sabato 24 ottobre 2020
Virus mortale con la sanità privata
Gli Stati Uniti registrano a oggi 24 ottobre più contagi da covid-19 di tutta l’Europa, Russia inclusa: 8,5 milioni (8.493.669). Contro 8,1 (8.112.696) in Europa. Di cui 1,5 milioni in Russia (1.480.646). Gli altri paesi europei più colpiti sono, a scalare: Spagna (1.046.132), Francia (1.041.075), Regno Unito (830.998), Italia (484.869).
Problemi di base - 602
spock
“Il
male non può vivere, il bene\ non può morire”, J. Kerouac?
Si è
intelligenti per essere saggi?
Si è
saggi per essere intelligenti?
La
stupidità esiste, senza rimedio?
La
resistenza è obbligata?
A
rischio della pace, della vita?
spock@antiit.eu
Prussia verde a Stalingrado
Per la serie “Italia in giallo”
un non- giallo: l’eroe di “Ben Pastor”, Martin Bora, maggiore della Wehrmacht e
dei servizi segreti di Hitler, si difende, male, a Stalingrado, la Tsaritsyn
dei suoi nobili nonni, la notte di Natale del 1942. In compenso, un piccolo
capolavoro di scrittura: Maria Verbena Volpi, “Ben Pastor”, ricrea la Prussia
orientale di prima del diluvio – della germanizzazione - con la sola
topografia, vecchia e nuova, e con la nostalgia del verde. Con sfumature di colore,
di odori. Si sa che Bora non può morire, servirà per altre avventure, ma il
senso della fine, della morte, emerge da questo geniale contrappunto.
Curioso anche, perché la Prussia
orientale, anche prima della russificazione, non era propriamente verde. Una
creazione di testa. Sulla lettura di Garcia Lorca, di cui Pastor, a lungo
umanista di professione, è studiosa, la “Ballata sonnambula”, che comincia col
verde: “Verde que te quiero verde.\ Verde vento. Verde rami…”.
Ben Pastor, Il giaciglio d’acciaio, “La Stampa-la Repubblica”, pp. 47 gratuito
col quotidiano
venerdì 23 ottobre 2020
Il deserto dell’opinione
È
singolare, perfino delittuosa, l’impreparazione di fronte alla seconda ondata
dell’epidemia. Delittuosa anche nel silenzio, dei media e delle istituzioni. Coi ridicoli peana alla chiusura di bar e ristoranti dalle 23 alle 5, a Milano, dove a quelle ore dormono tutti.
Vediamo.
Non si è fatto nulla per il trasporto e l’ospedalizzazione, la profilassi e la
cura del coronavirus. A decine s’infettano gli ospiti delle case di riposo, come
in primavera, nelle stesse case di riposo della primavera. Non si sono
moltiplicate le terapie intensive, solo di poche unità. Non si sono mobilitati,
adeguatamente protetti, i medici di base per la diagnosi: bisogna fare capo a
un numero verde che non risponde mai, o altrimenti occupato. Si fanno file di
chilometri e di giorni per il tampone. Col peso dell’ansia. Spargendo il contagio
invede di limitarlo. Ma tutto è business
as usual. Mancano perfino i vaccini antinfluenzali, nel Lazio come in Lombardia, che sono sempre stati disponibili. Ora bisogna comprarli? Sì.
È una situazione che ha dell’assurdo, da ridere, anche se amaro. Ma nel deserto dell’opinione è angosciante: un paese che non sa quello che gli sta succedendo, che si sta procurando da solo, per la stupidità, l’insipienza, il burocratismo, cioè il menefreghismo, è quasi impossibile da concepire, è pazzesco, ma è quello in cui viviamo.
Letture - 436
letterautore
All’italiana – S’intende, a letto, la penetrazione anale. Almeno nella
tradizione francese, censita da Diderot in uno dei dialoghi dei “Gioielli
indiscreti”. Malraux se ne serve ne “La speranza” per una digressione salace
dalla narrazione bellica, di un volontario della sua squadriglia aerea
arrestato su protesta di alcune prostitute con le quali aveva pattuito, secondo
lui (ma non sapeva lo spagnolo) di farlo “all’italiana”, e per questo aveva
pagato. Per un aio di pagine non fa che ripetere ogni due frasi “all’italiana”:
siccome né l’una né l’altra voleva farlo “all’italiana”, lui voleva i soldi
indietro, da qui l’appello delle prostitute alle forze dell’ordine.
Arte – È, può essere,
rivoluzionaria, ma per sé: “L’arte non è un problema di tematiche”, spiega il
compagno pittore di Malraux, “La speranza”, il romanzo della guerra di Spagna:
“Non c’è grande arte rivoluzionaria, perché?”
Chiaromonte – È lo Scali di Malraux
nella guerra di Spagna, “La speranza”? Molti tratti del personaggio rinviano a
lui. Che non era l’unico italiano nella “Squadriglia España”, o “Squadriglia
Malraux”, che operò sul fronte repubblicano da luglio 1936 a febbraio 1937,
come le biografie dicono, ce n’erano altri. Malraux menziona nella sua
squadriglia altri nomi italiani, un Camuccini e un Marcelino. Proprio così, un
nome spagnolo per “il miglior bombardiere della squadriglia internazionale e
eccellente capo equipaggio”. Di cui ha dato specifici connotati: un pilota
d’idrovolante, che dopo Lauro de Bosis aveva ritentato l’impresa di buttare i
volantini su Milano, era stato intercettato e atterrato dagli aerei di Balbo,
era stato condannato a sei anni di confino, era evaso da Lipari, e s’era
arruolato nella squadriglia España nella guerra civile.
Di Scali Malraux parla nel romanzo a più riprese. Con questi connotati quando
si presenta in squadriglia, e si discute se è italiano o spagnolo: “Il viso un
po’ mulatto di Scali era in effetti comune a tutto il Mediterraneo
occidentale”. Caratteri somatici che ribadisce quando lo nomina ufficiale di
collegamento con la Direzione operazioni e con la Sicurezza (incarico
specialmente delicato questo, la Sicurezza dovendo controllare i tanti
volontari, per evitare il facile intruppamento delle spie): “La sua cultura facilitava
i rapporti con lo stato maggiore dell’aria, composto quasi interamente da
ufficiali del vecchio esercito. La sua cordialità piena di finezza, di uomo
ancora tozzo ma che crescerebbe grande, rendeva facili i rapporti con tutti,
Sicurezza compresa. Era più o meno amicone di tutti gli italiani della brigata,
e della maggior parte degli altri (l’esclusione riguarda i tre-quattro membri
supposti essere comunisti, n.d.r.). Infine, parlava molto bene lo spagnolo”.
Subito dopo, in altra circostanza, Malraux ribadisce: “Quando Scali sorrideva,
aveva l’aria di ridere, e la gaiezza, restringendone gli occhi, accentuava il
carattere mulatto del suo viso”.
Scali ritorna nel racconto quando si parla di ideali e idee. Talvolta una sorta
di alter ego di Malraux, in quanto esperto d’arte, e rivoluzionario senza
paraocchi. Nel dibattito centrale sul
ruolo dell’intellettuale, per esempio, nella politica e nella rivoluzone –
partendo dalle riflessioni e le prese di posizione di Unamuno, prima a favore,
poi contro, e in definitiva a favore, seppure di malavoglia, della Repubblica – la Repubblica di Azaña, che
non stimava, massonica, divisiva. Una volta è incaricato di interrogare un pilota italiano abbattuto. Il
pilota non sembra impressionato (essere prigionieri in guerra è una sinecura)
quanto incuriosito: “Ciò che lo meravigliava era forse lo stesso
Scali: quell’aria da comico americano, dovuta meno alla faccia, dalla bocca
spessa ma dai tratti regolari malgrado gli occhiali di tartaruga, che alle sue
gambe troppo corte per il busto, che lo facevano camminare come Charlot, alla
giacca di camoscio, così poco «rossa», e alla matita sull’orecchio”.
Scali deve portare gli occhiali in avanti per controllare i documenti del
pilota: “Non era miope, era presbite”.
Croce – Se ne minimizza la
filosofia, se ne critica la storiografia, se ne contesta la poetica, l’impatto
sulla storia letteraria. Ma se ne trascura la prosa, che invece mantiene la
compattezza di Manzoni. Con beneficio dell’italiano, della scrittura, argomenta
il linguista Devoto in “Civiltà di persone”, p. 32. Attaccato da Carducci (da
sinistra?) e da D’Annunzio (da destra?) il “modello linguistico” manzoniano
rischiava il sacrificio: “Solo la prosa crociana, composta, sovrana, vi si è
allineata da pari a pari”. Con la forza che derivava dalla proiezione di Croce
come figura pubblica di riferimento nel primo Novecento.
Dante – Manzoni, a proposito
della “Divina Commedia”, assicurava la sua ammirazione per il poeta ma, quanto
a ispirazione cristiana, si mostrava perplesso. Come di un conservatore, ligio
a catechismo, rispetto a una fede in movimento – personale, fluida? No, Dante
era un fine teologo, la sua caratteristica meno analizzata.
Guerra – “È fare l’impossibile
perché pezzi di ferro entrino nella carne viva” (A . Malraux, “Ls speranza”).
Impalamento – La tortura turca
è ricorrente nel Cinquecento nella poesia e nel teatro. Nela poesia burlesca e
nel teatro comico – non si prendono mai sul serio i turchi?
Italiano - Manzoni e D’Annunzio
“i due dittatori dell’italiano” – W. Pedullà, “Il pallone di stoffa”, 185.
È “lingua morta” per Manzoni nella prima lettera a Fauriel, 1806, “lingua
povera” nella seconda, 1826, poco adatta a servire lo scrittore. Subito poi,
nel 1829 progetta con Giacomo Rossari una “lingua toscano-milanese”.
Manzoni non sapeva pensare e scrivere che in milanese, ma sapeva di restare
così provinciale. Ancora pochi anni e si adagiò sul modello toscano e anzi
fiorentino, scrivendone a G. Borghi.
Manzoni – È uno degli “eroi”
della piccola enciclopedia di Devoto, “Civiltà di persone”, 1973. Insieme con
Carducci, Mazzini e Gobetti.
Potta – Toscano per vulva, è
anche sinonimo di grandezzata, vantone, persona vanesia.
Passato remoto –Tratteggiando Manzoni in occasione di un centenario a
Firenze, Giacomo Devoto si dice “sordo, come italiano del nord, al passato
remoto”. Genovese di nascita, cresciuto a Milano, fiorentino di professione e
adozione, Devoto lo ricorda a proposito della lapide sulla casa di Manzoni, che
leggeva ogni mattina andando a scuola, in cui il “visse” non gli suonava, al
punto che lo leggeva “vissé”, come una confusa forma straniera: “Era una specie
di muto rifiuto nei riguardi di una forma che io non avrei mai pronunciato”.
Razzismo – Si è razzisti per
essere fascisti? È argomento che Malraux, “La speranza”, fa sostenere al
comunista Manuel in dialogo pedagogico con l’anarchico Alba: “I fascisti,
in fondo, credono sempre alla razza di chi comanda. Non è perché i tedeschi
sono razzisti che sono fascisti, è perché sono fascisti che sono razzisti. Ogni
fascista comanda di diritto divino”.
Tacito – “Senza dubbio il più
chiacchierone dei mentitori”, Tertulliano, “Apologetico”, cap. XI (“sane
ille mendaciorum loquacissimus”). Lo dice a proposito dell’accusa ai
cristiani di adorare un asino, che Tertulliano attribuisce allo storico.
Un repartee polemico, che però toglie allo storico l’aura di
serenità e rigore, e anche di veracità.
Arte – È, può essere, rivoluzionaria, ma per sé: “L’arte non è un problema di tematiche”, spiega il compagno pittore di Malraux, “La speranza”, il romanzo della guerra di Spagna: “Non c’è grande arte rivoluzionaria, perché?”
Chiaromonte – È lo Scali di Malraux nella guerra di Spagna, “La speranza”? Molti tratti del personaggio rinviano a lui. Che non era l’unico italiano nella “Squadriglia España”, o “Squadriglia Malraux”, che operò sul fronte repubblicano da luglio 1936 a febbraio 1937, come le biografie dicono, ce n’erano altri. Malraux menziona nella sua squadriglia altri nomi italiani, un Camuccini e un Marcelino. Proprio così, un nome spagnolo per “il miglior bombardiere della squadriglia internazionale e eccellente capo equipaggio”. Di cui ha dato specifici connotati: un pilota d’idrovolante, che dopo Lauro de Bosis aveva ritentato l’impresa di buttare i volantini su Milano, era stato intercettato e atterrato dagli aerei di Balbo, era stato condannato a sei anni di confino, era evaso da Lipari, e s’era arruolato nella squadriglia España nella guerra civile.
Di Scali Malraux parla nel romanzo a più riprese. Con questi connotati quando si presenta in squadriglia, e si discute se è italiano o spagnolo: “Il viso un po’ mulatto di Scali era in effetti comune a tutto il Mediterraneo occidentale”. Caratteri somatici che ribadisce quando lo nomina ufficiale di collegamento con la Direzione operazioni e con la Sicurezza (incarico specialmente delicato questo, la Sicurezza dovendo controllare i tanti volontari, per evitare il facile intruppamento delle spie): “La sua cultura facilitava i rapporti con lo stato maggiore dell’aria, composto quasi interamente da ufficiali del vecchio esercito. La sua cordialità piena di finezza, di uomo ancora tozzo ma che crescerebbe grande, rendeva facili i rapporti con tutti, Sicurezza compresa. Era più o meno amicone di tutti gli italiani della brigata, e della maggior parte degli altri (l’esclusione riguarda i tre-quattro membri supposti essere comunisti, n.d.r.). Infine, parlava molto bene lo spagnolo”. Subito dopo, in altra circostanza, Malraux ribadisce: “Quando Scali sorrideva, aveva l’aria di ridere, e la gaiezza, restringendone gli occhi, accentuava il carattere mulatto del suo viso”.
Scali ritorna nel racconto quando si parla di ideali e idee. Talvolta una sorta di alter ego di Malraux, in quanto esperto d’arte, e rivoluzionario senza paraocchi. Nel dibattito centrale sul ruolo dell’intellettuale, per esempio, nella politica e nella rivoluzone – partendo dalle riflessioni e le prese di posizione di Unamuno, prima a favore, poi contro, e in definitiva a favore, seppure di malavoglia, della Repubblica – la Repubblica di Azaña, che non stimava, massonica, divisiva. Una volta è incaricato di interrogare un pilota italiano abbattuto. Il pilota non sembra impressionato (essere prigionieri in guerra è una sinecura) quanto incuriosito: “Ciò che lo meravigliava era forse lo stesso Scali: quell’aria da comico americano, dovuta meno alla faccia, dalla bocca spessa ma dai tratti regolari malgrado gli occhiali di tartaruga, che alle sue gambe troppo corte per il busto, che lo facevano camminare come Charlot, alla giacca di camoscio, così poco «rossa», e alla matita sull’orecchio”. Scali deve portare gli occhiali in avanti per controllare i documenti del pilota: “Non era miope, era presbite”.
Croce – Se ne minimizza la filosofia, se ne critica la storiografia, se ne contesta la poetica, l’impatto sulla storia letteraria. Ma se ne trascura la prosa, che invece mantiene la compattezza di Manzoni. Con beneficio dell’italiano, della scrittura, argomenta il linguista Devoto in “Civiltà di persone”, p. 32. Attaccato da Carducci (da sinistra?) e da D’Annunzio (da destra?) il “modello linguistico” manzoniano rischiava il sacrificio: “Solo la prosa crociana, composta, sovrana, vi si è allineata da pari a pari”. Con la forza che derivava dalla proiezione di Croce come figura pubblica di riferimento nel primo Novecento.
Dante – Manzoni, a proposito della “Divina Commedia”, assicurava la sua ammirazione per il poeta ma, quanto a ispirazione cristiana, si mostrava perplesso. Come di un conservatore, ligio a catechismo, rispetto a una fede in movimento – personale, fluida? No, Dante era un fine teologo, la sua caratteristica meno analizzata.
Guerra – “È fare l’impossibile perché pezzi di ferro entrino nella carne viva” (A . Malraux, “Ls speranza”).
Impalamento – La tortura turca è ricorrente nel Cinquecento nella poesia e nel teatro. Nela poesia burlesca e nel teatro comico – non si prendono mai sul serio i turchi?
Italiano - Manzoni e D’Annunzio “i due dittatori dell’italiano” – W. Pedullà, “Il pallone di stoffa”, 185.
È “lingua morta” per Manzoni nella prima lettera a Fauriel, 1806, “lingua povera” nella seconda, 1826, poco adatta a servire lo scrittore. Subito poi, nel 1829 progetta con Giacomo Rossari una “lingua toscano-milanese”.
Manzoni non sapeva pensare e scrivere che in milanese, ma sapeva di restare così provinciale. Ancora pochi anni e si adagiò sul modello toscano e anzi fiorentino, scrivendone a G. Borghi.
Manzoni – È uno degli “eroi” della piccola enciclopedia di Devoto, “Civiltà di persone”, 1973. Insieme con Carducci, Mazzini e Gobetti.
Potta – Toscano per vulva, è anche sinonimo di grandezzata, vantone, persona vanesia.
Passato remoto –Tratteggiando Manzoni in occasione di un centenario a Firenze, Giacomo Devoto si dice “sordo, come italiano del nord, al passato remoto”. Genovese di nascita, cresciuto a Milano, fiorentino di professione e adozione, Devoto lo ricorda a proposito della lapide sulla casa di Manzoni, che leggeva ogni mattina andando a scuola, in cui il “visse” non gli suonava, al punto che lo leggeva “vissé”, come una confusa forma straniera: “Era una specie di muto rifiuto nei riguardi di una forma che io non avrei mai pronunciato”.
Razzismo – Si è razzisti per essere fascisti? È argomento che Malraux, “La speranza”, fa sostenere al comunista Manuel in dialogo pedagogico con l’anarchico Alba: “I fascisti, in fondo, credono sempre alla razza di chi comanda. Non è perché i tedeschi sono razzisti che sono fascisti, è perché sono fascisti che sono razzisti. Ogni fascista comanda di diritto divino”.
Tacito – “Senza dubbio il più chiacchierone dei mentitori”, Tertulliano, “Apologetico”, cap. XI (“sane ille mendaciorum loquacissimus”). Lo dice a proposito dell’accusa ai cristiani di adorare un asino, che Tertulliano attribuisce allo storico. Un repartee polemico, che però toglie allo storico l’aura di serenità e rigore, e anche di veracità.
Tommaseo – Anche lui “eroe” di Devoto in “Civiltà
di persone”. Per essere di Sebenico, campione di una civiltà morta,
la Dalmazia. E per avere in “Fede e bellezza”, “titolo infelice”, “passi di
perfezione e di patos struggente, degni della Germania di
Tacito”. Manzoni invece ne temeva la grande erudizione: “Mi dolgono i
tommasei”, pare dicesse per il fantomatico toscano “zebedei”.
letterautore@antiit.eu
Nelle mani del coronavirus
La serie fa sempre incetta di
ascolti, uno spettatore su tre, per il ritmo serrato e il lieto fine inevitabile.
E in questa pandemia interminabile per il tema, la malattia. È consolante.
Si vede però in questa seconda
serie con perplessità: illustra quella sanità, aggressiva, privata, che è totalmente
mancata nell’epidemia, lasciata alle strutture pubbliche. E a una seconda riflessione
ancora peggio: alle strutture pubbliche che ha deprivato di attrattiva e di
mezzi. Quel cocktail lombardo di privato inefficiente e pubblico insufficiente
che ha sprofondato l’Italia in un sabba di contagi e morti, e ora ci riprova.
Jan Maria Michelini-Ciro Visco, Doc – Nelle tue mani
giovedì 22 ottobre 2020
Ombre - 534
Mancano
i vaccini antinfluenzali nella regione Lazio ed esplodono i contagi da
coronavirus: sono cinque e sei volte quelli di aprile-maggio. Ma tutto va bene
nella regione: le cronache locali concordi tessono grandi lodi della giunta
regionale Pd, di Zingaretti, del suo assessore alla Sanità. Vogliono bene o vogliono
male al Pd e a Zingaretti?
Mancano
i vaccini antinfluenzali a Roma, nella regione Lazio: erano promessi per metà
ottobre, ora si faranno ai primi di novembre, forse, o a fine novembre, “abbiamo
tutto il tempo”. Ma le cronache locali non fanno che tessere gli elogi della
giunta Zingaretti, che si è procurata per tempo i vaccini
Sempre
del filone: ma “il Messaggero”, “la Repubblica”, il “Corriere della sera”
vogliono bene al Pd e a Zingaretti? E ai romani?
Tutti
gli anni è stato semplice vaccinarsi contro l’influenza. Quest’anno che ce n’è
più bisogno no: i vaccini mancano, sono in distribuzione ma ridotti, forse a
novembre, forse a dicembre. Ma più che disorganizzazione – impossibile, il numero
dei vaccinandi è sempre lo stesso (semmai, causa covid, è diminuito….) - sembra speculazione. Il vaccino c’è a
pagamento.
Trump
spinge a un accordo fra Serbia e Kosovo. La Ue gli fa una predica: “Su Serbia
e Kosovo serve una voce comune”. Gliela fa Miroslav Lajcak, rappresentante
speciale della Ue per il dialogo Serbia-Kosovo. Si è svegliato tardi? Come se
la Serbia non fosse in Europa, e il Kosovo dell’ex mafioso Hashim Thaci.
O
per voce comune europea il rappresentante speciale intende quella della Libia,
dove si gioca allo sgambetto?
Singolare
logica di Gabanelli e Ravizza sul “Corriere della sera”, che l’andamento degli
sbarchi di clandestini attribuiscono al maltempo e al bel tempo invece che alla
sicurezza o meno dell’“accoglienza”. Riconoscono l’effetto deterrente “degli annunci
sui porti chiusi e delle navi lasciate in mare per settimane”. Ma per caso.
Sempre i benefattori dell’Africa la pensano come appena discesa dall’albero,
invece che più intelligente di loro, e più avanti nella comunicazione digitale.
“«Davigo
va in pensione». Il voto spacca il Csm”, informa in prima Bianconi sul
“Corriere della sera”. Un voto 12 a 6 non è una spaccatura. Ma Davigo era un
buon informatore.
Siamo
allarmati per gli Stati Uniti: “Il contagio vola, 50 mila casi al giorno”. E
per l’Italia, 15 mila casi, su una popolazione di 60 milioni – gli Stati Uniti
ne hanno 350?
Siamo
allarmati anche per la Germania, che ha la metà dei nuovi contagi italiani, su
una popolazione di 83 milioni di persone. Siamo giornalisti o cinquestelle, a
gratis?
“220
mila morti di covid in America”. In Europa sono 250 mila, ma l’America sta
peggio. L’antiamericanismo al tempo della Cina sembra ridicolo, ma è immortale.
Va
trionfale il Vaticano all’accordo (concordato?) con la Cina. “Trump ci ha solo
aiutato”, fa sapere, “a mostrare alla Cina che non siamo dipendenti dagli yanquis”. E nell’euforia nomina vescovi
sette “lazzaroni”, spiega il cardinale Zen, due dei quali con moglie e figli,
proposti dal partito Comunista Cinese.
Brusaferro,
presidente dell’Istituto superiore di sanità: “Intervenire ora per fermare
l’escalation”. Prevenirla no, era troppo.
“Italia
record nell’aumento del debito ma terzultima per recupero del pil”, terz’ultima
in Europa – “Il Sole 24 Ore”. Il governo ha saputo solo spendere, mance, a
pioggia – si dice “sostenere la domanda”. “Manovra: 10 miliardi agli aiuti, 4
alla sanità, 6 a scuola e università”, è altro titolo del “Sole 24 Ore”. Aiuti
a che?
“Fondo
infrastrutture 2020: 20 miliardi fermi da dieci mesi”, ancora “Il Sole 24 Ore”:
“Un anno per iscrivere le somme a
bilancio”. Troppa fatica? Dietro la faccia buona-a-tutto di Conte, non c’è
niente? No, gli assegni di cittadinanza sì, quelli che sono serviti a molti,
specie al Sud, per evitare di lavorare.
L’inefficienza
standard, senza vergogna, è la novità dell’Italia, paese di continue novità
politiche, se è già alla Quarta Repubblica
.
“Abbiamo
evitato di contagiare Cristiano Romaldo e il ringraziamento è il 3-0 a tavolino”.
Il De Luca di Crozza è sempre esagerato, ma questa volta non sembra. Il Napoli
ha salvato Ronaldo, il suo Portogallo lo ha infettato: Cr7 è ora Cr19, può dire
il De Luca di Crozza.
“Trump
è solo contro l’Iran”. Ed è una buona cosa? Siamo per Assad in Siria, Hezbollah
in Libano, che ha ridotto alla miseria, la guerra civile in Yemen, la sovversione
nella penisola arabica, la proliferazione nucleare? Probabilmente no, siamo progressisti,
ma gli ayatollah spendono volentieri in editoria.
Florenzi,
il terzino bombardiere romanista che la Roma ha svenduto in giro per l’Europa e
Mancini saggio ha recuperato nella Nazionale, difende Immobile che non ha
segnato i gol già fatti all’Olanda. È per questo diventato oggetto del ludibrio
in rete dei romanisti. Roma non ha santi.
Dalla
teleferica la sindaca Raggi è passata allo stadio della Roma, la prima
necessità della capitale, e alla metro C – che è in costruzione da quindici
anni. Dopo aver rifiutato a Roma l’Olimpiade, che l’avrebbe arricchita,
compresa l’ultimazione della biblica linea C. Ma non si può dire che non abbia
senso degli affari.
Nessuno
dice, nessun giornale, nessun comico, che i banchi a rotelle sono assurdi, non
ancorabili, scoliotici, con un piano ridottissimo, e a tutto serviranno,
soprattutto a piroettare, meno che a seguire le lezioni, leggere, scrivere,
disegnare. Questo Grillo è proprio un incantatore?
La stupidità esiste, senza rimedio,
E assillante fino al tedio
Ma dei Saputi Elevati è un assedio,
concussori furbi del ceto medio.
Nostalgia della Tunisia, come era e non è
Una psicanalista, una giovane tunisina di
Parigi ritornata a Tunisi, apre un gabinetto di consultazione. Code subito chilometriche
di pazienti, bisognosi tutti di potere infine parlare. Di sé, nella Tunisia
oggi: dopo la “rivoluzione dei gelsomini” tutti sono a disagio, tutti hanno bisogno di parlare. Una
commedia – aperta e chiusa da Mina, che canta “Io sono quello che sono” di Mogol
e Polito in apertura, e “Città vuota” di Shuman e Pomus in chiusura. Ma l’avventurosa
analista non ha la “licenza”. Da qui un ritratto della Tunisia oggi, impoverita,
impaurita (smarrita, confusa), sporca, corrotta – la “Città vuota” che Mina
canta. Niente si fa per niente, e non ci sono diritti, solo sopraffazioni e
corruttela. Si ride, ma amaro.
Una parabola della Tunisia oggi. Mostrata
nel suo lato oscuro, una periferia anonima. In contrasto struggente con la Tunisia
come era e avrebbe potuto essere. Civile, pulita, europea. Lo spettatore non è
tenuto a saperlo, e Labidi non lo dice. Se non in una breve scena, la rapida
visita della psicanalista ai nonni. Gli unici che vivono e parlano civilmente
in tutto il film, col ritratto di Burghiba in anticamera, il “padre della
patria”, artefice dell’indipendenza nel 1956, di un paese che a lungo volle
laico e civile. Poi degenerato nell’arabizzazione confusa, e dopo la “rivoluzione” del 2010-211, la “rivoluzione” dei Fratelli musulmani, in un
islamismo senza fondamento. Questo il film lo fa vedere e
lo dice. In fuga da se stessa, nei barchini, nei cassoni, e nell’obesità.
“La psicanalisi? Non ci serve, noi abbiamo l’islam”, è una battuta per ridere,
ma feroce.
Manele Labidi si è scelta una
protagonista, l’iraniana Golshifteh Farahani, che è la sua gemella.
Una “commedia all’italiana”,
ilare e cattiva. Un film già di culto, che he tenuto le arene in estate, e ora
è alla terza settimana di programmazione, un piccolo record in quest’epoca di
contagi, avara di spettatori avventurosi al cinema.
Manele Labidi, Un divano a Tunisi
mercoledì 21 ottobre 2020
Problemi di base contagiosi - 601
spock
Litiga
il governo sul Mes, ma non cade: fa il Grillo, il comico?
Grillo va con Salvini a Bruxelles e con Zingaretti a Roma: ha due unioni civili (al papa piacerà lla bigamia?)?
Ma
che sarà questo Mes, che alcuni ci giurano e altri lo aborriscono: un articolo
di fede?
E la
Spagna, che non vuole nemmeno i prestiti del Recovery Fund, solo le
sovvenzioni: questo Recovery lo hanno tradotto solo in spagnolo? Conte
non sa l’inglese?Solo
a Madrid sanno leggere?
Il
primo prestito europeo ha richieste 14 volte superiori all’offerta: perché la
Ue non li voleva, per non fare concorrenza ai Bund tedeschi?
spock@antiit.eu
Appalti, fisco, abusi (188)
“Mps sale in piazza Affari”. Tendono concordi i quotidiani, su comunicato del ministero dell’Economia, un bastone di salvataggio alla vendita che il governo tenta della banca senese: “Il titolo recupera l’1,32 per cento”. Nientedimeno. È ora a 1,15 – era a 4,55 (“in area 5 euro”) al debutto dopo il consolidamento a danno degli azionisti, appena due anni fa.
Il meschino build-up sul titolo Monte dei Paschi serve ad addolcire la pillola avvelenata che il governo prepara per Unicredit? Che però non fa nulla per allontanarne le ombre. Si capisce che crolli in Borsa un giorno su due.
American Express lancia tra
i suoi utenti una campagna “shop small”, con abbuono di cinque euro per una
spesa di almeno € 20. Ma poi non applica la riduzione. Non è pubblicità ingannevole?
Inps manda le cartelle trimestrali
per i “contributi domestici” del 10 luglio e del 12 ottobre il 17 ottobre.
Normale (in)efficienza dello smart working? No, la busta non porta timbro,
accuratamente: un mezzo per incassare mora e multa.
Sono registrate all’Agcom, l’Autorità per le
Comunicazioni, almeno un centinaio di compagnie di servizi telefonici. Un mondo
impegnato a lucrare nella fatturazione, con piccoli e grandi trucchi, mentre la
rete è un disastro, affidata a una delle tante compagnie, Tim, che lesina su
tutto - funziona poco perfino il telefono da casa, mentre internet, la fibra e
il wi-fi sono da Terzo mondo (si poteva dire una volta, ora il Terzo mondo va
veloce).
Tutte le compagnie
di servizi, specie quelle del telefono e dell’energia, danno codici di risposta
ai numeri di servizio incomprensibili, sia nelle lettere che nei numeri. Perché
non si possa fare ricorso per i disservizi – nei ricorsi è necessario
specificare data, ora e codice del contatto. Provare per credere.
Una volta queste aziende si
chiamavano public utilities, ora sono
rapaci, scatenati dal mercato libero.
Flaiano l’africano
Un romanzo “africano”, l’unico
prodotto dall’Italia nel suo mezzo secolo di avventura coloniale, anche se
fuori tempo, scritto e pubblicato dopo la guerra. Del personaggio solitario,
già non più eroe ma perplesso e indifferente, alla conquista dell’impero, in un
mondo di amplessi facili, omicidi, stregonerie, e la lebbra in agguato.
L’approccio è flaianeo: il
tenente ha mal di denti, e deve muoversi alla ricerca del dentista. Il racconto
sarà di un uomo svagato, “senza qualità”, in un progetto militare che per lui
non ha senso, niente ne ha, che attraversa eventi immaginari e reali anche
drammatici, in Africa. Che c’è, in ogni piega della narrazione, che sia la
terra, l’humus, la donna, il mondo elusivo dei suoi uomini, i rumori, delle
acque, dei venti, i timori. Una sorta di Candido in un’impresa che gli sfugge -
anche se non è il migliore dei mondi possibili: la sua Africa è un miracolo di onestà, a petto delle bugie con cui si nutriva il colonialismo, fango, deserto, coccodrilli, ragazze disponibili per un piatto di riso, e forse lebbrose.
Questa riedizione, di Anna Longoni, completa
l’Africa di Flaiano con il taccuino “Aethiopia, appunti per una canzonetta”, pubblicato
tra gli “Scritti postumi” nel 1988, ripreso nella edizione Rizzoli del 2013, curata d a Marco Montanaro. Flaiano vi annota in diretta, fra il 13 novembre
1935, Massaua, e il 27 aprile (1936), Axum, l’avventura coloniale nei suoi
reali, diminutivi, connotati. Terre aride, mal coltivate, incoltivabili: ad
Axum, “osservando i terreni, incolti, due soldati pensano all’Italia. «È poco
fertile questa terra», dice uno. «Poco fertile?» ribatte l’altro. «Se si fanno
due e persino tre raccolti di pietre all’anno!». Propaganda: Adua, che ai
giornali si fa dire terreno di grandi battaglie - e tale sarà anche nel
racconto di Montanelli, “XX Battaglione Eritreo” - è “conquistata” dalle
salmerie, che per un errore di percorso vi si trovano dentro. Ovunque corruzione,
dei generali, maggiori e capitani (“in Italia c’è gente che si leva gli anelli
dalle dita”) e africani (i trasporti rendono molto; un eritreo che si è
arricchito col camion, cerca con un avviso sul giornale un “autista bianco”,
per 5 mila lire – cinque milioni, cinquanta? – al mese).
Ma c’è l’Africa – e non ce ne
sarà un’altra altrettanto vera nelle lettere italiane fino a oggi. Flaiano
finge di affrontarla blasé: “Tutte si
chiamano Mariam quaggiù”. Ma invece la trova e la rappresenta, quale era, ed è.
La protagonista Mariam dorme: “Profonda bellezza di lei nel sonno. Soltanto nel
sonno la sua bellezza si rivelava completamente, come se il sonno fosse il suo
vero stato e la veglia una tortura qualsiasi. Dormiva, proprio come l’Africa,
il sonno caldo e greve della decadenza, il sonno dei grandi imperi mancati che
non sorgeranno”. Il risveglio? “Quando il «signore» non sarà sfinito dalla sua
stessa immaginazione”. Ma non è un miraggio; le acque non lo sono, i
coccodrilli, la malattia, il riserbo. Con tutte le frasi fatte del tempo:
l’Africa è “lo sgabuzzino delle porcherie”, le sue giovani “semplici come
colombe, dolci, disinteressate, incluse nella natura, non restava che
coglierle”. Ma la forza latente e il mistero-non-mistero del continente Flaiano
fa palpabili a ogni rigo. Compreso il delitto di cui l’ufficiale coloniale non sarà chiamato a rispondere.
Si torna a riproporre Flaiano, per la cura di Anna Longoni che è rimasta la sua sola specialista, con
questo che è il suo solo romanzo, e fra le sue opere quella che ha avuto innumerevoli edizioni negli anni, ed è un buon inizio: è un romanzo, e resta
complesso alla rilettura, come si voleva, si legge a ogni piega con interesse.
Enigmatico, ma di una sorta di disfacimento morale, storico, epocale, più che personale.
Pubblicato nel 1947, non ha la contemporaneità degli “Indifferenti” di Moravia,
che aveva colto i suoi anni in diretta. Ma di quegli anni dà, spessa, la coltre
di superficialità e indifferenza, di individui senza progetto in un mondo nel
quale sono estranei, ospiti avventurati. “La mitologia flaianea”, ha scritto
Pautasso nella riedizione Bur 1976 del romanzo, dopo la morte dello scrittore,
“vuole che «Tempo di uccidere» sia stato scritto in venti giorni, su invito di
Longanesi”, in tempo per avere il premio Strega alla sua prima edizione, si suppone, altrimenti perché
tanta fretta, “e che la sua stesura non sia passata attraverso elaborazioni
successive”. Un romanzo lungo di getto? Le biografie non dicono (ma non c’è una
biografia di Flaiano…) se questa Africa non sia autobiografica. Ma è
sicuramente l’Africa. Così come è “reale” il protagonista, il giovane ufficiale
italiano in Africa – la conquista dell’impero non c’è, si sa ma non si dice. E non è una stesura di getto, di occasione - Flaiano, che del premio dirà spesso di vergognarsi, sapendolo una operazione editoriale, di Longanesi, ci è tornato sopra più volte, ma poi non ne ha proposto modifiche.
Ennio Flaiano, Tempo di uccidere, Adelphi, pp. 329 €
19
L’approccio è flaianeo: il tenente ha mal di denti, e deve muoversi alla ricerca del dentista. Il racconto sarà di un uomo svagato, “senza qualità”, in un progetto militare che per lui non ha senso, niente ne ha, che attraversa eventi immaginari e reali anche drammatici, in Africa. Che c’è, in ogni piega della narrazione, che sia la terra, l’humus, la donna, il mondo elusivo dei suoi uomini, i rumori, delle acque, dei venti, i timori. Una sorta di Candido in un’impresa che gli sfugge - anche se non è il migliore dei mondi possibili: la sua Africa è un miracolo di onestà, a petto delle bugie con cui si nutriva il colonialismo, fango, deserto, coccodrilli, ragazze disponibili per un piatto di riso, e forse lebbrose.
Questa riedizione, di Anna Longoni, completa l’Africa di Flaiano con il taccuino “Aethiopia, appunti per una canzonetta”, pubblicato tra gli “Scritti postumi” nel 1988, ripreso nella edizione Rizzoli del 2013, curata d a Marco Montanaro. Flaiano vi annota in diretta, fra il 13 novembre 1935, Massaua, e il 27 aprile (1936), Axum, l’avventura coloniale nei suoi reali, diminutivi, connotati. Terre aride, mal coltivate, incoltivabili: ad Axum, “osservando i terreni, incolti, due soldati pensano all’Italia. «È poco fertile questa terra», dice uno. «Poco fertile?» ribatte l’altro. «Se si fanno due e persino tre raccolti di pietre all’anno!». Propaganda: Adua, che ai giornali si fa dire terreno di grandi battaglie - e tale sarà anche nel racconto di Montanelli, “XX Battaglione Eritreo” - è “conquistata” dalle salmerie, che per un errore di percorso vi si trovano dentro. Ovunque corruzione, dei generali, maggiori e capitani (“in Italia c’è gente che si leva gli anelli dalle dita”) e africani (i trasporti rendono molto; un eritreo che si è arricchito col camion, cerca con un avviso sul giornale un “autista bianco”, per 5 mila lire – cinque milioni, cinquanta? – al mese).
Ma c’è l’Africa – e non ce ne sarà un’altra altrettanto vera nelle lettere italiane fino a oggi. Flaiano finge di affrontarla blasé: “Tutte si chiamano Mariam quaggiù”. Ma invece la trova e la rappresenta, quale era, ed è. La protagonista Mariam dorme: “Profonda bellezza di lei nel sonno. Soltanto nel sonno la sua bellezza si rivelava completamente, come se il sonno fosse il suo vero stato e la veglia una tortura qualsiasi. Dormiva, proprio come l’Africa, il sonno caldo e greve della decadenza, il sonno dei grandi imperi mancati che non sorgeranno”. Il risveglio? “Quando il «signore» non sarà sfinito dalla sua stessa immaginazione”. Ma non è un miraggio; le acque non lo sono, i coccodrilli, la malattia, il riserbo. Con tutte le frasi fatte del tempo: l’Africa è “lo sgabuzzino delle porcherie”, le sue giovani “semplici come colombe, dolci, disinteressate, incluse nella natura, non restava che coglierle”. Ma la forza latente e il mistero-non-mistero del continente Flaiano fa palpabili a ogni rigo. Compreso il delitto di cui l’ufficiale coloniale non sarà chiamato a rispondere.
Si torna a riproporre Flaiano, per la cura di Anna Longoni che è rimasta la sua sola specialista, con questo che è il suo solo romanzo, e fra le sue opere quella che ha avuto innumerevoli edizioni negli anni, ed è un buon inizio: è un romanzo, e resta complesso alla rilettura, come si voleva, si legge a ogni piega con interesse. Enigmatico, ma di una sorta di disfacimento morale, storico, epocale, più che personale. Pubblicato nel 1947, non ha la contemporaneità degli “Indifferenti” di Moravia, che aveva colto i suoi anni in diretta. Ma di quegli anni dà, spessa, la coltre di superficialità e indifferenza, di individui senza progetto in un mondo nel quale sono estranei, ospiti avventurati. “La mitologia flaianea”, ha scritto Pautasso nella riedizione Bur 1976 del romanzo, dopo la morte dello scrittore, “vuole che «Tempo di uccidere» sia stato scritto in venti giorni, su invito di Longanesi”, in tempo per avere il premio Strega alla sua prima edizione, si suppone, altrimenti perché tanta fretta, “e che la sua stesura non sia passata attraverso elaborazioni successive”. Un romanzo lungo di getto? Le biografie non dicono (ma non c’è una biografia di Flaiano…) se questa Africa non sia autobiografica. Ma è sicuramente l’Africa. Così come è “reale” il protagonista, il giovane ufficiale italiano in Africa – la conquista dell’impero non c’è, si sa ma non si dice. E non è una stesura di getto, di occasione - Flaiano, che del premio dirà spesso di vergognarsi, sapendolo una operazione editoriale, di Longanesi, ci è tornato sopra più volte, ma poi non ne ha proposto modifiche.
Ennio Flaiano, Tempo di uccidere, Adelphi, pp. 329 € 19
martedì 20 ottobre 2020
Problemi di base imperiali celestiali - 600
spock
Grillo
vuole Taranto cinese: lo faranno ammiraglio della flotta?
La
Cina ci ha mandato il virus per risanare l’Inps?
O
per ridurre la forza lavoro in eccesso – un’ecatombe benefica, a fin di bene?
Oggi
e sempre la Cina fabbrica del mondo, si guadagna di più – ma chi?
E
per il Vaticano cosa fabbrica il presidente Xi – a parte i vescovi?
Ci
sono ricchi in Cina molto più ricchi dei plutocrati americani: per fare dispetto
a Trump?
È una
gara maschia, a chi ce l’ha più ricco?
spock@antiit.eu
Vita miracolosa di Herman Melville
Un’allegria contagiosa, il
lettore ne è soggiogato. Avviando, col suo inglese incerto, la traduzione di
“Moby Dick”, in terzetto con un francese traduttore dall’inglese e un inglese
traduttore dal francese, Giono si scatena in un bonario sabba attorno a
Melville. Nella campagna provenzale nella quale se lo porta dietro tascabile,
nelle sue “corse attraverso le colline”, sulla quali naviga come sulle onde del
mare.
Non fluttua invece il racconto,
sorprendente in ogni dettaglio. Una biografia breve e monumentale, dello
scrittore che lo ha incantato fino all’avventura della spigolosa traduzione. Un
affresco minuto, in trompe l’oeil,
che si legge come se Herman, “un uomo di un metro e ottantré, con sessantasette
centimetri di larghezza di spalla”, fosse nei suoi minuti movimenti accanto a
noi. Con tanti medaglioni sorprendenti, la madre di Herman, il comandante dell’“Akushnet”,
la figlia del Comandante dell’“Akushnet”, che registrò Melville nel registro di
bordo come “brontolone”, l’esaltazione americana per i francesi del 1848, con
Whitman che canta “France”, e alla fine del poema la dichiara “mia moglie”,
fino a Hawthorne. Una vita nota che non fa miracoli, ma con Giono sì – “un
romanzo”, come dice il sottotitolo.
Giono si riscopre, dopo le accuse di disfattismo, per essere
stato un pacifista - la Francia non ha (ancora) fatto i conti con la drôle de guerre, la guerra non combattuta
contro Hitler.
Jean Giono, Melville, Guanda, p. 144 € 16
Non fluttua invece il racconto, sorprendente in ogni dettaglio. Una biografia breve e monumentale, dello scrittore che lo ha incantato fino all’avventura della spigolosa traduzione. Un affresco minuto, in trompe l’oeil, che si legge come se Herman, “un uomo di un metro e ottantré, con sessantasette centimetri di larghezza di spalla”, fosse nei suoi minuti movimenti accanto a noi. Con tanti medaglioni sorprendenti, la madre di Herman, il comandante dell’“Akushnet”, la figlia del Comandante dell’“Akushnet”, che registrò Melville nel registro di bordo come “brontolone”, l’esaltazione americana per i francesi del 1848, con Whitman che canta “France”, e alla fine del poema la dichiara “mia moglie”, fino a Hawthorne. Una vita nota che non fa miracoli, ma con Giono sì – “un romanzo”, come dice il sottotitolo.
Giono si riscopre, dopo le accuse di disfattismo, per essere stato un pacifista - la Francia non ha (ancora) fatto i conti con la drôle de guerre, la guerra non combattuta contro Hitler.
Jean Giono, Melville, Guanda, p. 144 € 16
lunedì 19 ottobre 2020
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (439)
Giuseppe Leuzzi
L’amicizia è cosa del Nord
Nel
1977 Graham Greene pubblica “Il fattore umano”, un romanzo di spionaggio, come
omaggio a Kim Philby, lo spione inglese che faceva il doppio gioco per l’Unione Sovietica
e nel 1963, sapendosi scoperto, era riuscito a rifugiarsi a Mosca, dove era
riapparso con la divisa di colonnello. Gli manda le bozze per averne osservazioni.
Mentre Sciascia è molto criticato in Italia, negli stessi anni, per l’amicizia
dichiarata con un vecchio mafioso del suo paese, vecchio di anni ma anche di tipologia,
della cosiddetta, allora, “vecchia mafia” - non un grassatore ma bene del tipo
“onorata società”, che spartisce i torti ma non è alieno dalla violenza.
Sciascia,
curiosamente, benché grande lettore di Greene, non apprezzò “Il fattore umano”:
troppo triste. Come scrisse subito, in un
elzeviro poi raccolto in “Nero su nero”: “Questo libro è di una straziante opacità,
lo si attraversa come una vallata fitta di nebbia e piena di rovi. Non si può,
ecco, non si dovrebbe, scrivere dei libri così soffocanti”. L’amicizia sentiva
anche lui come oppressiva?
Stiamo
parlando di due autori totalmente diversi. Greene, benché coltivasse l’immagine
di scrittore dolente, straziato dalle umane debolezze, coltivava un lato
libertino, col quale era personalmente più in sintonia. “Il fattore umano” costruì come un omaggio alla slealtà. Di cui aveva in più occasioni tessuto l’elogio:
allo Hamburg Prize, che lo celebrava nel 1969, aveva sorpreso i giurati concionando
nel ringraziamento su “La virtù della slealtà”. Ma già nel 1948 aveva voluto épater le bourgeois, rispondendo a un’inchiesta
giornalistica “Why do I write”, perché scrivo: compito del narratore è “la
ricerca della verità tramite la slealtà”, ai suoi personaggi, alle sue storie. E
nel “Fattore umano” fa l’elogio del comunismo, di cui invece aveva semrpe
diffidato. Un “provocatore”. Sciascia
invece era e si voleva l’onest’uomo che sappiamo.
L’amicizia
è terreno scivoloso. Greene l’ha affrontato: nel 1986, a 82 anni e non in buona
salute, era andato a Mosca a porgere i suoi omaggi a Philby. L’anno dopo, per
l’articolo sul Csm che promuoveva Borsellino per equilibri politici sovvertendo
i criteri di esperienza e anzianità, Sciascia fu attaccato praticamente da
tutti - anche da Andrea Camilleri. Anche per il vecchio cenno al vecchio
mafioso di Racalmuto. L’amicizia, condannata in Italia nella polemica generale
Nord-Sud, stranamente è un valore assoluto in Inghilterra – nessuno criticò G. Greene in visita al traditore a Mosca.
In viaggio con
lo stereotipo – 2
In
visita a Napoli dopo Roma, tra maggio e giugno del 1839, nel suo unico viaggio
di vacanza, Sainte-Beuve scrisse dalla capitale del Regno al direttore della “Revue
des deux mondes” François Buloz: “Ho visto di Napoli e dintorni ciò che è più
citato: ci sono cose molto belle, e tuttavia si sono scritte molte parole su di
esse, di cui una metà almeno sarebbe da contestare. Ognuno vedendo negli oggetti le sue proprie
impressioni piuttosto che gli oggetti stessi, ha fatto una Napoli, un Capo Miseno,
un golfo di Baia di sua fantasia. Le bellezze più reali non sono state abbastanza
distinte dal resto - e qui come altrove ci si è seguiti, si è copiato, si è
fatta la truppa pecorona, ci si è tenuti al celebrato del celebre”.
Il
critico vedeva quello che aveva letto. Di cui era pure tentato di scrivere – ne
scrisse nelle lettere e in alcune poesie – ma non convinto, da port-royaliste quasi calvinista era a
Napoli e Roma nella tana del lupo, tra san Gennaro, statue discinte, e profusione di ori nella miseria. Ma da
viaggiatore per caso, viaggiatore-non-viaggiatore, vedeva i limiti delle
corrispondenze epidermiche, quando non sono veri e propri saggi, lunghi anche se
non profondi, di un ignoto che si pretende di padroneggiare, di costringere
anche in formule.
Lo
stesso delle bruttezze. Ognuno se ne fa la sua propria fantasia, direbbe Sainte-Beuve.
Ma per una volta generoso, invece che critico. Perché non è “ognuno” che se ne
fa un’idea, ma ognuno segue lìidea gia fatta, del momento, che tiene banco, che
fa testo.
Il
curioso è che Sainte-Beuve stesso non ha fatto che questo. Come tanti altri romantici,
aveva poetato sull’Italia senza saperne niente, eccetto qualche lettura. Nella raccolta
“Vita, poesie e pensieri di Joseph Delorme” che lo aveva reso subito celebre a
25 anni, aveva scritto una lunga poesia, intitolata “Italie”, con le “Georgiche”
di Virgilio in esergo, “O ubi campi”, nella quale aveva raccolto un buon numero
di luoghi comuni. In particolare si dice infelice mentre in Italia sarebbe stato
felice – senza esserci stato (ne diamo la traduzione in prosa): “E tuttavia la
felicità mi sarebbe stata facile! Perché la sorte non ha gettato i miei passi
sulle rive di Otranto, i piani di Sicilia, i boschetti di Pestum che io non
vedrò!”. Sugli imaginari “boschetti di Pestum” farà però ammenda: alla riedizione
del “Delorme” sotto il titolo “Poesie complete” aggiungerà una nota nel 1840,
dopo il viaggio, fingendosi redattore-editore del volume: “Non ci sono più
boschetti a Pestum, ci sono ammirevoli colline che si stagliano sul più bel cielo,
e dei rovi in basso, dei rettili, e le febbri per metà dell’anno”. André
Guyaux, che ha rifatto le bucce con humour all’Italia di Sainte-Beuve (“«Cette
rapide ébauche que j’emporte de l’Italie»: Sainte-Beuve à Rome et à Naples”), dice
che “vedeva Pestum in mezzo alla sua piana di Montrouge”, vicino Parigi, dove
aveva vissuto per un periodo.
Storia dei bravi
I
“bravi” dei “Promessi sposi c’erano già nel Cinquecento. Perseguiti come malfattori ma inutilmente. E
non solo a Milano e Lombardia. A Firenze si data al 1534, o 1535, un editto del
Consigio degli Otto, la magistratura cittadina, contro i “bravi” e chiunque portasse
armi. Francsco Berni li chiama anche “sbravi”, sotto il titolo però di “Sonetto
delli bravi” – “sbravi” per assonanza con “sgherri, masnadieri, sviati” (anche,
in altra rima, “Capitolo del debito”, con “sbricchi” e con “sbisai”, veneto per
“smargiasso”). Pietro Nelli poco dopo Berni, nel 1547, “Le satire alla
Carlona”, li apparenta ai “bulli”. A metà Cinquecento se ne poteva scrivere a
Venezia anonimo un “De l’età de bravi” - da cui un’estesa citazione si trova in
wikipedia, che li accomuna ai lenoni.
A
Milano le “grida” contro i bravi sono come dice Manzoni, numerose e inefficaci,
per tutto il secondo Cinquecento. Perché i bravi per lo più erano servitori di
casa, gente di mano dei signori e poteri, la cui livrea assicurava loro
l’impunità. Paolo Morigia nel 1567 ne denuncia la presenza massiccia in città.
L’anno precedente l’aveva denunciata in Lombarda: “In questi dì del 1566 nello
stato di Milano, et su le porte, et anco dentro la città, si scopersero una gran
quantità di assassini, che facevano grandissime insolenze, et oltragi; oltre gli
brutti ammazzamenti, di modo che nìuno era sicuro, né in villa, né anco nella
Città, o in casa propria, da questi scelerati”. Morigia, storico poligrafo, era
monaco dell’ordine dei Gesuati, dei quali fu per quattro volte superiore
generale.
Sparafucile
del “Rigoletto”, sarebbe l’ultimo bravo. Qualche anno prima, 1839, Mercadante
aveva dedicato al personaggio un’opera, “Il bravo”, ma era già fuori mercato.
La
prima “grida” milanese che parla di “bravi” è repertoriata al 23 aprile 1572. Poi
si susseguono ogni paio d’anni: ogni governatore spagnolo di Milano ne ha
prodotto una o più. Fino al 1650. Wikipedia, che le repertoria tutte, ne cita
ancora una del 1661, governatore non più spagnolo (napoletano, sposato con
gentildonne spagnole) Francesco Gaetani, e una del 1701, di Carlo Enrico di
Lorena – un francese Toson d’Oro spagnolo, avendo combattuto per la Sgna contro
la Francia.
Norme
contro i bravi – “bravi et vagabondi”, una mezza dozzina, furono emanate nel
Seicento anche a Venezia. “Il bravo”, un romanzo di James Fenimore Cooper (quello de “L’ultimo dei Mohicani) è ambientato a Venezia.
Non
c’è crimine imbattibile. La figura e la parola ricorrono già nella rima
“Maccheronea”, 1517, il latinorum di Teofilo Folengo: il tipo è perfettamente individuato,
nella tenuta, i modi, le pose, le furfanterie, ma dopo aver bollato la
categoria di vigliacchi, sempre a tintinnare la spada al fianco, salvo mostrare
“coraggiosamente i calcagni” quando è il momento di sguainarla non a tradimento.
Si direbbe questi primissimi bravi i mafiosi di oggi.
“Bravo”
è anche il titolo di un dipinto di Tiziano, del 1520 circa – un dipinto a lungo
attribuito a Giorgione: il bravo è rappresentato di spalle in ombra, mentre
aggredisce a tradimento, di spalle, un giovane, che si volta dubitativo e
impaurito.
Fra
le tante “grida” contro i bravi di Milano, anche antecedenti a quelle dei
“Promessi sposi”, sul finire del Cinquecento, dei “bravi” si metteva in rialto
che giravano con i capelli sulla fronte – lo “zuffo”, il ciuffo. Che suona come il “muffo”,
il fazzoletto da collo colorato, che distingueva i mafiosi della “onorata società”
Melchiorre
Gioia nel primo Ottocento ne ha descritto una lunga serie di delitti, sempre
garantiti in un modo nell’altro
dall’impunità – “Sul comercio dei commestibili e caro prezzo del vitto”, 1830. .
Di
fatto erano polizie private, con livrea del padrone, che “bastava”, dice la
Treccani, “a garantir loro l’impunità”. Le mafie erano allora nobiliari,
“sgherri al soldo dei signori, guardie del corpo es esecutori insieme di ordini
iniqui e di delitti”. Furono un fenomeno massiccio, nelle città di corte, per
un secolo abbondante, tra Cinque e Seicento. In Lombardia se ne sono contati, tra
l’anno della peste, il 1630, e metà Seicento, fra 30 e 60 mila. Poi i bravi scomparvero:
urbanesimo e borghesia presero il sopravvento, anche presso la nobiltà già debilitata,
e le leggi ebbero il sopravento.
Milano
“Dissacrare
il lealismo asburgico è stato un abuso dei risorgimentisti italiani”, gli
stessi che “non hanno reso gli italiani né più civili né migliori”, notava
Giacomo Devoto nel 1972 a proposito dela “dissacrazione” allora in atto di
Manzoni, tra l’altro per il “moderatismo cattolico”. Il linguista, “né fiorentino
né milanese”, si professa “lontano dalla definizione dissacrante del mondo sia
pure meschino dei moderati lombardi”, di “onestà forse gretta ma sostanziale”.
È
un po’ lo sguardo che vi aveva portato il milanese Gadda nei racconti milanesi.
Ha
difficoltà a concepire il passato remoto secondo i linguisti. Il milanese come
il lombardo -l’italiano in genere del Nord. Come forma verbale e mentale.
Cartesio procedeva mascherato. Milano non si maschera ma si volta indietro –
dimentica. Sarà questa la forza del fare.
Tutte
le insufficienze sanitarie di quest’anno, dai contagi della movida ai contagi
in ospadale e nelle residenze per anziani, i focolai di decine di migliaia di
contagiati e migliaia di morti, e ora il vaccino antinfluenzale che non c’è, vengono
addossate alla giunta di governo in Lombardia. Che però è leghista, lombarda. A
capo di un’amministrazione che c’era anche prima e ci sarà dopo. E non a una
sanità che è stata organizzata solo per il profitto.
La
Regione Lombardia generosa si è offerta – si era offerta prima della nuova
pandemia - di accogliere i contagiati dal coronavirus di altre regioni. Per far
rifiorire il business sanità.
Una
“falsa città” nelle note di viaggio di Sartre, 1936, che entrando a Napoli si
domanda deluso: “Sono a Napoli? Napoli esiste?”, e poi prosegue, prima di
“scoprire” la città: “Ho conosciuto delle città – Milano, per esempio - delle
false città, che si disgregano quando vi si entra”. In un “saggio” pubblicato
dal “Mattino” di Napoli nel 1982 e ripreso da Ramondino-Müller, “Dadapolis”.
Il
limegno Manuel Scorza invece, sempre sul “Mattino, nel 1984, la dice lontana,
secondo il cliché: “«Lima è più
vicina a Londra che al Perù», diceva Humboldt. Milano è più vicina a
Copenhagen, a Parigi, a Monaco che a Napoli”.
Ma
Copenhagen ha il mare.
Fa un po’ pena
il giudice Davigo, di Candia Lomellina, ex Robespierre di Mani Pulite, che il Csm oggi ha dichiarato decaduto. Brigava per restarci ancora un anno, anche se ha settant’anni, è fuori ruolo, e
fuori anche dall’Associazione Magistrati che lo aveva portato al Csm - rappresentava se stesso, come si suol dire. Ma, da
buon lombardo, difendeva gli emolumenti suppletivi e la scorta, e quindi che
obiettare? È la forza dei lombardi, difendere l’interesse, anche minimo.
Fra
le tante “immunodeficienze” della Lombardia nella peste cinese c’è quella dell’acquisto
dei vaccini antinfluenzali. Che a marzo erano disponibili a 5,90 euro e non
furono acquistati perché “troppo cari”. Poi, invece, sono stati acquistati a
prezzi tra 14,40 e 26 euro. Ora, siccome essere lombardo significa sapersi fare
i conti, cos’è questa imprevidenza se non corruttela? Ma non ditelo a Milano, a
Milano non c’è corruzione, la corruzione è a Roma – quando non è della ‘ndrangheta.
leuzzi@antiit.eu
La cagna fedele che uccise Flaiano
La celebrazione del fascino femminile.
Dell’animalità, dell’istinto – lei è “tutta bellezza e confusione”. Che rianima
e corrobora l’uomo spento, sotto le specie dello scrittore nevrotico o
nevrotizzato, in America per motivi di lavoro. Il nome, ricorrente in letteratura e classico – nella prima
stesura “Melampus” – rimanda al Melampo guaritore della mitologia greca, ma
anche al cane fedele di Ulisse dallo stesso nome. Ma il vero racconto è del
contesto “autoriale”.
Flaiano, che usava fare vacanza in
Canada, spesso in compagnia di Andrea Andermann, allora cineasta, sceneggia una
fantasia personale, dell’autore in crisi, e di un flirt. Con la quale ebbe l’idea di
cimentarsi, dopo tante sceneggiature, nella regia cinematografica. Era il 1966
o 1967. Il racconto poi finì a Marco Ferreri, che ne fece uno dei suoi film grotteschi,
“La cagna”, rovesciando il personaggio femminile - facendone non una donna
traditrice, il titolo non è allusivo: lei si vuole cagna sollecita e fedele,
squittisce al suo scrittore, isolato su un’isola deserta con il cane, si
struscia, lo lecca.
Flaiano non vivrà poi per molto,
è morto nel 1972, ma dopo lo “scippo” decise di non lavorare più per il cinema.
Scrisse anche poco, “Oh Bombay” – che pubblicò sotto il titolo “Il gioco e il
massacro”, insieme con questo racconto.
Ennio Flaiano, Melampo, Einaudi, pp. 172 € 6.20
domenica 18 ottobre 2020
Secondi pensieri - 431
zeulig
Amicizia - La famosa sentenza attribuita ad
Aristotele, “O miei amici, non c’è nessun amico”, chi non l’ha citata? Una
volta modulata o orchestrata, fin nella sua grammatica, da un insieme di
interpreti sonnambuli, vigili e automatici, ecco che attraversa sognante, recitazione
salmodiata di un immenso brusio, il pieno giorno della nostra memoria: da
Michel de Montaigne a Immanuel Kant, per esempio, da Friedrich Nietzsche a
Maurice Blanchot, il pensatore dell’amicizia. Ma l’avvenire di questo “detto
che Aristotele aveva molto familiare” (Montaigne, “Dell’amicizia”) ci viene
ancora addosso. Già qui, è come se non fosse ancora arrivato, custodendo, in
una delle sue pieghe, una promessa di democrazia ancora impensata, ancora
impossibile, sempre a venire: la promessa, appunto.
Nel mezzo c’è l’amicizia sotterranea, rapporto di
contiguità e di protezione (omertà). Che è illegale e condannata dalla morale
(ma non sempre: Kant dubitava), e tuttavia pregna di una moralità diffusa –
fatto salvo il castigo, la pena. Inclusiva e non esclusiva.
Dittatura – È la
Repubblica di Platone, lo stato perfetto delle utopie. Come la dice Elias: “Uno
Stato del tutto dittatoriale sarebbe l’incarnazione della ragione” – come può
dirlo con la sua storia personale: profugo in Inghilterra, integrato tardi alla London School of Economics, nel 1939, dopo
sei anni di esilio, quando fu raggiunto a Londra dal suo maestro Karl Mannheim,
tardo esiliato politico, e poi subito internato, quado si temette l’invasione
tedesca, come “alieno nemico” in quanto tedesco, a Liverpool e all’isola di
Man, per otto mesi.
Ecumenismo – Pratica di pace,
è la rinuncia alla verità.
È
una sorta di paganesimo. L’ecumenismo s’intende delle religioni monoteiste, ma
di fatto è sincretista, il Dio unico di ognuna volendosi diverso, anche molto
diverso, da quello delle altre. Nella pluralità peraltro dei riti, come dei
miti e delle stesse verità rivelate.
Nella
stessa direzione va il decentramento dell’autorità pastorale. Organizzativa e
cultuale (rituale), ma le diverse modalità non sono senza effetto sulla verità –
sulla fede.
Filosofia - L’avventura
del pensiero.
Se non con la
verità, è collegata-gabile con la saggezza? Rousseau condannava la musica e i
libri, che praticò e scrisse in abbondanza. Locke invece condanna la poesia e
la musica. Ma la saggezza non è una forma di intelligenza?
Giustizia – Da sempre, si può dire, sconfitta, e
forse impossibile, inattuabile. Se Astrea, dea della Giustizia, visse poco sul
terra, presto se ne fuggì in cielo – dove si trasformò nella costellazione della
Vergine – disgustata dai delitti e le inadempienze umane.
Guerra civile – “La guerra civile si avvita più
rapidamente dell’odio di tutti i suoi partecipanti”, A. Malraux, “La speranza”
– “L’esercizio dell’apocalisse”, cap. 1.
Hitler -“Hitler alla radio aveva una bella
voce”, Peter Handke fa ricordare alla madre, in “Infelicità senza desideri”. E
gli anni del nazismo, dall’Anschluss alla guerra vittoriosa, furono una festa
per tutti, per tutti i tedeschi: “Dovunque si guardava, una gran festa”. Il
ritmo penetrò fin le plaghe remote e dissipate: tutti divennero parte di un
avventuroso e gratificante disegno, “persino la noia dei giorni di lavoro
prendeva un’aria di festa”, i paguri isolati si ritrovarono proiettati in comunità
simpatiche, “come se uno fosse dappertutto a casa sua”, si ballava, si rideva,
e si facevano fotografie. Fu una liberazione.
Ritorna nell’immaginario,
un genere letterario: la voce come nipote di Hitler, le assaggiatrici di
Hitler, la bambina, la spia, la fidanzata, il cane. Demonizzato-idealizzato:
siamo noi, giovinezza, forza, bellezza, da Sparta a Hitler. Sarà stato pazzo ma
aveva le nostre pulsioni, segrete e manifeste. Compreso l’assassinio?
Popolo – Nozione bizzarramente trascurata nella
vasta pubblicistica sul “populismo” come fenomeno politico. Una nozione che
così profondamente ha caratterizzato l’Ottocento nell’elaborazione romantica, di
Michelet, di Mazzini, “Dio e il popolo”, e della vastissima e perdurante
pubblicistica tedesca, da Jakob Grimm a Heidegger.
Con Grimm, cui
si può far ascendere l’assetto della
lingua tedesca, autore della “Grammatica tedesca” (1819-1837), del “Dizionario”,
a partire dl 1838, e della “Storia della lingua tedesca”, 1848, nasce il culto
del Volk e del völkisch, popolo e popolare: la lingua e la grammatica, i miti, il
diritto, tutto viene con lui ascritto alla capacità creativa del popolo
tedesco.
Storia - Gli storici “non sanno affatto quanto
poco storicamente, nonostante tutta la loro storia, essi pensino e agiscano, e
come anche il loro occuparsi di storia non sia al servizio della pura
conoscenza, bensì della vita” – Nietzsche, “Sull’utilità e il danno della
storia per la vita”, seconda delle “inattuali”. Cioè, gli storici sono
“storici”. E la oro è la sola forma di
conoscenza, certo impura – più storicizzato-abile di Nietzsche?
La storia di Tucidide
è governata dal principio di gravità, dalla forza: “Degli dei crediamo, e degli
uomini sappiamo, che dominano ovunque possono”. Che a Roma sarà detto
biblicamente (“Ecclesiaste”) “nihil novi sub sole”. Con moto uniforme,
ripetitivo. Mentre per Platone è, come la vita e il mondo, illusoria. È da
poco, da sant’Agostino che è diventata una fabbrica: l’opificio dell’uomo. Nel
suo piccolo anch’egli creatore, diceva il santo, con la parola, a fronte della
Parola di Dio eterna. L’homo faber prima
era mitico, prometeico.
“Per
fare lo storico, bisogna avere il gusto di conversare con i morti”, Arturo
Carlo Jemolo.
Verità – Moravia,
commentando Solgenycin, si chiedeva (30 giugno 1974): “Nell’“Arcipelago Gulag”
S. si domanda più e più volte perché le vittime innocenti del terrore non
protestavano, non si ribellavano, non chiedevano aiuto a gran voce, insomma
sconfiggevano il terrore con un altro terrore: quello della verità”. Primo Levi
avrebbe da obiettare, o qualsiasi internato. O sarebbe d’accordo? Bisogna testimoniare,
a rischio della vita? La resistenza è obbligata? La difesa della libertà è
strategica – primum vivere – o
testimoniale? Solgenycin non si è ribellato, come Primo Levi. Dei quali non si
può negare la resistenza nella testimonianza, sia pure ex post – nel caso di
Solgenycin ex ante, poiché è stato condannato per le idee che professava. La
difesa non può essere passiva?
La verità della
libertà è politica. È il fatto di persone, non di idee o concetti.
zeulig@antiit.eu
Il papa populista
Un’omelia sentita, più che
un’enciclica dottrinale, sulla fratellanza e la pace, e un appello reiterato a
favore dell’immigrazione. Che papa Francesco spiega infine così, con i
ringraziamenti come ora usa: “In questo spazio di riflessione sulla fraternità
universale, mi sono sentito motivato specialmente da san Francesco di Assisi, e
anche da altri fratelli che non sono cattolici: Martin Luther King, Desmond Tutu,
il Mahatma Gandhi e molti altri”.
Una camminata piana, su un
sentiero lineare, lo stesso tracciato dalle sue precedenti encicliche, senza se
e senza ma. Che si invidia ma lascia poi perplessi. Sulla verità. Sul
meticciato culturale. Sullo stesso dialogo religioso. E sulla guerra e la
globalizzazione.
Si
prenda il tema moralmente più semplice, quest’ultimo. Dice il papa
nell’enciclica che la globalizzazione colpisce i poveri. Mentre è vero il
contrario, che ha portato al benessere, o a qualcosa di simile, per la prima
volta nella storia tre o quattro miliardi di persone, diciamo tre quarti
dell’Asia e mezza America Latina – e ci sta provando perfino con l’Africa. Ha
impoverito gli europei e gli americani, quelli che il papa non considera, e
parecchio sembra disprezzare, se non odiare. La critica vera, dal punto di
vista morale, sarebbe: la globalizzazzione ha reinventato, allungato,
irrobustito la “massimizzazione del profitto”, con le delocalizzazioni e il
lavoro per conto. La strategia è capitalistica, certamente, e quindi dubbia, di
parte. Ma intelligente, o furba: basata su un criterio di inclusione e non di
esclusione. Come fu la rivoluzione
industriale, fino al taylorismo. E poi col fordismo – lavoro e consumi di
massa.
E la
guerra: contro ogni guerra? “Oggi è molto difficile sostenere i criteri
razionali maturati in altri secoli per parlare di possibili «guerre giuste».
Mai più la guerra!” Un imperativo che dovrebbe immortalarlo. Ma: contro ogni
guerra? Talvolta non è necessario difendersi, non con la guerra? “Ogni guerra lascia
il mondo peggio di come lo ha trovato”. Questo è vero, ma non per questo non
bisogna combatterle, se necessario. Perché la guerra può essere necessaria. Per
esempio contro il nazismo invasore, e annientatore. “La guerra è un fallimento
della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte
alle forze del male”. Senza considerare quando è il male che si fa guerra.
Al
centro l’equivoco del meticciato. Inteso mescolanza aperta di ogni e qualsiasi
cultura. Che è insensato, lui stesso lo
sa, lo ha già detto e lo ripete: “Non c’è peggiore alienazione che sperimentare
di non avere radici”. Ma, procedendo al suo solito d’un fiato, una volta preso l’aire, a lungo sostiene il contrario: “Il mondo cresce e si riempie di nuova bellezza
grazie a successive sintesi che si producono tra culture aperte, fuori da ogni
imposizione culturale”. È il capitolo forse più sentito, “Un cuore aperto a
tutto il mondo”. Fino agli indigenismi, anche morti e folklorici, turistici,
sotto il titolo “Il sapore locale”. Cioè per la differenza invece che per
l’unità - non accanto? La cultura non è imposizione, certo, ma argomentazione e
convinzione sì.
Una camminata piana, su un sentiero lineare, lo stesso tracciato dalle sue precedenti encicliche, senza se e senza ma. Che si invidia ma lascia poi perplessi. Sulla verità. Sul meticciato culturale. Sullo stesso dialogo religioso. E sulla guerra e la globalizzazione.
Si prenda il tema moralmente più semplice, quest’ultimo. Dice il papa nell’enciclica che la globalizzazione colpisce i poveri. Mentre è vero il contrario, che ha portato al benessere, o a qualcosa di simile, per la prima volta nella storia tre o quattro miliardi di persone, diciamo tre quarti dell’Asia e mezza America Latina – e ci sta provando perfino con l’Africa. Ha impoverito gli europei e gli americani, quelli che il papa non considera, e parecchio sembra disprezzare, se non odiare. La critica vera, dal punto di vista morale, sarebbe: la globalizzazzione ha reinventato, allungato, irrobustito la “massimizzazione del profitto”, con le delocalizzazioni e il lavoro per conto. La strategia è capitalistica, certamente, e quindi dubbia, di parte. Ma intelligente, o furba: basata su un criterio di inclusione e non di esclusione. Come fu la rivoluzione industriale, fino al taylorismo. E poi col fordismo – lavoro e consumi di massa.
E la guerra: contro ogni guerra? “Oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di possibili «guerre giuste». Mai più la guerra!” Un imperativo che dovrebbe immortalarlo. Ma: contro ogni guerra? Talvolta non è necessario difendersi, non con la guerra? “Ogni guerra lascia il mondo peggio di come lo ha trovato”. Questo è vero, ma non per questo non bisogna combatterle, se necessario. Perché la guerra può essere necessaria. Per esempio contro il nazismo invasore, e annientatore. “La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male”. Senza considerare quando è il male che si fa guerra.
La
sorpresa maggiore viene all’ultimo, nell’equazione dialogo = indifferenza
religiosa, sia pure fra religioni monoteiste. In quel relativismo che tanto
preoccupava il suo predecessore papa Ratzinger, come inizio appunto
dell’indifferenza. “In una società pluralista” la verità volendo plurale.
Finendo peraltro per confinare il “dialogo delle religioni” all’imam di Al
Azhar el-Tayyeb, che odia Israele, e anche gli ebrei nel mondo islamico
vorrebbe espulsi. L’enciclica è lo sviluppo del Documento sulla Fratellanza
Umana firmato da papa Francesco e l’imam ad Abu Dhabi il 4 febbraio del 2019 –
che una “Preghiera cristiana ecumenica” corona.
In
questa come nelle precedenti encicliche, papa Francesco procede con l’allegria
del rivoluzionario. Di rivoluzionario come lui si pensa, di fatto populista,
uno di quelli cui piace “andare in televisione” e dire “la frase definitiva”, insomma
épater le bourgeois, e come suole
parlandosi addosso, invece che riflessivo, col saggio equilibrio che si lega
alla funzione Sulla traccia
dell’amore che tutto unisce, tema della “Lumen Fidei”, a quattro mani con
Benedetto XVI, una serie di problemi teologici e morali sollevando. Non uno
scandalo, una enciclica in fondo è una lettera circolare. Questa è
sull’immigrazione libera, e si può capire, fino a un certo punto. Ma contro
ogni guerra, e per l’indifferenza religiosa?
Con
riferimenti costanti ai predecessori, san Giovanni Polo II e Benedetto XVI. E
citazioni di Simmel, Ricoeur, Wenders, Vinicius de Moraes. Un papa conversatore
in salotto, come si è compiaciuto con Scalfari, Petrini e altri interlocutori
distinti, o con le tante nomine sbagliate, più che un meditativo, un mistico,
un creativo (organizzativo).
A
cura di Alessandra Smerilli, con utili indici di Giuliano Vigini.
Papa Francesco, Fratelli tutti, San Paolo, pp. 284 €
2,90
In questa come nelle precedenti encicliche, papa Francesco procede con l’allegria del rivoluzionario. Di rivoluzionario come lui si pensa, di fatto populista, uno di quelli cui piace “andare in televisione” e dire “la frase definitiva”, insomma épater le bourgeois, e come suole parlandosi addosso, invece che riflessivo, col saggio equilibrio che si lega alla funzione Sulla traccia dell’amore che tutto unisce, tema della “Lumen Fidei”, a quattro mani con Benedetto XVI, una serie di problemi teologici e morali sollevando. Non uno scandalo, una enciclica in fondo è una lettera circolare. Questa è sull’immigrazione libera, e si può capire, fino a un certo punto. Ma contro ogni guerra, e per l’indifferenza religiosa?
A cura di Alessandra Smerilli, con utili indici di Giuliano Vigini.
Papa Francesco, Fratelli tutti, San Paolo, pp. 284 € 2,90