, anzi da ballo, all’aperto. In
queste piazze si mescola – è anzi in esse che si trova finalmente a casa – il
caldo riparo degli interni. Ma se si pensa che la porosità abbia a che fare
solo col semplice rovescio di dentro e fuori, la strada di Napoli invece
insegna come una città italiana possa uscire allo scoperto anche senza piazza;
come sia la stessa caoticità della stanza a costruire una piazza nell’immagine
della città”. La piazza per dire, evidentemente, la socievolezza,
l’informalità - la “disinvoltura” di E. Jünger).
Questa
caratteristica E .Bloch estende all’Italia tutta. Contro l’opinione corrente –
allora come oggi, con i tanti discorsi ancora in corso sulla Magna Grecia –
Bloch lega il Sud, e in qualche misura anche il Nord Italia, al bacino
mediterraneo, al Nord Africa: “Il modo giusto per conoscere l’Italia è dal Sud”.
“Si «scende» in Italia, dalle Alpi,
questo non va bene”, esordisce il filosofo in “Italien und die Porosität”, 1926, dopo la lettura di
Benjamin: “Si visita questo Paese in modo sbagliato. Portandosi dietro desideri
e immagini fuorvianti, o perlomeno unilaterali. Sicché molto della vita
italiana finisce per sfuggire”. Perché
l’Italia non è “classica”, come in Europa si pensa, e al Sud questo è
evidente: “Nel Sud non esiste soltanto la misura classica, che esso sembra
peraltro non stimare troppo”. Gli uomini e le stesse cose. “Non solo l’animale
uomo che lì fiorisce così variopinto si oppone alla nobile semplicità e alla
composta grandezza”, che si presumono
della classicità, ma anche le cose: “Non tutte le cose vi riposano ferme nella
luce, nella loro bella forma antica e ben definite in ogni aperte”. Ovunque
eccessi, eccezioni, sregolatezze.
Ma di
più E. Bloch era interessato al rapporto Germania-Italia, alla reciproca
percezione. Nel saggio “Die italienische Deutschfreundlichkeit”, 1925, e
qualche anno dopo, 1932, in “Aprile italiano”, scritto dopo un soggiorno a Salò
sul lago di Garda. Nel quadro di una riflessione lunga alcuni anni, 1928-1932,
sulla esperienza e la percezione dello
straniero – “Mancherlei Fremde”, “Traum von einer Sache” e “Erfahrung der
Grenze”. L’idea è che le percezioni sono diverse, tra Italia e Germania, quasi
ostili, ma le esperienze hanno molto in comune. Per la storia condivisa e,
sotto le differenze religiose e di mentalità, un comune senso del bello.
Uno scritto
degli anni dell’esilio in Svizzera, dopo l’arrivo di Hitler al potere,
“Venedigs italienische Nacht”, “forse il saggio più elegante e sereno”, mette
insieme “tutti gli elementi delle sue precedenti immagini di città: Oriente,
Gotico, Barocco e Teatrale si ritrovano qui nell’architettura, il carnevale, la
musica”, nelle “fantasie che il viaggiatore si porta con sé”.
Christina
Ujma, Zweierlei Porosität. Walter Benjamin und Ernst
Bloch beschreiben italienische Städte,
“Rivista di letteratura e cultura tedesca – Zeitschrift für deutsche Literatur un
Kulturwissenschaft”. Roma-Pisa, 2008, S. 67-64
Capri, Ischia, Positano, Napoli attirarono alla metà degli anni 1920, sulle orme dei russi anteguerra, con Gor’kij in testa, un qualificatissima presenza di scrittori e filosofi tedeschi: Ernst e Linda Bloch, sulla strada per il Nord Africa, Benjamin e Asja Lacis, Kracauer, Adorno, Alfred Sohn-Rethel, Kantorowicz. Non in gruppo ma neanche isolati: si conoscevano e si frequentavano. E prolungavano i soggiorni, per mesi, qualcuno per anni: la vita non è cara, e il fascino sorprendente, scriveva Benjamin a un amico, Richard Weissbach. I tedeschi poi erano di casa: il caffè della piazzetta, della famiglia Morgano, aveva preso un nome tedesco, “Zum Kater Hiddigeigei”, al gatto Hiddigeigei, il gatto nero che a Capri pontifica dall’alto di una torre nel poemetto “Der Trompeter von Säckingen” che August von Scheffel aveva scritto nell’isola nel 1853. E intato mantenevano, malgrado Goethe, il mistero, dietro il fascino, che per molta Germania è l’Italia. Furono, quelle, vacanze stanziali, che lasciarono tracce un po’ in tutti – con l’eccezione forse di Kantorowicz: “Questa costellazione caprese si sarebbe mostrata straordinariamente produttiva: non soltanto tirò fuori molti saggi, ma una eco sfaccettata se ne ritrova in ulteriori lavori dei protagonisti”. Per Benjamin il soggiorno caprese aprirà un filone, di riflessioni e di scritti – le “Immagini di città”, come Peter Szondi intitolerà nel 1963 la raccolta dei suoi saggi sulle città, nella quale “Napoli” viene per primo.
Porosità è termine geologico, della materia di cui è fatta Napoli, il tufo. E - nell’accezione di Asja Lacis che l’avrebbe coniato, attrice di teatro, regista, scenografa – architetturale: la contiguità o commistione di elementi architettonici diversi, portale, cortile, scalone, ballatoio, balcone. Nonché sociale: commistione di attività e di ceti sociali, ricchi e poveri, colti e ignoranti, lusso e lerciume. Per E . Bloch, che ci ripenserà qualche anno dopo, in “Aprile Italiano”, è solo questo: “Essa significa nient’altro che una mescolanza del basso con l’alto e dell’alto col basso”.
La porosità è “di due specie”, spiega Ujma, nelle descrizioni delle città italiane che fanno Benjamin e E. Bloch. Per Benjamin è l’informe e l’informalità: l’adattabilità. Per E. Bloch, che il concetto di “porosità” estende a tutta l’Italia, è la non classicità, di Napoli e del Sud. È anzitutto l’esterno come interno, “Italien und di Porosität”, 1926: “Dalla Piazzetta di Capri a Piazza San Marco a Venezia, l’Italia è cosparsa di tali saloni da festa, anzi da ballo, all’aperto. In queste piazze si mescola – è anzi in esse che si trova finalmente a casa – il caldo riparo degli interni. Ma se si pensa che la porosità abbia a che fare solo col semplice rovescio di dentro e fuori, la strada di Napoli invece insegna come una città italiana possa uscire allo scoperto anche senza piazza; come sia la stessa caoticità della stanza a costruire una piazza nell’immagine della città”. La piazza per dire, evidentemente, la socievolezza, l’informalità - la “disinvoltura” di E. Jünger).
Questa caratteristica E .Bloch estende all’Italia tutta. Contro l’opinione corrente – allora come oggi, con i tanti discorsi ancora in corso sulla Magna Grecia – Bloch lega il Sud, e in qualche misura anche il Nord Italia, al bacino mediterraneo, al Nord Africa: “Il modo giusto per conoscere l’Italia è dal Sud”.
Uno scritto degli anni dell’esilio in Svizzera, dopo l’arrivo di Hitler al potere, “Venedigs italienische Nacht”, “forse il saggio più elegante e sereno”, mette insieme “tutti gli elementi delle sue precedenti immagini di città: Oriente, Gotico, Barocco e Teatrale si ritrovano qui nell’architettura, il carnevale, la musica”, nelle “fantasie che il viaggiatore si porta con sé”.
Christina Ujma, Zweierlei Porosität. Walter Benjamin und Ernst Bloch beschreiben italienische Städte, “Rivista di letteratura e cultura tedesca – Zeitschrift für deutsche Literatur un Kulturwissenschaft”. Roma-Pisa, 2008, S. 67-64
venerdì 2 ottobre 2020
Problemi di base - 597
spock
“Il
Bordeaux era meglio o peggio nel 1780, senza igp né doc”, J.P.Sartre?
“Gli
uomini stupidi&fatui\ non sono tutti necessariamente\tutti
stupidi&fatui”, J.Kerouac?
Perché
bisogna sempre fare la fila alle Poste?
Conviene
indebitarsi?
Conviene
indebitarsi, e comprare oro?
(Perché)
chi passa la giornata sui social è muto quando deve parlare?
Si
parla a distanza meglio che da vicino?
spock@antiit.eu
Se la tradizione è cativa
Scene belle, da documentarista
esperto quale è Roccati. Per una storia di resistenza agli inquinatori. Una
storia semplice. Del contadino, vedovo inconsolabile, padre di una figlia
problematica, che con lei deve affrontare un’odissea terrestre per aver
resistito agli inquinatori, per cui vediamo la Lucania quale è, fascinosa,
ordinata e pulita, per finire poi vittima degli inquinatori, una morte che
libera dalla figlia dai suoi diavoli interiori. Ma anche ambigua. L’ambiguità
della storia è data dalla localizzazione gridata dal titolo: la Lucania.
Violenta, anche il padre lo è, di linguaggio cupo e chiuso. E ancora immersa
nella stregoneria, nera e bianca – la musica.
Una storia di tutti, siamo tutti
contro l’inquinamento, benché localizzata, sarebbe stata più accetta, mentre così
sembra un attacco polemico. Che un mondo moderno accula alla durezza familiare,
la stregoneria, la violenza sull’ambiente e sugli uomini – nel mentre
che dice i briganti storici combattenti
di libertà. La tradizione non è bella se è cattiva.
Il film si vede su Sky perché
all’uscita, ancora in stagione, a giugno 2019,
è andato deserto - visto da tre-quattromila spettatori, tutti in Lucania,
la curiosità della prima uscita, e subito uscito dalle sale. È difficile trangugiare
un mondo fantastico e favolistico che si pretende reale, da denuncia sociale.
Gigi Roccati, LUCANIA –Terra Sangue e Magia
giovedì 1 ottobre 2020
Il mondo com'è (411)
astolfo
Plautilla Bricci – La prima architetta
della storia moderna. Riconosciuta documentalmente autrice di un palazzetto di
fronte alla chiesa di San Giovanni in Aymo, e del completamento di san Luigi
dei Francesi, la cui costruzione era stata avviata da Fontana. Nota soprattutto
per la vila Benedetta, o del Vascello, a Porta san Pancrazio a Roma, sul
Gianicolo.
La
villa Benedetta, ridota in macerie dai cannoneggiamenti francesi che posero
fine nel 1849 alla Repubblica Romana, è stata restaurata, su due piani, nei tardi
anni 1970 come civile abitazione di Eleonora Giorgi, l’attrice moglie di Angelo
Rizzoli jr. è stata a lungo ascritta a Basilio Bricci, fratello di Plautilla.
Mentre Plautilla veniva menzionata all’epoca come coautrice, in qualità di “ottima
pittrice”. Lavorò anche alla decorazione interna della vila, insieme con altri
pittori, Pietro da Cortina, Francesco Allegrini, Giovan Francesco Grimaldi. Ma
il capitolato di appalto la dà architetta.
Villa
Benedetta, o del Vascello, fu commissionata da Elpidio Benedetti, agente
francese in Roma prima per conto del Mazzarino, il successore di Richelieu, fino
alla morte di quest’ultimo, nel 1661, e poi del re Sole Luigi XIV. Benedetti
era stato inviato in Francia del cardinale Francesco Barberini, nipote del papa
Urbano VIII, nel 1635, in cerca di opere d’arte e d’influenza politica. In
Francia divenne segretario del Mazzarino. Che lo incaricò in particolare di
organizzare il viaggio di Bernini in Francia, e poi di controllare gli artisti
francesi a Roma che avrebbero dovuto progettare il Louvre.
La
villa fu detta del Vascello per la facciata a onde. Sull’esempio delle increspature
che Bernini aveva disseminato sotto le finestre e lateralmente al palazzo d
Montecitorio. Lo stesso tipo di facciata è stata ripresa nel restauro anni
1970.
Plautilla
Bricci si diceva, almeno nel suo caso non conoscendosene altri, “architettrice”.
Non si poneva allora, fine Seicento, il problema del femminile dei mestieri.
Francia-Gran Bretagna – A un certo punto
delle sue letture, parlando di un libriccino pubblicato a Londra agli inizi dell’Ottocento,
“Intercepted Letters”, che avrebbero testimoniato di intrighi francesi contro
gli espatriati inglesi in Egitto e in Africa,
Conan Doyle usa l’espressione: “Il quasi incredibile odio che esisteva tra le
due nazioni alla fine del Settecento”. Non solo alla fine del Settecento, ma
per tutto il Millennio, si può dire, a partire dall’invasione normanna dell’Inghiltera,
fino a fine Otttocento, qua do al flotta che il kaiser Guglielmo II, volendo la
sua flotta militare grande quanto e più di
quella dei sui cugini a Londra, spinse la filogermanica Gran Bretagna
all’Intesa con la Francia. Buona parte del Novecento è stato di amicizia
anglo-francese, almeno fino alla creazione del Mec e poi della Unione Europea,
e con alti e bassi dopo – si è fatto il tunnel sotto la Manica, Brexit mostra
di avere interrotto il legame.
A
lungo i re inglesi contrastarono la creazione della nazione francese, occupando
e sovvertendo la Francia, contri Giovanna d’Arco e per molti secoli. La guerra
fu lunga e “totale”, per le dimensioni degli schieramenti bellici dell’epoca.
Ancora contro la rivoluzione francese, e poi contro Napoleone. Si era intanto
allargata, ed è poi proseguita con numerose scaramucce su tutti i mari e in
tutti i continenti nei secoli del colonialismo, nelle Americhe, in India, nelle
isole del Pacifico, e a a lungo, fino ala seconda guerra mondiale e dopo.
Soprattutto in Africa, a Sud del Sahara, e a Nord.
Giotto – Fu coetaneo di
Dante, 1267 lui, 1265 Dante. E fiorentino anche lui, essendo nato a Vicchio nel
Mugello e morto a Firenze – Dante passò gli ultimi venti anni in esilio e morì
a Ravenna, presto, di 56 anni, Giotto durò fino ai 70. Attivo soprattutto a
Assisi, Padova, Roma – e in varie altre città, Bologna, Milano, Napoli, Rimini,
Prato, etc.. A Firenze veniva richiamato di tanto in tanto, per commesse
circoscritte. Se si eccettua alla fine il campanile che porta il suo mone, per
un progetto che però non fu realizzato.
Il
campanile di Giotto non è di Giotto. Il suo progetto di campanile era una
cuspide piramidale da elevarsi sopra il primo piano, altra circa 30 metri. Il
campanile è di Arnolfo di Cambio, Andrea Pisano e Francesco Talenti. Giotto fu
chiamato a occuparsene, sovrintendente alle opere pubbliche, con lo stipendio
onorevole di cento fiorini l’anno, nei suoi ultimi anni, dal 9 luglio 1934, due
anni e mezzo dopo, l’8 gennaio 1337 moriva, settantenne. Lasciò l’impronta nel
ciclo figurativo che adorna il basamento della costruzione. Che non è opera sua
ma di Andrea Pisano, con alcuni bassorilievi di Luca della Robbia, ma a Giotto
si vuole fare credito di averlo programmato.
Giulio II – Fu papa solo
per dieci anni, il più grande committente d’arte della storia, competente,
fortunato: Bramante, il progetto di San Pietro, Tiziano ventunenne, Raffaello venticinquenne,
Michelangelo. E Perugino, Lotto, Bramantino,
Sodoma, Baldassarre Peruzzi. Committente di grandi opere, San Pietro, la Cappella
Sistina, Stanze Vaticane.
Fu
anche, da cardinale, in esilio in Francia per proteggersi dal papa Borgia che
l’aveva sconfitto al conclave, l’artefice della discesa in Italia di Carlo
VIII, con la pretesa al regno di Napoli, e della fine delle speranze italiane. Rovina
continuata da Roma, con la guerra che volle europea contro la Repubblica di
Venezia.
Guicciardini
ne è ammirato. Nel “Principe” Machiavelli ne fa perfino il modello del
“principe fortunato”. Ma non nella politica. Tentò alla fine di recuperare promuovendo
una Lega Santa contro la F rancia, ma l’Italia restò destinata allo
smembramento, nel mentre che si costituivano le nazioni europee.
Fu
la Roma di Giulio II a scandalizzare Lutero nella sua visita a Roma nel 1510, di
un papa che non era principe della chiesa ma del potere e delle ricchezze.
Erasmo lo giudicò severamente in morte, nella satira “Iulius exclusus e Coeli”,
rappresentando Giulio II che tenta invano di accedere al paradiso.
Resistenza – La Francia, malgrado la retorica, e la Germania, i
due paesi che hanno avuto il movimento di Resistenza più ampio al nazismo, la
Francia sotto l’occupazione, la Germania per i tutti i dodici anni di Hitler,
sono quelli che meno la celebrano, e anche non la fanno valere. In Germania il
silenzio è quasi totale, con l’eccezione di pochi e ininfluenti storici. In
Francia si fa di più ma poco. Per non dover aprire il fronte della Resistenza che
non fu possibile nei primi anni dopo la sconfitta, perché Hitler era l’alleato
di Stalin, la Germania nazista dell’Unione Sovietica, e il patto Hitler-Stalin
era salutato nei tre anni e mezzo fino al giugno 1942 come un patto di libertà
dal partito Comunista francese, al punto che in prossimità e durante la breve guerra
fu operato anche il sabotaggio della produzione, in favore di Hitler. Si
celebra la Resistenza sotto il regime collaborazionista di Vichy, di Pétain, ma
non si fa intera la storia.
Curiosamente, perfino al storia politica e militare è per questo monca
in Franca, sulla “drôle de guerre”, la strana guerra, non combattuta, contro l’invasione.
astolfo@antiit.eu
Tra figlio e padre quasi un capolavoro
Si procede su un’onda lunga di tensione
subliminale, senza eccessi, di scene e immagini semplici e geniali. Partendo da
un improvviso inspiegato colpo di panico del protagonista adulto in
metropolitana. E da un ragazzo inquieto, tifoso laziale che gioca a subbuteo
con un compagno invisibile. Si procede ansiosi, con l’attentato dei terroristi
Nap, Nuclei Armati Proletari, al padre vice-questore e alla sua scorta, un
attacco coi mitra, in piazza, a Roma, con sparatorie da western. L’assenza del padre,
muta. Il ritorno. La materializzazione dell’amico del ragazzo, di un amico,
calciatore abilissimo. La fuga dalla scuola. Le visite degli amici e colleghi
della Polizia. Con pistole che s’intravedono tra borse e fondine, la cinepresa
per un minuto di svago, le chiacchiere preoccupate e svagate al pokerino. Con l’amico
che appare e scompare. Fino al viaggio in vacanza in Calabria, un ritorno per
il padre. Con la coda, di notte, in una galleria non illuminata, il traffico bloccato
da un incidente. E il ritrovo con i tanti parenti, sapido e rapido. Poi tempi lenti,
dilatati, ripetitivi.
Autoritratto dell’autore da
giovane. Un bambino-ragazzo inquieto, che fugge da scuola, esce di casa la mattina
all’alba, e intrattiene un amico immaginario, con cotolette, palloni firmati da
Chinaglia, furti in sacrestia, biciclette, bagni di mare. Un po’ come “Nuovo
cinema Paradiso”, con la tensione del noir,
della violenza incombente.
La Coppa Volpi che ha sorpreso
Favino per la migliore interpretazione è in effetti sorprendente, avendo l’attore
poche pose e battute - il focus è sul bambino-ragazzo. Ma è come usa ai festival,
un risarcimento e un riconoscimento al film, indiretto potendosi premiare solo
un film, e “Padrenostro” essendo imperfetto. Un capolavoro a metà: il racconto si
stiracchia nella seconda parte, riverberando negativamente su tutto il film, la
suspense della prima metà rifluisce
in irritazione – lo spettatore si sorprende a rifarsi un rimontaggio (si fece
con successo per “Nuovo cinema Paradiso”), con 15-20 minuti in meno, la gita in
barca per esempio, qualcuna delle tante volte sopra la scogliera minacciosa al
mare, per una sorta di fai-da-te del racconto, per ridargli fisionomia tanto apprezzandone
il resto.
Claudio Noce, Padrenostro
mercoledì 30 settembre 2020
Problemi di base papali papali - 596
spock
I
preti prima tutti pedofili ora tutti ladri: solo il papa non capisce?
E Erdogan,
il primo cui fece visita, sorridente, che bombarda gli Armeni, colpevoli di essere
cristiani, dopo aver sfrattato santa Sofia?
E gli accordi di Abramo, tra Israele e i governi arabi?
Siamo laici, ma turchi?
O è la geografia che manca a questo papa, benché gesuita, e la storia?
(Perché non) si può sapere dell’accordo Vaticano-Cina?
Meglio
l’ordine comunista che le proteste di Hong Kong, ancorché umane e cristiane?
Una
Realpolitk confessionale?
spock@antiit.eu
Eco nemico di Eco
Ci creiamo nemici per farci
belli. Dichiariamo nemico anche soltanto è diverso da noi, per storia, religione
e cultura, o per il colore della pelle.
Eco parte alla Eco in questa
conferenza del 15 maggio 2008 all’università di Bologna alle serate sui classici
(già pubblicata nella sua raccolta di scritti vari dallo stesso titolo nel
2011, e ancora prima, nel 2009, nella raccolta “Elogio della politica”, a cura
di Ivano Dionigi): l’aneddoto ormai famoso del tassista pakistano a New York
che si meraviglia che l’Italia, il paese da cui proviene il suo passeggero, non
abbia nemici è spassoso. L’argomentazione porta poi avanti con baluginio di citazioni,
di autori più disparati, da Giovenale a Orwell, con sant’Agostino, Berchet
((“irto, increscioso alemanno”),Cicerone, Omero naturalmente, Tacito, Chaucer, il
Bérillon della “Policresia della razza tedesca” (più cacca, più fetida), Liutpramdo
e Lombroso, Hitler e Wagner, Franti e De Amicis, e James Bond.
“Pare che del nemico non si possa
fare a meno”, è la conclusione, “la figura del nemico non può essere avobolita
dai processi di civilizzazione”, il tassista ha ragione.
Ha
ragione? Finito il fuoco d’artificio, il dubbio viene. Sulla
scia di Carl Schmitt, l’unico che non nomina, la “costruzione” del nemico
sembra in questa conferenza l’attività principale dell’uomo. Si può dire uno
dei paradossi di Eco, che li amava – col metodo non sottile di “partire per la
tangente”, il paradosso costruendo sul paradosso. Se non che questa non sembra
essere l’attività ordinaria di Eco, che è uno di noi – non lo è? Non sa infatti costruire oggi un nemico, con
tutto il suo ingegno brillante, se non ricorrendo
a un po’ di politicamente corretto: l’immigrato siamo noi, eccetera.
Si
vede nel particolare. Nemico, dice, “oggi diremmo l’immigrato extracomunitaro,
che in qualche modo si comporta in modo diverso o parla male la nostra lingua”,
e l’extracomunitario individua nel “nemico rumeno, capro espiatorio”, cioè nella
comunità più numerosa, un milione, di più antica immigrazione, e meglio
integrata in Italia (ma già allora i rumeni non era “comunitari”?).
È vero che per rumeni s’intenono
vari tipi di rom – anche quando non lo sono. Ma i rom non sono di accettazione facile
perché non vogliono. E comunque nessuno li odia. Un nemico è un problem serio,
è un fatto di odio e di interessi, con la battute non si risolve.
Umberto Eco, Costruire il nemico, La Nave di Teseo, pp. 64 € 5
martedì 29 settembre 2020
Secondi pensieri - 430
zeulig
Guerra
giusta –
La guerra perde nel suo svolgersi le sue motivazioni, non c’è giustificazione per
la guerra giusta, Simone Weil rileva dai primi svolgimenti della guerra civile
in Spagna: “Le necessità belliche fanno dimenticare molto presto le lo scopo
iniziale; esse costringono a trascurare il desiderio di giustizia, di libertà e
dì umanità che ha fatto intraprendere
quella stessa guerra”. E un anno dopo, nei “Nouveaux Cahiers” (“Non
ricominciamo la guerra di Troia”), elenca ironica gli “ideali” per i quali i
popoli europei si apprestavano a sterminarsi: “Nazione, sicurezza, capitalismo,
comunismo, fascismo, ordine, autorità, proprietà, democrazia”.
In precedenza, però, nelle “Riflessioni
sulla guerra”, 1933, - lontana da minacce di guerra, ma “dopo il trionfo di
Hitler in Germania” – ha teorizzato come giusta perfino la guerra preventiva: “La
pace sembra meno preziosa, dal momento che può comportare gli indicibili orrori
sotto il cui peso languono migliaia di lavoratori nei campi di concentramento
tedeschi”. Contro il fascismo chiama alle armi “le nazioni ancora democratiche”.
Senza un problema di giusta causa: “Poco importa che si tratti di una guerra di
difesa o di una ‘guerra preventiva’; sarebbe persino meglio una guerra
preventiva”. Confermandosi col principio d’autorità: “Marx ed Engels non hanno
forse cercato, a un certo punto, di spingere l’Inghilterra da attaccare la Russia?”.
Non c’è una guerra “giusta” in astratto.
Specie se senza limiti.
Hölderlin – Gravosamente portato da Heidegger a
testimone della filosofia come poesia, il Dichter
des Dichters, nelle tante riflessioni
a lui dedicate (raccolte nel 1944, quando il “destino” era segnato ma non
ancora per la Germania, per certi tedeschi) e un po’ ovunque nella vasta opera.
Mentre la questione è semplice, si può dirla con Eco (“Assoluto e relativo”, in
“Costruire il nemico”): “Alcuni filosofi ingenui hanno avanzato la proposta che
solo i poeti sappiano dirci che cosa sia l’Essere o l’Assoluto, ma essi di fato
esprimono soltanto l’indefinito”.
Eco non porta a esempio
Hölderlin ma Mallarmé: “Erta la poetica di Mallarmé, che ha speso la vita per
cercare di esprimere una «spiegazione orfica della terra»”, senza riuscirvi.
Una scacco, della poesia inclusa, che Eco commenta beffardo: “Scacco che Dante
aveva dato per accettato fin dall’inizio, comprendendo che è orgoglio luciferino
pretendere di esprimere finitamente l’infinito, e aveva evitato lo scacco della
poesia proprio facendo poesia dello scacco, che non è poesia che vuole dire l’indicibile bensì poesia
dell’impossibilità di dirlo”.
Patria – “Il patriottismo è l’amore dei suoi, il nazionalismo è
l’odio degli altri”, Romain Gary, “ Educazione europea”, cap.31.
Sartre – Uno scrittore,
con curiosità filosofiche. Ha opera sparsa, rileggendo la quale gli scritti
teoretici sono parte minima, e comunque trattati in forma letteraria. Ha
immagine monolitica, ma era di suo confuso e instabile, quasi di programma.
Scriveva – la variegata dispersa produzione ha pure un senso, di teatro,
narrativa, filosofia, reportages, politica, vita sociale, memorialistica. Si
direbbe uno e centomila, come è anche giusto, suo diritto. Se non che si fatica
a non rimproverargli la coerenza, l’uniformità. Perché? Perché è professorale,
mentre era un adolescente attardato: femminista impenitente e pentito,
bugiardo, posatore (opportunista), filosofico e antifilosofico, sempre
tagliente (definitivo), e rideva anche spesso. Un adolescente, rimasto al
liceo, di quando lo frequentava, e di quando vi insegnava la filosofia. Uno che
gli piaceva andare a cento allora – “È la ragione che fa New York, città così
dura per tanti aspetti, malgrado tutto rassicurante: vi si vive a cento
all’ora” (“La regina Abemarle o l’ultimo turista”). Aperto a ogni esperienza, a
ogni vento del tempo: iniezioni di mescalina nel 1935, passività sotto
l’Occupazione, poi i caffè e le boîtes,
staliniano prima, maoista poi, il cinema, perfino i rotocalchi, e una
pubblicistica variata.
Storia – Non si sente
più molto bene. Espulsa dalle scuole e dalla ricerca, traballa, come un pugile
suonato anche se ancora in piedi nel ring. Per un forte verso anche alla fase
del rifiuto-rigetto. In America con le cancel
culture e gli inclusion standard, in Gran Bretagna con la Brexit – qui la rinuncia
alla storia si veste di ritorno a una storia non più vivente. La Francia non ne
produce più, morti Furet e Foucault. E anzi se ne disfa: le chiese che non “si”
incendiano, le svende ai fratelli in massoneria, per farci baretti e
pied-à-terre. Nel mentre che vuole chiudere e frontiere e si lamenta di essere
invasa dai mussulmani. È curioso come anche la Francia, che critica la rabbia iconoclasta
e obliteratoria americana, abbia voglia di privarsi della storia.
Francesco
De Gregori, il cantautore, storico
mancato ma di solida formazione, dice in
un sua composizione, “La storia”: “La storia siamo noi”, padri e figli, ricchi
e poveri, “nessuno si senta escluso”. La storiografia anche nelle forme del
secondo Novecento, che ne fu fertile, delle mentalità, egli esclusi, delle
minorane, delle microstorie, delle donne o di genere, trova questo compito
arduo. Ma ora si è perduta anche la storiografia tradizionale, politica e dei
grandi eventi, imperiale, economica, delle guerre, calde e fredde, delle personalità
“decisive”. “La storia dà i brividi”, canta ancora De Gregori, “perché nessuno
la può cambiare”. Ma conoscerla, anche mentre si fa? “La storia non si ferma”,
ancora De Gregori, la storiografia sì?
È
mobile: si racconta, si ricostruisce, si scrive, e quindi si riscrive.
Revisionismo suona male perché è accorgimento, arma di conflitti ideologici o
politici, ma è nei fatti, la storia non è immutabile. Nuovi documenti si
acquisiscono, nuovi metodi di ricerca, nuove sensibilità.
Vite – Una buona metà dei
film a Venezia erano di vita, propria e altrui, biografie e autobiografie,
anche di registi giovani e di poca o nessuna esperienza. In un solco già
scavato in Italia, da Nanni Moretti e, in parte, da Fellini. Ma ora senza
pretese d’autore, di costruzione comico-drammatica: come testimonianza. Vite
critiche o compiaciute non importa, ma sempre autoreferenti – così succede, in
fondo, anche nelle biografie: si racconta (romanza) una vita in cui ci si
rispecchia. Anche nella narrativa, il genere che va è la biografia, meglio se
propria – Carrère che è partito dalle vite degli altri (“L’avversario”,
Limonov, Philip Dick, “Vite che non sono la mia”), è approdato alla propria –
già in “Un romanzo russo”, in parte nel “Regno”, e ora dilaga in “Yoga”. A partire dal caso Annie Ernaux. Che però raccontava contestualizzando, mentre ora si racconta
introspettivamente.
A un secolo dalle “Confessioni” di Svevo (il genere certo è antico,
da Rousseau a sant’Agostino, ma era casi unici), una patristica rinforzata
dalla narrativa americana del secondo Novecento - fino a Auster - di cultura o
famiglia ebraica. Meglio se condita da uno storione familiare, ma anche
semplice. Anzi, ora più spesso come sagra nuda dell’autorappresentazione.
I social sono la forma
genera lizzata di questo bisogno di essere esibendosi invece che ritraendosi, seppure povera, minuscola, in fondo inerte pur
in mezzo alle frotte di follower –
che leggono distratti, come di riflessi allo specchio. E sono non un insulto al riserbo tradizionale, come sogliono
rappresentarsi, ma piccoli schermi, tenui, poco illuminati, di minute-minime
realtà, voglie, desideri, ansie, le più recenti “inadeguatezze”. Molti del
resto, che non filmano o non scrivono, pagano il cosiddetto psicoanalista per
farsi ascoltare.
L’autorappresentazione esprime un bisogno di essere, di essere
manifestandosi. Un tempo si sarebbe detto vanagloria, oggi si rappresenta sotto
il segno della sofferenza, la depressione, la disgrazia, il mal di vivere, la
crisi. Ma è anche un forma di isolamento – non salva la confessione dallo
strizzacervelli, interlocutore freddo. Di ritiro dal mondo? La massima socievolezza
come una forma di conventualizzazione, di ritiro dal mondo.
zeulig@antiit.eu