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astolfo
Caravaggio – Ce ne fu uno
prima del Merisi, Polidoro Caldara, nato a Caravaggio come da soprannome, morto
a Messina nel 1543, di 43 o 44 anni. Architetto oltre che pittore. Specie a
Roma dove fu imbarcato da Raffaello come auto per le Stanze Vaticane. Si rifugiò
nel regno di Napoli, nella capitale dapprima e poi a Messina, dopo il Sacco di
Roma. Fu molto considerato ancora nel secondo Cinquecento. Nel primo catalogo
del Secolo d’oro, di Giovan Paolo Lomazzo, “Idea del Tempio della Pittura”,
1590, Polidoro da Caravaggio figura tra i sette “governatori dell’arte”, con
Leonardo, Michelangelo, Raffello, Mantegna Tiziano, e Gaudenzio Ferrari.
Ghino
di Tacco –
Lo pseudonimo giornalistico di Craxi è stato accostato, da Craxi stesso, al
personaggio storico dallo stesso nome, ma con una nomea sbagliata: Craxi lo
voleva un bandito di passo della via Francigena, della Maremma, mentre era un
gentiluomo senese del secondo Duecento, che diventò “bandito” in quanto bandito
ingiustamente dalla sua città, e in questa veste morirà in un agguato ad
Asinalunga. Ma non era un ladrone. Era uno che lottò a lungo col papa, col
quale poi si riconciliò.
Questo è il Ghino di Tacco storico,
di cui al Boccaccio, alla novella seconda della decima giornata del “Decameron”:
cattura l’abate di Cluny e la sua corte, in viaggio per i bagni di Siena contro
l’ulcera, e lo guarisce durante con la dieta povera di fave secche, pane
arrostito e vernaccia – ottenendone in cambio i buoni uffici presso il papa.
Guerra
aerea –
È impari, e poco onorevole, quale che sia l’ardimento e il rischio: il mezzo sovrasta
di gran lunga l’intelligenza e l’audacia, le virtù eroiche o militari Al riparo
peraltro, praticamente, dalle controdifese.
Lo scrittore André Malraux, che nella guerra di Spagna si distinse organizzando
al suo scoppio una squadriglia aerea, operativa e con qualche successo nei
primi sei mesi del conflitto civile, lo fa dire da un italiano della sua squadriglia,
Scali, un fuoriuscito del regime fascista (individuabile come Nicola
Chiaromonte, l’unico italiano che fece parte della Escadrilla España o
Escadrilla Malraux), “bombardiere” – le granate venivano scaricate a mano, a
occhio, anche dallo scarico sanitario: “Scali trovava l’aviazione un’arma disgustosa.
Specie dopo che i Mori (le truppe marocchine degli insorti franchisti, n.d.r.)
scappavano. Ciononostante aspetta come un gatto che l’obiettivo arrivi nel
visore (gli restavano due bombe da cinquanta chili). Indifferente ale mitragliatrici
di terra, si sentiva insieme giustiziere e assassino, più disgustato dal
prendersi per un giustiziere che per un assassino”.
Mazzini – S i ebbe in
morte un’epigrafe di Carducci, a suo tempo e per lungo tempo importante:
“L’ultimo
dei grandi italiani antichi
e il primo dei moderni
il pensatore
che de’ romani ebbe la forza
de’ comuni la fede
de’ tempi nuovi il concetto
il politico
che pensò e volle e fece una
la nazione
il cittadino
che tardi ascoltato nel
MDCCCXLVIII
rinnegato e abilitato nel
MDCCCLX
lasciato prigione nel MDCCCLXX
sempre e su tutto dilesse la
patria italiana
l’uomo
che tutto sacrificò
che amò tanto
e molti compatì e non odiò mai
GIUSEPPE MAZZINI
dopo quarant’anni d’esilio
passa libero per terra
italiana
oggi, che è morto
o Italia
quanta gloria e quanta
bassezza
e quanto debito per l’avvenire”.
Michelangelo - A trentatré
anni Michelangelo cominciava la Cappella Sistina - a ventitré aveva già finito
“La Pietà”.
Raffaello – A 25 anni gli
vengono commissionate e realizza le Stanze Vaticane – a ventuno ha dipinto lo Sposalizio
della Vergine di Brera.
Savoia – È l’aereo
privilegiato nella disamina di Malraux, dove riflette, nel romanzo “La
speranza”, sulle possibilità della sua squadriglia, dotata di caccia francesi Potez,
contro gli aerei nemici della guerra di Spagna, gli Junker tedeschi e i Savoia:
“Se gli Junker”, contro i qali si era appena battuto vincente, riflette, “erano
cattivi”, pesanti, lenti, “i Savoia erano aerei da bombardamento molto
superiori a tutto quanto di cui disponevano i repubblicani”. .
È
probabilmente il Savoia-Marchetti S.79, operativo da un anno quando la guerra
civile scoppiò in Spagna nell’estate del 1936, ritenuto il bombardiere più
veloce.
Wandervogel – Il primo ecologismo
fu di tipo nazionalista, con risvolti, si sarebbe detto successivamente, nazisti
– anche se Hitler ne decretò lo scioglimento, dei Wandervogel come di ogni
movimento scoutistico. Fondato a fine Ottocento su basi naturaliste,
progenitore anche del naturismo (nudismo), il movimento Wandervogel, degli
uccelli di passo, fu fortemente tradizionalista, in senso sciovinista: il primo
movimento moderno di massa oltranzista dell’unicità della Germania, del
teutonismo mitico, pagano, guerriero.
In
pochi anni il movimento naturalista si dotò anche di organizzazioni paramilitari,
di cui una, la Lega della Giovane Germania (Jungdeutschland
Bund), prima della prima Guerra Mondiale, vantava 700 mila iscritti, e
un’altra, la Lega degli esploratori tedeschi (Pfadfinderbund) 80 mila. Organizzazioni attive all’interno, con
chiari intenti discriminatori, se non dichiaratamente razzisti - fu Wandervogel
per qualche tempo anche Walter Benjamin giovane, e fino al 1930 circa ci furono
gruppi ebraici tra i Wandervogel, che introdussero il sionismo tra i giovani, e
genereranno il movimento dei boy-scout in Israele. Poche le donne – mentre
fiorivano nel movimento le pubblicazioni omoerotiche, in forma di richiami
all’eros greco. E cibo organico: le prime trattazioni risalgono ai Wandervogel.
Ma il tratto caratteristico erano le Leghe (Bünde): maschili e maschie, elitiste,
medievali, di fantasie cavalleresche.
Hitler
abolì il movimento nel 1933, insieme con tutte le organizzazioni di boy-scout,
ma la Gioventù Hitleriana modellò poi sui Wandervogel: sui principi di lealtà,
dirittura, salutismo, anche nell’alimentazione – Hitler era personalmente
vegetariano.
astolfo@antiit.eu
I morti sono molti di meno, così come le
terapie intensive (i casi gravi), ma i contagi
si accrescono ogni giorno come a marzo-aprile, e anche di più.
L’aumento non è esponenziale, ma ogni giorno
il nuovo delta è superiore al precedente: la progressività è forte.
Non c’è
da preoccuparsi, si dice: questo è l’esito di tamponi, che ora si fanno dieci e
venti volte più numerosi che in primavera, e si cercano i “positivi” anche tra
i “contatti” dei contagiati, che spesso sono casi lievi oppure asintomatici. Ma
non per questo le misure restrittive possono essere più lievi: si sta tornando
rapidamente al lockdown, con le sue
trerribili conseguene economiche e psicologiche.
Le strutture sanitarie, si dice ancora, sono
meglio organizzate. E questo è meno vero. Alcune regioni, compresa la Lombardia,
che più ne aveva sofferto, hanno fatto poco o nulla.
Le terapie intensive non sono sotto
pressione, ma in Campania e Lombardia sono vicine al 30 per cento d’occupazione,
soglia che l’Istituto superiore di sanità considera critica. Lo stesso Istituto
stima che a breve la soglia sarà raggiunta in sette regioni.
Si poteva fare meglio senza sforzo. Specie nel
trasporto pubblico, bus, tram e metropolitane, nelle ore di affollamento, la
prima mattina, e alla chiusura delle scuole. Non costava per la aziende pubbliche
di trasporto programmare trasporti adeguati agli orari di lavoro e scolastici;
si è rimasti invece nella routine, con mezzi che vanno e vengono vuoti e altri
che scoppiano. Intensificare le corse delle metropolitane. Usare la flotta sterminata dei bus turistici fermi da otto mesi. Usare i bus scolastici
privati per portare i ragazzi a scuola invece che ammassati sui mezzi pubblici.
Tanto si poteva fare che non si è fatto.
La canzone di Edwyn Collins, da
cui il titolo, che Lucareli ripropone a ogni capitolo, “non ho mai incontrato
una ragazza come te finora”, decinata sul vendicativo. Quando ancora l’infettività
da Aids spaventava.
Uno dei racconti di “Giochi criminali”.
Di noir immaginari, più geometrici
che probabili, anche se collocati in luoghi e situazioni reali. Che anzi accrescono
l’iperrealtà – l’irrealtà. Anche la gravidanza di Grazia Negro, l’investigatrice
di Lucarelli, che è qui incinta, di due gemelli.
Carlo Lucarelli, A girl like you, pp. 47, gratuito con “la
Repubblica” e “La Stampa”.
Il fatto è evidente, che questo sito
argomenta ieri, la “vittoria” della Cina nella partita del virus e in quella
con l’Occidente:
http://www.antiit.com/2020/10/il-grande-balzo-in-avanti-cina-resto_15.html
Incomprensibile negli effetti diversificati
del virus, in Cina e nel Resto del Mondo. Ma è un fatto. Non c’è bisogno di
disturbare Trump, o di non disturbarlo – e poi anche lui è infetto: la Cina ha
messo tutti in ginocchio.
Né c’è da meravigliarsi: la Cina del
presidente Xi applica alla lettera la regola del “mercato” come lo si intende
oggi, mors tua vita mea. Senza
nemmeno una particolare abilità o strani accorgimenti: la Cina comunista sta ai
fondamentali del liberismo. Sorprende solo che il fatto non sia detto.
Si parla tanto, troppo, dell’epidemia,
ma non di questo che è il fatto fondamentale. Delle ragioni ricardiane di scambio
come del virus, con cui la Cina ha infettato il mondo, restandone praticamente
immune. Restiamo attaccati ai visi pallidi dei Cts, confusi più che scienziati,
e non capiamo che la storia è finita?
C’è anche, come si diceva una volta, il
disarmo morale. Ma qui non è a favore degli affaristi che la Cina arricchisce
con ricarichi immensi sulle merci che fornisce a buon mercato – la fabbrica del
mondo? La Cina comunista ha vinto cone le armi del capitalismo, lavoro a bun
mercato e sregolato, ma più probabilmente con la corruzione.
Il 20 luglio “il cannone colpiva
regolarmente come il cuore di tutta quella folla, al di sopra dei deboli colpi
di fucile che partivano da tutte le finestre e da tutte le porte, al di sopra
delle grida, dell’odore di pietra cada e di bitume che montava da Madrid”. Un
soldato ha disertato lasciando la caserma. Al bar gli chiedono ansiosi della
caserma. Lui spiega che il comandante ha detto: “Bisogna salvare… la
Repubblica”. “La Repubblica?” “Sì. Visto che è caduta nelle mani dei
bolsecvichi… degli ebrei e degli anarchici”. È il terzo capitolo del racconto
epico, da parte repubblicana, della guerra civile appena avviata in Spagna. Il
racconto di un Malraux non più giovane volontario non è ironico, se non
involontariamente: la resistenza al bar, la diserzione di un solo soldato
accasermato, le ragioni del colonnello, anche lui ben repubblicano.
Questa prima parte s’intitola
“L’illusione lirica”. È solo l’inizio della guerra ma non sarà diversa dopo: il
titolo “La speranza” sembra antifrastico. Anche se titola l’ultima parte, la
battaglia di Guadalajara, dove le truppe repubblicane si difenderanno dall’attacco italiano. E anche se i miliziani saranno infine
inquadrati, e se ne tenterà perfino
l’addestramento formale, a muoversi organizzati e disciplinati, e impegnati a
fare qualcosa piuttosto che niente, dividersi per partito, contarsi, ricontarsi.
Più che l’entusiasmo, contano in guerra i mezzi e l’organizzazione: Malraux lo
fa spiegare alla fine dell’“Illusione lirica” dal capo dei servizi di
sicurezza, che chiama Garcia. Mentre “le rivoluzioni sono le vacanze della vita.
C’è sempre un po’ di teatro all’inizio di ogni rivoluzione”.
Di curiosità sterminata, Malraux
è dannunziano il giusto. Impegnatissimo da giovane contro le ingiustizie del
colonialismo, antifascista in prima linea, “Saint-Just dell’antifascismo”, già
autore rivoluzionario itinerante di due romanzi subito famosi, “I
conquistatori” e “La condizione umana”, organizzatore e comandante in Spagna a
luglio del 1936, a trentacinque anni, col grado di colonnello e divisa di
Lanvin, di una squadriglia internazionale nella guerra di Spagna, “Escadrilla
España” o “Escadrilla Malraux”, per la quale mobilita risorse private,
volontarie (stanti le reticenze del governo socialcomunista francese, il Fronte
Popolare di Léon Blum, malgrado il coinvolgimento dichiarato di Germania e Italia),
resistente successivamente in Francia contro l’occupazione, anche se non dalla
prima ora, anzi tardi, nel 1944 – senza negare l’amicizia con Drieu La
Rochelle, suicida sotto processo per collaborazionismo. Il vero romanzo è di
Malraux stesso, uno scrittore, anche uno riflessivo, con la febbre
dell’attivismo. Ministro della Cultura di De Gaulle, ripulirà le facciate di
Parigi, avviando una gigantesca opera in tutta Europa di recupero urbano e
restauro. Qui racconta la guerra di Spagna. In tempo reale, si può dire: avvia
nella primavera del 1937 - fermi o abbattuti i suoi velivoli, già oggetto di
manutenzione radicale e recuperi fortunosi - il racconto e lo pubblica a
ottobre. Spesso fuori quadro, agitato
più che efficiente, nel romanzo come nella propria mitografia. Ma sapiente, fin
dalle prime battute, sui connotati reali e gli sviluppi della guerra. E
dolente: rassegnato anche se combattivo, per il dover essere.
C’è già pure la terminologia
sclerotica, sovietica, o di cliché,
non si quanto partecipe o critica, che avrebbe dominato per decenni: il
“volontario”, il “militante di base”, il “compagno di strada”, l’“attivista”.
Gli uomini si salutano col pugno, gridando “Salud!”, come “un coro costante e
fraterno” – “la più grande forza della rivoluzione è la speranza”. Hanno facce
giovani e allegre. E per qualche verso bizzarri nella narrazione. Nell’entusiasmo
sempre divisi, anche ostili gli uni agli altri, per fazioni politiche e per
sottosezioni, gruppi, squadre dello stesso orientamento o partito, sindacalisti,
anarchici, socialisti di destra, socialisti di sinistra, pacifisti - tutti
eccetto i comunisti - da subito, subito dopo i primi giorni del “sollevamento”.
Malraux sarà con questo romanzo
un “utile idiota” a Parigi dell’apparato propagandistico di Stalin, di Willi
Müntzenberg, mobilitato per testimoniare l’internazionalismo, contro il
“Ritorno dall’Urss”, deluso e acrimonioso, che Gide pubblicava in contemporanea
con “La speranza”. Ma ha qui, a saperlo leggere, tra le tante divisioni e
leggerezze del fronte repubblicano, un’anticipazione dello stalinismo feroce
che stava per prendere il sopravvento, la grande disfattista novità della guerra civile in
Spagna. Con un occhio già misericordioso, quasi presciente della loro sorte sotto i colpi dei comunisti, per gli anarchici - “E Cristo? Un anarchico che ce l’ha fatta”.
Il racconto in sé è poca cosa.
Organizzato, a capitoli alterni, tra le vicissitudini della squadriglia, che si
chiama España ma per la quale Malraux utilizza soprattutto i volontari italiani
(tre essi “Scali”, uno dei personaggi principali, bombardiere e intellettuale raffinato, un po’ Chiaromonte un po’ lo stesso
Malraux) e quelle dei gruppi di ferrovieri, sindacalisti, operai, contadini,
giovani borghesi, etc., nella guerra di terra, tiene alla lettura per il ritmo
che Malraux sa mantenere equilibrato, fra la concitazione e l’aneddoto
liberatorio. Ma niente resta, nessun vero personaggio, nessuna impresa. Lo
stesso Malraux si frantuma in più personaggi o spicchi di personaggi, Magnin,
Manuel, Scali, et al. Solo emerge una
indomabile confusione, o allegria dell’agitazione, volontaria, volontariamente
disorganizzata.
Resta anche, stranamente per un
racconto prolisso e da instant book, e
forse contro le intenzioni dell’autore, l’analisi delle forze in campo: delle
motivazioni, gli obiettivi, le risorse. Molte storie della guerra di Spagna
sono state scritte, ma il romanzo di Malraux sembra più nuovo e più vero.
Il franchismo viene tuttora
analizzato negli effetti e non nelle cause – come il fascismo in Italia del
resto (le esercitazioni sulle cause del fascismo sono vecchie di almeno mezzo
secolo). In una prospettiva ancora politica invece che storica – che aiuterebbe
di più. Ma di una politica squilibrata, velleitaria, che si propone fini, per
buoni o cattivi che siano, per cui non ha i mezzi – i mezzi intellettuali,
evaporato il sovietismo.
Con un quadro, all’ultimo capitolo
della “Illusione lirica”, che anticipa in breve, in due pagine, la storia vera
della fine della Repubblica in Spagna che la storiografia, anche qui, ancora
non recepisce – non capisce? non vuole? Malraux se lo fa spiegare, anche
questo, dal solito Garcia: ci sono stati due colpi di Stato contro la
Repubblica, uno è il pronunciamento,
dei generali e le “vecchie famiglie”, ed è fallito, l’altro (siamo ancora ad
agosto-settembre del 1936 ma “Garcia” ci vede chiaro), “è degli “Stati
fascisti”, di “organizzazione italo-tedesca, aviazione italo-tedesca”. E non
tanto tedesca quanto italiana, di Mussolini “spada dell’Islam”, che organizza i
Mori in Marocco, e a difetto manderà in Spagna gli italiani – i Mori in
Marocco, il Tercio, la Legione Straniera spagnola, è il corpo che Franco
legittimamente comandava prima della guerra civile, ma Mussolini ha avuto un
ruolo, che va indagato.
Un’epopea curiosamente rassegnata
quando ancora c’era entusiasmo. Benché da un punto di vista repubblicano a
oltranza. Di un volontarismo tanto entusiasta quanto imbelle. E maschile: non
ci sono donne in questo lungo, particolareggiato racconto di guerra: “La
speranza” è all male – il nome
Ibarruri ricorre un paio di volte, ma bisogna sapere in proprio che era una
donna. Al racconto della resistenza al bar segue un quadretto tragicomico: le
squadre d’assalto repubblicane hanno rimediato un cannone e lo usano come un
pistola, o una catapulta: non sanno puntare, non sanno che l’affusto va
ancorato, le granate vanno dove capita.
La grafia dei nomi è rispettata,
un miracolo per uno scrittore francese – eccetto che per l’eroe italiano della
squadriglia, uno che ha lanciato i volantini su Milano dopo De Bosis, è stato
abbattuto dall’aviazione di Balbo, è stato condannato a sei anni di confino a
Lipari, da cui è evaso per portarsi in Spagna, e morirà in Spagna in azione, ma
si chiama Marcelino, con una sola l.
Si legge oggi come un trattamentone da film - che seguirà due anni
dopo - più che un romanzo, di personaggi e intreccio. I dialoghi sono continui,
frantumati, una sorta di sceneggiatura.
Nuova traduzione di Giovanni Pacchiano,
con la vecchia introduzione di Enzo Golino.
André Malraux, La speranza, Bompiani, pp. 480 € 16
È parso in effetti ridicolo il
negazionismo del coronavirus in piazza a Roma, perché di esso si muore. E
perché è un tornante nella storia mondiale: la Cina, si può dire, batte
quest’anno, grazie all’agente microgeno, il Resto del Mondo per 17-0. Non è
male, e anzi necessario, entrare nel contagio con un occhio diverso da quello
dei Cts, i Comitati tecnico scientifici.
Si muore per concomitanza di cause, in
situazioni di deperimento organico. Ma ci si infetta di più, e anche si muore,
soprattutto nelle attività di massa, a contatto più o meno obbligato:
trasporti, fabbriche e ospedali. E non si muore dappertutto nella stessa
“quantità”, allo stesso modo, certificano concordi l’Organizzazione mondiale della sanità,
l’Unione Europea, e tutti quelli che tengono il conto.
Non si muore praticamente in Cina, che
pure al virus ha dato origine, coltivandolo anche per un lungo periodo in sonno.
Conta a oggi 15 ottobre 90 mila contagiati in tutto, su 1,4 miliardi di
abitanti, un quinto della popolazione mondiale. Come l’Honduras, che invece ha
dieci milioni di abitanti. E su 90 mila contagiati conta appena 410 morti. Gli
Stati Uniti hanno avuto 7 milioni e mezzo di contagiati, e 210 mila morti.
Tutta l’Europa è stata colpita da cinque a dieci volte più della Cina.
Effetto delle diverse misure di
contenimento? Non può essere: la Cina le ha avviate per prima, gli altri le
hanno copiate. Statistiche addomesticate? È possibile, il regime in Cina è
totalitario, ma la discrepanza è enorme. Tanto più se si considera la densità
demografica, o abitanti per kmq, per chilometro quadrato, visto che il contagio
si produce per contatto. La Cina ha una densità di 137 ab. per kmq, l’Europa di
113, gli Stati Uniti di 34. È vero che gli Stati Uniti hanno una distribuzione
diseguale della popolazione, ammassata in alcune megalopoli o in alcuni Stati,
dispersa in altri. Ma questo vale di più per la Cina, campo da una trentina
d’anni di un esodo di massa dalle campagne verso le città. L’area orientale ha
una densità di 400 abitanti per kmq – mentre sul vasto altipiano
occidentale se ne contano nove o dieci. Almeno cento città, 102 secondo
l’ultimo censimento, hanno più di un milione di abitanti. Sei, compresa Wuhan,
focolaio dell’epidemia, superano i 10 milioni – e anche di molto: Shangai ne ha
23, su un superficie uguale al Comune di Roma, Pechino 21, Guangzhou 19. E in
condizioni abitative ristrette.
L’esito è che a sessant’anni dal Grande
Balzo in Avanti del Timoniere Mao, che fu un disastro, il presidente Xi ne fa
uno non propagandato, ma forse dicisivo: ha appestato il mondo e se ne prende
le redini.
Nelle more del contagio, in questo
2020, e probabilmente ancora nel 2021, poiché la pandemia ha ripreso vigore, la
Cina ha goduto di un vantaggio comparato inestimabile, come “fabbrica del
mondo”. Soprattutto rispetto ai concorrenti: gli Stati Uniti e l’Europa vanno indietro
quest’anno di un 10 per cento, produzione, reddito, occupazione. Peggio per gli
umori o la volontà di fare: progettare, investire, accrescere la produttività.
La Cina va avanti di poco meno del 10 per cento – a oggi il 7 per cento: non
c’è più gara, la Cina batte il Resto del Mondo per 17-0.
Siamo
tutti un po’ donna islamica con la mascherina. E in effetti non è piacevole.
In
estate era dura, ma anche ora, col fresco, il fastidio resta.
Con
la museruola di seta è peggio che con quella di carta. Dà fresco alle labbra,
ma dà l’idea di soffocare.
Si
parla male, bisogna urlare – col rischio di diffondere, invece che di
bloccarle, le famose goccioline infettanti.
Non
s’incontrano visi lievi – da quello che si vede, gli occhi.
Si
fanno anche gaffes, non riconoscendo amici di intensa frequentazione, o confondendo una persona con
un’altra, l’amico e quasi coinquilino, la madre di ragazzi che sono stati di
casa, o il professore genio matematico che invece sempre ci riconosce. Si ride,
ma come di una mancanza – dirla un’amputazione è troppo, ma certo è qualcosa di cui, seppure
non costi, si farebbe a meno (è ben vero, non si dispiaccia il papa, che l’islam
non siamo noi).
Una figura di intellettuale come
usava. In una tarda raccolta, nel 1975, a seguito del successo a sorpresa di un volume di scritti linguistici intitolato a “Civiltà di parole”, degli articoli, i
discorsi celebrativi e qualche reminiscenza di studiosi e scrittori.
Devoto divaga e diverte, ogni
riga una sorpresa. Fine linguista, nato a Genova, cresciuto a Milano,
professore a Firenze, sempre partecipe delle vicende politiche ma col distacco del
letterato di fine giudizio, fece il giuramento richiesto da Mussolini ai professori ordinari “con tranquillo cinismo” (Gennaro Sasso), come poi fu immune al
contagio comunista, professandosi “federalista europeo” - con Enzo Enriques Agnoletti,
Piero Calamandrei, Corrado Tumiati, Paride Baccarini, l’élite liberal-radicale di
Firenze). La raccolta si legge come una serie di conversation-pieces,
quasi distratte ma accurate, e piene a ogni risvolto di curiosità e verità. Che
si parli di Manzoni o di Arrigo Levasti – e Giovanni Canna? Ma tutto merita la
lettura.
Una lettura – una scrittura –
come usava non molto tempo fa. Don Milani merita, Croce, Gentile, e Pareto,
Schiaffini, i tre Manzoni, privato, linguista, dissacrato, o Gobetti, così
breve e così al punto (niente di meglio, neanche nel recente revival: perché
mazziniano, perché poi marxista e spregiatore di Mazzini, il tutto in 26 anni).
Giacomo Devoto, Civiltà di persone
“Come
mai l’aeronautica italiana, che negli anni Trenta primeggiava nel mondo, si è
lasciata scivolare a fanalino di coda della tecnica aeronautica?”, si chiede un
ex pdg di Piaggio Aeronautica e di AerMacchi, che ci ha scritto sopra un libro.
Solo l’aeronautica?
Il
presidente del consiglio Conte spende 34 milioni per affidare il porto di
Taranto a una società cinese. Per fare che? Gestire il traffico della flotta
militare che vi ha la base principale, gli arsenali, i comandi?
L’Italia
che finanzia il governo cinese per farsi controllare la flotta era
inimmaginabile: Conte supera ogni fantasia.
Ma
non solo lui: nessuno sembra sapere cosa è la marina militare italiana.
Sanzioni
contro la Russia - altre sanzioni - e contro la Bielorussia chiede e ottiene
dagli altri europei la Germania. Che per conto suo continua gli affari, anche
strategici, con la stessa Russia dello stesso Putin. La lezione è sempre
quella: armiamoci e partite.
Fa
un po’ pena il giudice Davigo che lotta per restare nel Csm ancora un anno,
anche se ha settant’anni ed è in pensione. Ricordandolo nelle vesti di pettoruto
carnefice e boia nella piccola armata di Borrelli, contro i dilapidatori del pubblico denaro. Ma, da buon lombardo, difende
gli emolumenti e la scorta, e quindi che obiettare?
Spiega
il governatore Visco della Banca d’Italia a Fubini e al direttore Fontana del
“Corriere della sera” che “l’autorità di vigilanza sa bene che un crescita dei
crediti deteriorati è inevitabile”. Bene, e noi che facciamo?
Dice
anche il governatore Visco: “Le banche più piccole possono avere maggiori
difficoltà, anche per i loro rapporti con molte piccole imprese oggi più
vulnerabili”. Bene, non si potrà dire che la Banca d’Italia non sapesse. Ma la
catastrofe annunciata non è un titolo vecchio?
Santa
Sofia, armeni, curdi, la Turchia non tollera santi né minoranze, dentro e fuori
i confini. La storia lo spiega ripetutamente, ha fatto anche qualche sterminio,
solo il papa non lo sa – nemmeno un cenno nell’enciclica. Com’è possibile, c’è un motivo?
Dice
il papa nell’enciclica che la globalizzazione colpisce i poveri. Mentre è vero
il contrario, che ha portato al benessere, o a qualcosa di simile, per la prima
volta nella storia tre o quattro miliardi di persone, diciamo tre quarti
dell’Asia e mezza America Latina – e ci sta provando perfino con l’Africa. Ha
impoverito gli europei e gli americani, quelli che il papa non considera, e
parecchio anzi odia.
È
vero che mezza America Latina è, malgrado tutti gli incentivi, refrattaria. Come
il papa?
“Dalla
Rai si vedeva un Paese dove il reato non è punibile, mentre lo è non averlo
denunciato” – Walter Pedullà (“Il pallone di stoffa”, 325), che della Rai è
stato a lungo consigliere d’amministrazione, e poi presidente: la Rai non
poteva licenziare “nemmeno coloro che erano stati colti in flagrante mentre
rubavano televisori, videoregistratori, e attrezzature tecniche di alto valore
che rivendevano alle tv private”. Doveva fare causa, e inevitabilmente perderla.
Brion,
il conduttore tv accusato in Francia di molestie da una giornalista, ha passato
due anni d’inferno, tentato dal suicidio. Ora è stato assolto. Ma l’accusatrice
non è stata condannata: c’è libertà di diffamazione. La giustizia è proprio
infetta.
La
guerra di Spagna è stata doppia, spiega nel 1937 Malraux, “La speranza” – lo fa
spiegare nel romanzo dal capo della Sicurezza repubblicana, che denomina Garcia,
nell’ultimo capitolo della prima parte, “L’illusione onirica”, quindi a metà
agosto del 1936: una è stata la guerra dei reazioanri spagnoli, persa sul
cominciare - il putsch era fallito -
e una è di Mussolini.
Anali
non peregrina come sembrerebbe. “Abbiamo a che fare con due colpi di Stato
sovrapposti…. Uno è il puro e semplice pronunciamento
delle famiglie, vecchia conoscenza. Burgos, Valladolid, Pamplona, Sierra. Il
primo giorno i fascisti avevano tutte le guarnigioni di Spagna. Non gliene
rimane già più che un terzo. Questo pronunciamento
insomma è sconfitto. È sconfitto dall’Apocalisse. Ma gli Stati fascisti,
che non sono idioti, hanno perfettamente previsto il fallimento del pronunciamento. E, a partire di là,
comincia il problema del Sud. Attenzione: non è della stessa natura. Per sapere di che parliamo, mettiamo da parte
la parola fascismo. Uno: Franco se ne frega del fascismo, è un apprendista-dittatore
venezuelano. Due: Mussolini se ne frega,
in sé, d’istituire o no il fascismo in
Spagna: i problemi morali sono una cosa, la politica estera è un’altra”. E a
questo punto chiarisce la sua diagnosi:
“Mussolini
vuole qui un governo sul quale possa agire. Per questo, ha fatto del Marocco
una base d’aggressione. Da lì parte un esercito moderno, con un armamento
moderno. Siccome non possono contare sui soldati spagnoli (l’hanno visto a
Madrid e a Barcellona), si appoggiano su truppe poco numerose ma di valore
tecnico: Mori, Legione Straniera, etc.”. Si discute se i Mori siano dodicimila
o quarantamila. Poi Garcia prosegue: “Nessuno qui ha studiato neanche un poco
il legame attuale delle autorità spirituali dell’Islam con Mussolini. C’è da
aspettare poco! La Francia e l’Inghilterra avranno sorprese. E se i Mori non
bastano, ci manderanno gli Italiani”.
Che
vuole l’Italia, chiede qualcuno. Garcia: “A mio parere, la possibilità di controllare
Gibilterra, cioè la possibilità di trasformare automaticamente una guerra
anglo-italiana in guerra europea, costringendo l’Inghilterra a fare questa
guerra attraverso un alleato europeo. Il relativo disarmo dell’Inghilterra
faceva preferire a Mussolini d’incontrarla da sola; il suo riarmo cambia al
fondo la politica italiana”. Una tesi come un’altra, il capo dell’intelligence
repubblicana se ne rende conto: “Queste sono solo ipotesi, chiacchiere da caffè
Commercio”. Ma non del tutto: “Ciò che è serio è: sostenuto nel modo più concreto
dal Portogallo, aiutato dai due paesi fascisti, l’esercito di Franco – colonne
motorizzate, fucili mitragliatori, organizzazione italo-tedesca, aviazione
italo-tedesca – proverà a marciare su Madrid…”,
Si parla qui di Mussolini dopo la guerra vittoriosa in Etiopia.
La felicità che è la sua cifra,
la felicità verbale di sempre - “le sue esatte visioni verbali” nella quarta di
copertina: Patrizia Cavalli non delude i suoi lettori. Ma di nuovo, per la seconda
o terza volta, recriminatoria: la musa non amusa, si dice col francesismo, non si
diverte e non diverte. È l’età? Le attese frustrate? Gli amori traditi?
Il titolo è antifrastico, benché la plaquette dallo stesso nome finisca con un’ode, “Con Elsa in Paradiso” - o, con identica rima, nella quartina del titolo: “Vita meravigliosa\ sempre mi meravigli\ che pure senza figli\ mi resti ancora sposa”. Cantante sì, ma in sibilanti, senza più la
baldanza, e come in ritirata: gli amori sono abortiti, i pasti solitari, la
compagnia non allegra, il quartiere inamabile. Versi per lo più, sotto lo
scherzo, le rime marcianti, le sonanti assonanze,
le invenzioni linguistiche, malinconici. Nemmeno la gatta è di compagnia, giusto
il whisky.
“A chi parlo quando parlo da
sola”, la terza plaquette, è un
cachinno incattivito, di una “occupata
da poveri pensieri,\ la puzza di fritto, il freddo”. Rassegnata: “Si morirà per
noia, dolcemente”. L’amante le scale di casa sale “con una torva malinconia\
brutale”. “Errore” rima con “amore” quando il “corpo” è “morto”. “Quattro sorsi”
di whisky dimostrano “che non siamo\ quel che siamo, che il nostro essere\ si
accende quando è caldo, o si disperde\ nel freddo buio della sobrietà”. E
dunque il quesito di copertina. “Cosa non devo fare\ per togliermi di torno\ la
mia nemica mente:\ ostilità perenne\ alla felice colpa di esser quel che sono,\
il mio felice niente”. Non propriamente felice, se non irridente. Perfino
saffica di scuola, liceale: “Ormai lo so\ tu ami Sulpride…”.
Il tema è il corpo. E il calore
che manca. Versi come sempre di egotismo, stanco. Un diario, seppure a
singhiozzo. Ogni verso, ogni parola, ogni cosa autoreferente, le amanti, la
casa, il sonno, i sogni, gli amici, i passanti. Col fantasma degli anni. E
degli amori inaciditi, tutti. Non è ancora l’inverno, il desiderio resta forte,
è settembre, nella lunga plaquette di questo titolo. Ma niente più baldanze, a
letto e fuori: “Acre novità della stagione,\ il freddo ai piedi”.
Non più il gioco e lo scherzo. Oppure
sì, ma legato allo specchio, inamichevole: “Al mattino mi svegliano i pensieri\
già predisposti delle mie rovine”. Alle quali farà uno sberleffo, come usa, ma
senza più convinzione. La lingua è meno ritmata, a cadenze lente, prosastica. Irriverente
sempre: “O femminista, sogno del potere,\ parli di donne e diventi generale,\ formi
il tuo esercito con le spaventate\ che spaventi di più e ti sono grate”. Col
cipiglio da “casta dissoluta”. Ma non più gioiosa – ridente in umbro-toscano?
Patrizia Cavalli, Vita meravigliosa, Einaudi, pp. 119 € 11
spock
Viene
prima Rembrandt o prima Caravaggio?
“Non
c’è grande arte rivoluzionaria, perché?”, A. Malraux, “La speranza”?
Un
brutto quadro dichiarato d’autore diventa bello?
A
che prezzo?
E se
il “Salvator Mundi di Leonardo”, quotazione mondiale record, 450 milioni di
dollari, fosse un falso, ben fatto?
Cambierebbe
qualcosa?
Il
“Salvator Mundi” è di Leonardo, in qualche maniera, perché l’ultima restauratrice,
Dianne Dwyer Modestini, è stata intelligente e capace, e allora: dov’è l’arte?
spock@antiit.eu
Poco pubblicizzata, una ricchissima mostra video-fotografica della produzione Rai di film e telefilm (serial) “gialli” e “neri” - “Viaggio
nel giallo e nero Rai” è il sottotitolo – che è anche un abbozzo di storia del
genere in Italia. Si scopre che è la Rai che ha imposto in Italia il gusto del “giallo”,
genere letterario prima poco amato – ancora engli anni 1960 Scerbanenco era
amato in Francia e clandestino in Italia. E nello stesso tempo lo ha
trasformato, con meno violenza, e più lieti fini. Con una serie sterminata di
produzioni, decine di serie, centinaia di titoli. Di produzioni originali, “Il
tnente Sheridan, “La baronessa di Carini”, adattamenti letterari, di Gadda (il
commissario Ingravallo) o di Camilleri (Montalbano). E importate: il tenente
Colombo, Kojak, l’ispettore Derrick, etc.
Si scopre anche il “Twin Peaks”
inquietante di trent’ani fa di David Lynch, che ha aperto la tv al genere
onirico-fantastico, anticipato nel 1975 da Daniele D’Anza, “L’amaro caso della
baronessa di Carini”, che avevamo dimenticato - la Rai fa molte riproposte, ma non del meglio: quattro puntate mozzafiato, un capolavoro.
Dalle teche Rai è possibile
rivedere in streaming da una mezza
dozzina di postazioni video le icone di questa lunga serie, “circa 80
produzioni”. Commentate da giallisti e studiosi, Aldo Grasso, Manzini, De
Giovanni, De Cataldo, et al.. Più un paio di centinaia di fotografie.
È anche vero che lo stile Rai, se
ha reso dominante un mercato che ancora negli anni 1970 era di pochi, però lo
condiziona: conta l’intreccio, il plot, anche stiracchiato, la “soluzione”, con
qualche coloritura, e manca, se non in pochi, forse solo Camilleri e Mariolina
Venezia, lo spessore: l’ambiente, anche solo geografico, e i personaggi, specie
nei ruoli secondari e marginali, quelli che fanno l’ambientazione.
Maria Pia Ammirati-Peppino
Ortoleva (a cura di), Sulla soglia del crimine, Museo di Roma
in Trastevere
La
pavimentazione del raccordo tra piazza Venezia a Roma e via Nazionale - via IV Novembre: 405 m. dice wikipedia - blocca mezza citta da
sei mesi. Difficoltà per arrivare alla stazione ferroviaria, con lunghe
peripezie per auto private e mezzi pubblici. Traffico intasato sul Corso, che è
isola pedonale. Problemi per la Prefettura, che affaccia su via IV Novembre.
Cioè, per la Prefettura no – solo in parte: sinuosi corridoi sono stati
disegnati per consentire al Prefetto l’accesso al suo cortile da piazza Venezia. Isola felice, oltre alla Prefettura, il cantiere stesso recintatissimo, dove due o tre operai vanno avanti e indietro, per non sembrare che non fanno niente.
Il rifacimento di via IV Novembre
consiste nella rimozione dei sampietrini e la stesura dell'asfalto. In
parallelo col lungo cantiere c’è stato e c’è su eBay e altre piattaforme
un rilancio del mercato dei sampietrini: un mercato da alcuni mesi rifiorente,
anche se, bizzarramente, con prezzi in ascesa malgrado l’offerta abbondante –
la richiesta è anche di un euro l’uno. Si prolunga il cantiere per prolungare il mercato?
Singolare analisi del
governatore della Banca d’Italia Visco al “Corriere della sera” ieri in materia
di crediti deteriorati (“una crescita dei crediti deteriorati è inevitabile”): “Le
banche più piccole possono avere maggiori difficoltà” se il governo non
sostiene i settori produttivi – come se le banche più piccole fossero un mondo separato
da quelle più grandi.
Visco peraltro si limita a
chiede solo misure di sostegno al reddito, “sussidi di disoccupazione”. Perché
non un prolungamento delle scadenze debitorie, con pagamento pubblico pro rata degli
interessi? Come se la banca fosse un mondo a parte – odioso anche per il
banchiere centrale?
.
C’è stato un rischio deflazione,
“legato ai prezzi dell’energia, che sono crollati”, spiega ancora Visco al “Corriere
della sera”. È per evitare la deflazione che l’Arera impone un aumento del 15,6
per cento per la luce, e dell’11,4p er cento il gas, mentre i prezzi delle materie
prime vanno sempre al ribasso?
L’aumento per la luce della “materia
energia”, dice l’Arera (Autorità di Regolazione Energia, Reti, Ambiente), è
stato maggiore, 17,5 per cento, ma la componente dispacciamento consente un
risparmio del 2 per cento. Con i prezzi del petrolio greggio ai minimi storici?
È solo in Italia che la bolletta
energetica è incomprensibile, soprattutto quella elettrica. Tra materia energia,
dispacciamento, oneri di sistema, tre o quattro accise, Iva. Resta che il kWh
prima dell’aumento preannunciato si paga ben 25,28 centesimi di euro, 500 lire.
L’Arera giustifica l’aumento
in realtà, se se ne legge il comunicato, col bisogno di riempire le casse
degli “oneri di sistema”. Che nel lungo lockdown,
e quindi del crollo dei consumi, si sono svuotate. Oneri di sistema sono le “provvidenze”
per i produttori di energie alternative ai combustibili fossili, l’Enel principalmente
e gli innumerevoli manipolatori di parchi eolici (l’investimento di maggior profitto).
Per loro non ci deve essere crisi, sono verdi,
benefattori dell’umanità.
Vasto tema, e per natura
ecumenico. Che Butler taglia e cuce asintatticamente. Da Gandhi in poi,
compreso Pannella, molti sono i casi di politica di successo con la
nonviolenza. La cui forza, cioè, è non solo evangelica o morale, personale, ma
sociale e politica. Butler ne fa un’arma tagliente, un’ascia, e non si capisce
nemmeno bene bene a quale buon fine? La trattazione, che verte soprattutto
sulla violenza della legge, delle istituzioni, da Hobbes fino a Walter Benjamn
e Foucault, si apre con citazioni di Gandhi, naturalmente, e di Martin Luther
King, gli apostoli della nonviolenza. Ma anche di Angela Davis che tanto
apostolica non vuole essere: buona comunista, ma una che ammassava armi in
gioventù come una trumpiana qualsiasi – armi che poi uccisero.
La violenza è qui della
legge, del potere. Politica e personale. Sulla traccia di Hobbes, del Leviatano
politico, dello Stato. E di Freud, Lacan, Melanie Klein, Memmi, Balibar, con la solita lettura anomala di Frantz Fanon, e in
parallelo di Walter Benjamin, dei sensi di colpa, dell’inoculazione del potere
castrante. La nonviolenza è una difesa obbligata.
Butler marcia col machete, come
al solito. Arando soprattutto il filone di Hobbes, della violenza del potere e
della paura. Che però non discute. Del
tutto assente il dibattito sulla Auctoritas, di Alessandro Passerin d’Entrèves
in ambito anglosassone, di Carl Schmitt in quello continentale. Del tutto
assenti – questione confessionale? Ma in teoria Butler è immune all’ebraismo – anche
i Vangeli. E, curiosamente, Hannah Arendt, che pure ha trattato per esteso gli
stessi temi quando era difficile, a cavaliere del Sessantotto: “Sulla
rivoluzione”, “La disobbedienza civile”, “Sulla violenza” – per lei un solo
riferimento, e derisorio: se avrebbe avuto un risposta, nella violenza del
potere, alla violenza della legge.
Il gioco di Butler è semplice. Si
assume un Grande Nemico, che il mero buonsenso esclude, e ci dà addosso.
Un’arcana biopolitica considera degne “di lutto” (di protezione) certe vite,
non c’è bisogno di dire quali, e altre invece ritiene “dispensabili”
(eliminabili). Indovinare non è difficile: si “dispensano” vite per razza,
identità, e genere (gender). Ma in quale repubblica?
Judith Butler, La forza della nonviolenza, Nottetempo,
pp. 300 € 19
zeulig
Anticipo – Il termine
sportivo “giocare d’anticipo”, etc.) si può dire la chiave della politica: il
contatto con una realtà ancora in formazione, per parare o prevenire un danno, comunque
per contrastarlo e governarlo, e per avviare un progetto.
Assoluto – È creazione
(presupposizione) del relativo – il relativo presuppone l’assoluto, l’assoluto
non è assoluto. È stata questa la sua prima nozione, e non ce n’è altra
migliore.
Dialetto – Se ne fa una
questione italiana fra Gadda e Pasolini, una sorte di espressionismo
linguistico, con una seconda lingua – o una terza, nella commistione fra
dialetto e italiano. Ma in entrambe le forme è stata di suo anglosassone, si
può dire da sempre, di Dickens come poi di Mark Twain, o Faulkner e la
letteratura southern – specie delle
scrittrici americane del Sud, Margaret Mitchell, Flannery O’Connor, Carson
McCullers. È eccezionale nelle lingue continentali, di nazioni non
isolane, che si isolano con la lingua nazionale corretta, istituzionalizzata.
Dissenso – Si vuole, si
voleva negli anni 1970 in Italia, “istituzionalizzato”. Per il recupero delle
frange politiche extraparlamentari, delle autoriduzioni, della disobbedienza
civile in genere. Su un presupposto semplice: la differenziazione o la lotta non
sono contro natura. Ma istituzionalizzato il dissenso non può più essere
anti-sistema: la disobbedienza, per quanto civile, non può essere regolata.
Feudalità - Dal Trentino
e la Savoia a Siracusa, c’è sempre un castello o un’acropoli a presidiare i
centri meglio integrati e ordinati, socialmente, anche economicamente dove
l’economia è legata al territorio. È sulla feudalità che si innesta l’armonia sociale,
in Italia come altrove in Europa, nel mondo tedescofono, nella Francia del Nord
e in Provenza, in Inghilterra più che in Scozia. Altrove, regni assoluti e comunità
informi, per esempio l’ex Regno di Napoli, la coesione sociale è labile, la
capacità organizzativa, e la stessa accumulazione primaria, difficili –
l’economia è il “posto”, il re, lo Stato. Bisogna ribaltare la storia economica
e sociale? La feudalità ha prodotto (organizzato, consolidato) la stabilità, la
socialità, l’applicazione per molti versi immune dal bisogno, e quindi il
futuro – un serbatoio di adattabilità invece del rifiuto, la capacità di
adattamento e adeguamento invece della “fuga” (rifiuto, emigrazione), la costruzione
del futuro. In assenza, comunità “liquide”, senza capacità organizzativa, e
anche senza radici se non sentimentali –
la lamentazione del Sud.
Guerra – Le cause e le
conformazioni odierne sono ben sintetizzate da Riccardo Bacchelli, in una sorta
di visione, in una sua “favola esemplare” africana del 1970, “Negro e nera” (in
“Africa tra storia e fantasia”, 143): “La guerra universale ne produsse un visibilio
di particolari da cui nacquero altre più o meno generali, con alleanze e coalizioni
fatte e disfatte; e guerre fredde e paci calde; sconquassi, catastrofi,
cataclismi militari, e politici e sociali, speranze che nascevano dalle paure,
paure infine che ognuno, a forza di spacciar menzogne agli altri, credette
soltanto alle proprie, e per non saper più chi ingannare, ingannò se stesso, in
nome della guerra giusta, ognun la propria, contro le guerre ingiuste, tutte
degli altri”. I casi delle guerre del Vietnam, allora in corso, e poi di Grenada,
del Golfo, dell’Iraq, dell’Afghanistan, della Libia, della stessa Siria ne sono
esemplificazioni patenti. E anche la
conclusione dello scrittore sembra matura: “Infine fu proclamata, gioco di
parole ma della disperazione, «guerra alla guerra»”. Un gioco di parole. Ma, di
fatto, la guerra è sempre un attacco, un sopruso, condito di varie ipocrisie,
di cui si ha coscienza – la retorica è un’arma attiva, non passiva. La
“celebrazione” appena conclusa della Grande Guerra come sacrificio di milioni
di giovani che non c’entravano nulla, non difendevano nulla, e per questo nulla
morivano ne è esemplificazione.
Legge – È inclusiva o
esclude? Redime o recide? Il reo e il nemico non solo, ma con la forma ogni
soggetto, sia pure il meglio intenzionato. Le leggi sono nate per regolare la
vita associata, per favorirne la fioritura. Ma cristallizzano nel senso
dell’esclusione, dello straniero come, dentro la comunità, del reo.
Passato - Non è irreversibile,
non è definitivo, si sa, è intuitivo. Non nel suo strumento, le parole. Il
linguista Devoto, l’autore di “Civiltà di parole”, ha un ripensamento mentre si
accinge a configurare un “Civiltà di persone”: “Le parole hanno una loro
civiltà, che risulta da secoli di erosioni, sovrapposizioni, sedimentazioni,
esplosioni. Sono fonte di curiosità e di sollecitazioni, inesauribili. Ma esse chiariscono sempre un passato ,
definitivo, irreversibile, qualcosa che non è più vivo”. Ma non è il contrario?
Politico - Per quanto
progettuale è un conservatore. Per quanto animoso un nemico della guerra. Non è
un paradosso: “Lo scopo del politico, di qualsiasi ideologia, è la lotta contro
la guerra, intesa nel suo senso più ampio, guerra esterna e guerra interna. Ogni
medico, attraverso infinite gamme, è un conservatore (di vite umane); oni
politico, attraverso infinite gamme, è un conservatore (di valori umani)” – Giacomo
Devoto, “Civiltà del dopoguerra”, 1955.
Problema – Deve recare
in sé la soluzione. Quello politico come quello sociale. La causa sociale ha in
sé la soluzione, come il problema politico. E una sola, seppure in differenti accezioni
e modalità.
Storia – “Ovunque,
quando ci sono rivoluzioni o drastici cambi di potere, gli archivi vengono
distrutti, perché il primo nemico è la storia”, la regista Mina Akbari, “La
Lettura”, 4 ottobre. Non solo nelle rivoluzioni o nelle successioni ai tiranni,
come molte volte i papi, la storia si vuole cancellata anche dalle avanguardie,
del nuovo, in arte, poesia, letteratura, e la stessa storiografia. E non solo
nella forma degli archivi, ma anche in quella degli specchi e dei lampioni, e delle
fonti di luce e di immagine – nella rivoluzione francese e le successive usava
rompere vetri e specchi, statue e quadri, da molto tempo quindi prima della cancel culture. La storia è una forma di
immagine, di sé e degli altri - di sé e quindi degli altri.
La
cancel culture è una forma di negazione di sé, sotto forma di storia – di
revisionismo della storia? Probabilmente sì. Una sorta di suicidio collettivo,
quella che si pratica nelle sette. C’è molto di settario (fondamentalista,
integralista) nella mentalità americana, al di sopra della razza, bianchi, neri
e ispanici in uguale misura e modo, e del dislivello sociale, ricchi e poveri
in uguale misura, istruiti e ignoranti – o attraverso le “razze” e i dislivelli.
Tempo – È appiattito
nel sentito contemporaneo, della “rivoluzione permanente” tecnologica, che si
traduce in “tutto subito”. Mentre è lento, pure nelle trasformazioni, depurate
della pubblicità, dell’autopromozione del business
invadente. Si tende a schiacciarlo, comprimerlo anche, anche retrospettivamente,
nella storia. Si legge san Paolo e si pensa il cristianesimo in atto – che oggi
ci ingombra. Ma passarono due secoli e mezzo di tensioni, persecuzioni, apologie,
divisioni, prima che il cristianesimo fosse riconosciuto, quale “curia” e non
più “setta” – fino al 316.
Il
mondo va più in fretta? È un tempo senza tempo? Il tempo della rivoluzione
permanente? Sì, a sentire la pubblicità. Che però è sempre la stessa, intesa a
vendere – “non farti mancare l’occasione”.
zeulig@antiit.eu
La filantropia esentasse è una colonna dei
progetti culturali e sociali americani: il “terzo settore”, molta ricerca, e
quasi tute le istituzioni culturali sono finanziate privatamente, con donazioni.
Che il fisco agevola. È un caso di notabilato, ma con ottimi esiti, sia produttivi
che sociali, di perequazione. È anche un forma di accumulo, per i ritorni d’immagine
e pubblicitari.
Animano fondazioni e donazioni anche i nuovi
superricchi, Bezos, Zuckerberg, Gates, eccetera. Per gli effetti d’immagine e
promozionali, e anche per l’acquisizione indiretta di potere politico.
Le donazioni esentasse sono dal secondo
Novecento un mezzo per acqusisire potere politico. E per gestirlo. A vantaggio
dei ricchi, e dei potenti: vanno esentasse infatti anche le donazioni ai
politici. In campagna elettorale esse servono ad acquisire potere sul candidato
che si sponsorizza. Il quale a sua volta può fare aggio sulle donazioni per
costituirsi una piattaforma solida in campo politico: è il caso della
fondazione di Bill e Hillary Clinton, e di molti senatori.
Le donazioni in ricerca sono un canale per
allargare la rete degli interessi economici. È il caso della fondazione Bill e
Melinda Gates, i padroni di Microsoft. Che ha puntato sui vaccini anti-Sars –
di cui il covid è l’ultima manifestazione.
Ideata e sceneggiata da Paolo
Giordano, forse sul caso del ragazzo americano caduto nel Tevere per voler fare
l’equilibrista sulla spalletta del ponte Sisto, ambientata in una base
americana inventata a Chioggia, forse per far vedere bei nudi maschili frontali,
negli spogliatoi e al mare, raccontata da Guadagnino con la tecnica casuale che
è la sua cifra, una mini-serie di niente – almeno alla prima puntata. Cinquanta
minuti, cinque-sei episodi evanescenti, inconcludenti: un paio del ragazzo con
la madre colonnello comandante della base; un paio alla scoperta della base e
delle vicinanze, con bei ragazzi nudi e ragazze troppo grasse o troppo magre; il
ragazzo ubriaco e sperso salvato dalla compagna della colonnella, infermiera. Il
tutto tenuto assieme dalle cuffie, un distanziometro da quarantena, di autoisolamento
radicale. E dalla voglia di birra, negata in ragione dell’età, ma si sa come
vanno queste cose. Senza peraltro desiderio o curiosità, né di contatti né di
alcol.
È un mondo diverso che Guadagnino
propone, sulla traccia di Giordano scrittore dell’adolescenza: casuale, senza idee
o passioni o turbamenti? Me nemmeno questo si può dire.
Luca Guadagnino, We are who we are, Sky