sabato 31 ottobre 2020
Letture - 437
Adottive – A
volte sono amanti – le figlie adottive. Si fa scandalo di Woody Allrn che ha sposato
Son Yi - figlia adottiva peraltro non amata della sua compagna Mia Farrow
quando era sposata con André Previn. Sartre e de Beauvoir fecero senza scandalo
figlie adottive ed esecutrici testamentarie due giovani amanti. Sartre Arlette
Elkaim, Simone de Beauvour Sylvie Le Bon - che forse era stata anche amante di
Sartre.
BarLume sulle Alpi
“Perché no?”, Massimo del BarLume
a Pineta consola la commissaria Alice, che non vuole si sappia che i serve dei
Quattro Vecchi come consulenti: “Siamo in Italia, in fondo. Siamo pieni di
professori emeriti, senatori a vita e centoventagenari assortiti nei posti che
contano, a badare che i giovani, quelli che hanno meno di settant’anni, non
facciano tropo casino quando tentano di fare le cose per davvero”. Obiezioni?
I terribili vecchi che impestano
il BarLume sono in montagna tra i crucchi, con la gita delle Poste, ma il sollievo
è solo temporaneo a Pineta: presto s’imbattono in un assassinio anche a
Ortisei. Che la commissaria Alice questa volta può delucidare con calma, da
lontano. Ricordando i brutti e bruttissimi che impestarono la Repubblica col
terrorismo, finendo spesso col pentirsi, per evitare il carcere - ma non la
morte, di cui erano dispensatori.
Malvaldi al solito tra Dickson
Carter (meglio nella versione Carter Dickson) e Rex Stout, ma più svelto.
Crea un mondo simpatico prendendo in
giro il giallo – la detection è degli
sdentati. Senza il bisogno di “giustificarsi”, di giustificare l’assurdo.
Perchè non c’è bisogno di credere, solo di passare il tempo divertiti con un
mondo altro, quello quotidiano, solitamente spento.
Marco Malvaldi, Aria di montagna, “LA STAMPA-la
Repubblica”, pp. 46, gratuito col quotidiano
venerdì 30 ottobre 2020
Millennio sociale
La domanda è insidiosa
O anche coraggiosa
La risposta puntuale
Che non ha l’eguale
Nel reale e nel virtuale:
La posa è nebulosa
Nel Millennio sociale.
Problemi di base papali corporali - 603
spock
Perché
il prete si vuole sempre in camera da letto?
E
anche fuori, dovunque si goda?
Anche
solo in pensiero?
È un
voyeur?
L’amore
è un peccato perché i preti se ne privano?
Perché
il corpo è peccaminoso, in quale comandamento è scritto, in quale Bibbia o
Vangelo?
E
perché c’è, cos’è questa cosa?
spock@antiit.eu
Contro l’indifferenza
Una testimonianza secca, e dura,
quella della senatrice Segre sull’Olocausto al quale è sopravvissuta ragazzina,
separata all’arrivo a Auschwitz dal padre, che non rivedrà più. Non ha perdonato.
La testimonianza si conclude con le colonne di detenute che vengono fatte
marciare per mezza Germania, centinaia di km. senza cibo, e senza mai un segno
di attenzione della popolazione. E, il primo maggio 1945, con le guardie tedesche
e gli ufficiali che si spogliano delle divise, in mutande, e delle famiglie che,
finiti i sogni di gloria, ammassano il possibile sulle carrette per scappare verso
Ovest. Senza mai guardarsi intorno: mai uno sguardo per gli ebrei in Germania,
nemmeno di commiserazione.
L’ultima testimonianza dello
sterminio, con cui Liliana Segre novantenne si è voluta congedare dalle scuole,
presso le quali l’ha portata per decenni, è sempre ferma, al dato storico,
senza sentimentalismi. L’indifferenza la senatrice ha voluto incisa a caratteri
cubitali sulla parete dei sotterranei della stazione Centrale a Milano, ora Memoriale
della Shoah. De Bortoli la rappresenta nell’introduzione nelle finestre chiuse
della città quando gli ebrei a centinana la mattina venivano condotti a San
Vittore, o da San Vittore ai sotterranei della stazione per la deportazione. Per
segre è sempre quella di quando, aveva otto anni nel 1938, non poté andare a
scuola.
Liliana Segre, Ho scelto la vita, “Corriere della
sera”, pp. 62, gratuito col quotidiano
giovedì 29 ottobre 2020
Que viva Barcelona!
Balordo post-partita Juventus-Barcellona a
Canale 6, surreale. Si magnifica più volte, “un arcobaleno”, “un pallone
piovuto al cielo”, un cambiamento di fronte di Messi, mentre Bonucci ne ha
fatti quattro-cinque altrettanto lunghi e precisi. Elogi sperticati all’arbitro,
che ha arbitrato a senso unico. Occhio di lince per avere visto in tre goal il
fuorigioco “millimetrico” (millimetrico?) del centravanti juventino, e niente
da ridire per avere dato un rigore che non c’era al Barcellona – il fallo parte
da fuori area. Occhiuto dispensatore di ammonizioni agli juventini, a fini
dissuasivi nel match e nel girone –
il Barcellona non deve solo vincere possibilmente questa gara, ma assicurarsi
anche il prosieguo del girone – mentre li evita accurato per gli stessi falli, tattici
e pestoni, agli iberici (gli arbitri che arbitrano Real Madrid e Barcellona
sono sempre a favore delle due
squadre spagnole: possono pestare e interrompere
il gioco avversario senza essere punite, gli avversari vanno amoniti subito per
intimorirli, e non hanno mai il var contro: sarà per caso). Ed elogi sperticati,
ripetuti, come già in partita, per tutti i giocatori iberici, di cui si narrano
e si ripetono le gesta, e specialmente per due debuttanti iberici minorenni, uno
dei quali è solo sembrato un imbranato.
Antijuventini e juventini delusi uniti nella
lotta hanno stravinto per il Barcellona anche il dopopartita. Canale 5 ha la audience in Catalogna? I giornalisti e
commentatori sportivi italiani ormai non sanno che ripetere i giornali sportivi
spagnoli, che sono molti, e li sollevano dal pensare e scrivere per conto
proprio.
Ombre - 535
Erdogan
attacca la Francia che è sotto assedio da parte del terrorismo islamico. E
quando un attentato più spregevole degli altri interviene, sulle ali del suo
vituperio, se ne dissocia, con parole alate. Nell’islam la taqiyya, la dissimulazione, è onesta e anzi richiesta.
Erdogan
non aveva finito di attaccare Macron e la Francia che nelle capitali arabe file
ordinati, disciplinate, in “divise” curate, anche se in abiti civili, tutti
bianchi, tutti neri, tutti uomini, tutte donne, hanno occupato le piazze con
cartelli ben scritti e ben stampati in francese e in inglese, e il solito vezzo
di bruciare bandiere e volti avversi in effige. Il vezzo è appreso dai khomeinisti,
l’organizzazione è dei Fratelli Musulmani, come già nelle primavere “spontanee”
del 2011.
Si
celebrano gli eroismi del personale sanitario, ma l’epidemia impazza soprattutto
per le inefficienze del sistema sanitario – tracciamento, trattamento. Evidenti
in questa seconda fase: poco o niente è
stato fatto nei mesi di grazia del virus per rimediare alle inefficienze. Che anzi sono state aggravate – mancano perfino i vaccini
antinfluenzali. È perché la sanità, a lungo stella polare del sottogoverno, cioè
della corruzione politica, e del sindacalismo del posto, ora inevitabilmente lo
è della disorganizzazione. Nei 42 anni di esistenza del Ssn non si è ancora
formato un personale di gestione della sanità. Sono tutti sottopancia politici,
che sanno solo gestire gli appalti e gli acquisti.
Fa
senso leggere su “Style”, il magazine maschile del “Corriere della sera”, dove
non c’è niente a meno di mille euro, la eulogia della democrazia, che purtroppo
Alex Foti firma, in cui si fa colpa ai poveri di essere razzisti. Peggio, agli
impoveriti. A parte il fatto che non lo sono, gli italiani poveri come i ricchi
– sono quarant’anni che si tenta di dire l’Italia razzista, come se non avesse
altri problemi, mentre non lo è, l’anarchia si svegli (l’anarchia degli orologi
da 155 mila euro, prezzo medio 4-5 mila?) - il problema è la “sinistra”
italiana, puzza al naso e autoelogi. E il fascismo eterno di U. Eco, l’Ur-fascismo,
che assolve i “belli-e-buoni” dal fascismo.
Merkel
parla ai suoi, del suo partito, con fermezza e chiarezza: “ Altri quattro
raddoppi dei contagi e il sistema è al collasso”, il sistema sanitario. Cioè tra quattro
settimane: sa che i contagi di oggi intaseranno le terapie intensive tra quattro
settimane, è la matematica. Notevole la differenza con Conte. È quella tra chi
sa di matematica e un avvocato, non di cause celebri? O tra chi governa e chi è
lì per caso – non c’è un matematico al Cts?
La
Turchia finanzia 161 moschee in Francia, l’Algeria 120, il Marocco 20.
Nominandone gli imam, i predicatori. I turchi sono “in gran parte funzionari”,
spiega Montefiori sul “Corriere della sera”. Si fa molta confusione nell’islam e attorno all’islam, una fede e uno strumento
politico. Ma gli errori sono soprattutto di sottovalutazione: è un mondo che da
cinquant’anni si distingue per bruciare bandiere e simboli, un mondo dell’odio.
Debutto
col botto per la serie Calvino con cui si promozionano in edicola “Sorrisi e
Canzoni” e “la Repubblica”. Tiratura venduta al primo giorno, nelle … mila
edicole, ed era uno dei Calvino più ardui, “Se una notte d’inverno un
viaggiatore”, e triplicata oggi per la seconda uscita. Merito della scuola, non
c’è altra spiegazione plausibile.
Calvino
non è nei social né nei serial tv. È autore eminentemente “scolastico”, la
scuola ha ancora una funzione, insegna a saper leggere.
L’arbitro
Fourneau è applaudito a Firenze, in Fiorentina-Udinese, perché a Crotone-Juventus
ha espulso lo juventino Chiesa, che a Firenze è considerato un traditore. In Juventus-Verona
l’arbitro Pasqua ha avuto 7 perché ha fischiato un fallo ogni dieci dei
calciatori del Verona. L’italiano fa – è portato a fare - il tifo “contro”: non
per godersi la propria squadra ma per le sfortune altrui. Per questo in così
rapida involuzione-regressione-rimpicciolimento?
O
anche – sempre gli arbitri Fourneau e Pasqua: si fa carriera con l’opposizione
(il lavoro svolto bene non conta, la carriera ne prescinde). È l’equivoco della
resistenza, che chiama l’opportunismo: l’Italia degli opportunisti, come mai
prima d’ora, di nessuna dirittura morale, è quella “nata dalla Resistenza” – la
resistenza assolve.
Si
rompe il femore, va in ospedale a Roma, al San Camillo, contrae il coronavirus,
e muore. Un caso eccezionale? Contrarre il virus in ospedale? E morirne? No, in
Italia no: succedeva a marzo, aprile e maggio, e succede ora, niente è stato
fatto in tanti mesi per sanificare soprattutto gli ospedali. Sembra grave. È
gravissimo.
Mentre
i contagi si moltiplicavano Feltrinelli e il ministro Speranza pubblicavano
“Come guariremo”, le solte menate sul non siamo tutti morti. L’imprevidenza non
è dei 5 Stelle, non solo – e del sottogoverno.
Scioperano
i mezzi pubblici a Roma una mattina all’ora di punta. Per moltiplicare il
panico e l’affollamento? Il sindacato non ha più una funzione ma nemmeno una
faccia.
Il
calciatore tedesco – ma si sente più turco – Özil è per Erdogan e la dittatura,
contro i cristiani, i curdi, e i democratici in Turchia, ma per gli Uiguri in
Cina, perseguitati dal partito Comunista Cinese. È una combattente per la
libertà?
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L’avventura del padre che non c’è, o come liberarsene
Penny fugge di casa, il 12 maggio
1721, nella contea americana di Pictown, vestito di giallo, per la vergogna di
non avere un padre nobile, non averlo avuto, dato che è orfano di padre,
abbandonando la buona madre, levatrice. Ha molte avventure con gli altri
ragazzi, e con il maestro, un oste, un cieco che vende i biglietti della fortuna,
e da solo libererà la contea dai briganti.
Un racconto pubblicato per la
prima volta nel 1978, da Einaudi (Ezio Comparoni, “Silvio D’Arzo”; è morto nel
1952, poco più che trentenne), a cura di Rodolfo Macchioni Jodi, con disegni
originali di Alberto Manfredi, poi ripreso dall’università di Parma, e da Greco
e Greco, ma non più in circolazione, anche se di D’Arzo si pubblica un po’ di
tutto: l’unico D’Arzo che non si ristampa è questo racconto per ragazzi, forse
il più riuscito – anche se “Casa d’altri” gode del titolo montaliano di
“racconto perfetto”.
Su un impianto falsato, un mondo
remoto, un tempo remoto. Ci fu un tempo, nel dopoguerra, in cui era di moda
ambientare in America i racconti - soprattutto i gialli, anche Scerbanenco lo
fa, anche Boris Vian, alias Vernon Sullivan. Era pure il tempo in cui il padre
c’era… Un rito di passaggio in proprio, autogestito.
Uno spunto, pare, autobiografico: la propria madre dello scrittore non era sposata, una ragazza-madre. E non aveva mestiere. Cioè ne aveva uno che a Ezio Comparoni, il nome proprio dello scrittore, non piaceva, al punto da sottrarsi spesso ai conoscenti, e la ragione per cui aveva dottato, già da ragazzo, lo pseudonimo: faceva la cartomante - così lo ricorda Giorgio Soavi, che lo frequentò da lontano in libreria a Cremona nel 1943, in un elzeviro su “Il Giornale”, il 29 giugno 2015, “Lo scrittore che cambiò nome”.
Un
racconto alla maniera un po’ di Pinocchio, un po’ di Kipling, di Stevenson. D’Arzo
ci lavorò per cinque anni, dal 1943 al 1948 – questa è la terza redazione.
Negli stessi anni in cui scriveva e riscriveva “Casa d’altri”, il racconto “perfetto”
di Montale che lo renderà famoso – anche quello postumo.
Silvio D’Arzo, Penny Wirton e sua madre, Einaudi, pp.
120 € 8,50
mercoledì 28 ottobre 2020
Il sesso fuori della chiesa
Un papa che vuole i matrimoni omosessuali è un controsenso.
Un contro-chiesa, la chiesa di cui il papa è il capo. Ma tutto in questo papa è
un controsenso, dicono i molti che non lo sopportano: il suo credo è tutto apparire,
una sorta di influencer in cerca di gradimenti. E: papa Francesco non
argomenta, ha delle trovate. D’altra parte è il papa, cioè ha lo Spirito Santo
con sé. E allora?
Però, se papa Francesco intendesse, più meno consciamente:
“Che me ne frega a me del sesso?”, cosa privata, privatissima. Libererebbe la
chiesa e la religione dal sessismo, dal tabù del sesso, del sesso elevato a
tabù. Che da troppi secoli è un peccato, e anzi praticamente l’unico peccato –
o il 50, 60, 70 per cento del peccato. Dal concilio Lateranense IV del 1215,
che vietò il concubinato e impose la confessione obbligatoria? Dalla
Controriforma, il moralismo finto contro Lutero? E non si vede perché. Non
dalla Bibbia, per esempio, non dal Vangelo. Non dal buonsenso.
Cronache dell’altro mondo – il boom della crisi (75)
Si continua a rappresentare il
presidente eletto Trump come un pazzo – clinicamente pazzo. E Trump accusa il
rivale in campagna elettorale di essere pazzo.
“Una delle ragioni per cui gli
Stati Uniti hanno registrato il più alto numero di contagi e di morti è perché
hanno standard di protezione sanitaria tra i più poveri fra le grandi economie
sviluppate (più bassi ora di quanto fossero sette anni fa) e il più alto
livello di disparità sanitarie”, J. Stiglitz, economista premio Nobel.
C’è il Covid e la recessione, c’è l’incertezza
del voto presidenziale, la Cina vola alto, e le azioni Netflix, una casa di
produzione televisiva, sono a 490 dollari, e in corsa - domani o dopodomani a
500. Un’azione Google è quotata 1.600 dollari – ieri è salita di 15 dollari.
Una Amazon a 3.286 dolari – ultimo aumento di 79,29 dollari (quasi ottanta…). Una
Apple a 116, una Facebook a 283, una Tesla a 425.
A Lynchburg nel Tennessee,
l’unica città della contea di More, un paese di 6 mila abitanti, cresciuto attorno
alla distilleria del Jack Daniel’s, il whisky bourbon (americano) per
eccellenza, i visitatori della distilleria possono dissetarsi dopo il giro con
un bicchiere di tè. Il Tennessee è proibizionista: proibito vendere a consumare
alcolici. Lo steso in numerose contee in Alabama, Kentucky, Mississippi e Texas.
Difficile capire l’America, “qualcosa che non
appartiene alla nostra coscienza” – Ennio Flaiano, “Oh, Bombay”.
L'umorismo onanista
Il racconto “Melampus” riunito
con “Oh, Bombay”. Due racconti del tardo Flaiano, 1970 – morirà pochi mesi
dopo. È lo stesso Flaiano che li pubblica insieme sotto questo titolo,
accomunandoli, nella nota che introduce il volume. Nel segno della metamorfosi:
“Oh Bombay” dell’uomo, “Melampus” di una donna. E dell’amarezza: “Come quei suppliziati
di una volta, chiusi in casse dalle quali sporgevano soltanto con la testa,
essi si riconoscono e, per ingannare il tempo della pena, raccontano le loro
storie, sempre meno improbabili in una società dove la metamorfosi è una vita
di ricambio, tra il gioco e il massacro” – il cambiamento di genere, di sesso.
“Melampus” è malinconico, cechoviano
di programma. “Oh Bombay” è un pirotecnia di flaianismi. Dozzine. Ma dello humour
che Woody Allen ha immortalato al cinema e Faiano, pur lavorando molto per il
cinema, non si è potuto concedere: lo praticava in segreto, in solitario, una sorta di
onanismo dell’umorismo. Alcuni, più seri, e anche tristi, che faceti:
“La noia conduce alla
letteratura”.
“Tra diavoli e maschere c’è un
abisso… Quello che noi chiamiamo
cinismo, cioè il comportamento del cane, è la sola filosofia accettabile dalle
maschere”.
“La donna vuole la parità nel
piacere sessuale, pertanto la necessità di mascherarsi”.
“Il mondo è cominciato senza
l’uomo e finirà senza di lui”.
“Se temete la solitudine non
sposatevi”.
“Oggi il Diavolo è insopportabile
perché è utilitario”.
“La guerra è un happening, e questo
spiega il successo che ha sempre avuto”.
“La pubblicità fa più danni della
pornografia perché unisce l’inutile al dilettevole”.
“Una volta il rimorso veniva
dopo, adesso mi precede”.
“L’unico modo di trattare una
donna alla pari è di desiderarla come un uomo”.
“L’oppio è ormai la religione dei
poveri”.
“L’avarizia è la forma più
sensuale di castità”.
“Il traffico ha reso impossibile
l’adulterio”.
“Prima di Freud l’amore era un piacere,
adesso è una necessità”. “Aspettavamo la fine dell’arte, è venuta la fine della
moda”.
“L’ideale è una lavandaia senza
mutande presa di spalle”.
“La stupidità degli altri mi affascina,
ma preferisco la mia”.
“La domenica e gli altri giorni
preferisco dormire”.
Ennio Flaiano, Il gioco e il massacro, Adelphi, pp.
316 € 14
martedì 27 ottobre 2020
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (438)
Giuseppe Leuzzi
“Era
a Firenze da trent’anni, ma vi aveva vissuto anche in anni lontani, da
studente. Non aveva preso niente dalla città, come tutti noi del nord, così
diversi per voce, pronuncia e prontezza di riflessi” – Giacomo Devoto,
commemorando l’illustre clinico Enrico Greppi, in morte, nel 1969 (“Civiltà di
persone”). Il leghismo ha radici profonde.
La questione
meridionale criminale
Con
Sciascia, riflette Walter Pedullà ne “Il pallone di stoffa”, 179-180, “il narratore,
il confessore, il commissario di pubblica sicurezza e il giudice”, tutto assieme, la questione meridionale “è diventata anzitutto una questione c
riminale”. È stato giusto, con i
corleonesi che stringevano Palermo tra delitti quotidiani, e i più efferati,
non si può dargli toro – i corleonesi era difficile anche immaginali. Ma lo è
ancora?
È
una cappa. “Prima o poi ogni giacobinismo diventa ancien régime”, conclude Pedullà: “Quello del realista, empirico o
illuminista che sia, è un sguardo che per non essere un visionario o un
sognatore percepisce solo reati e punizioni previsti dal codice”. E nient’altro?
“Sciascia tiene a tiro i servizi segreti, ma essendo da neorealista un visivo,
colpisce ciò che appare in superficie o nascosto negli archivi”.
I siciliani sono francesi
I siciliani sono francesi.
Sono stati arabi, e poi normanni e angioni, francesi. Quando erano punici e
greci, erano in realtà siculi di lingua punica e greca.
Poi gli spagnoli sono venuti,
ma non si sono mischiati.
Visi s’incontrano sbalzati
dalle tappezzerie di Bayeux. Intagliati nel marmo bianco patinato, le code
degli occhi leggermente all’insù, teste ovali, riccioline, minute, come
l’ossatura, occhi chiari. È impressionante quanti se ne incontrino. I nomi
francesi sono in maggioranza, i nomi anagrafici – i luoghi sono sempre greci e
arabi: i normanni, seminomadi, curavano poco il territorio, molto il clan,
il gruppo familiare. Lo sostiene
convinto, con cifre, percentuali, mappe, un amico di Palermo che non
nomineremo, come incitamento a venire allo scoperto e farsene il copyright.
Quando la Sicilia avrà
riavuto l’onore e creerà un vero servizio anagrafico, come i public records, americani, la tenuta degli alberi genealogici di ognuno, le
origini francesi saranno incontestabilmente acclarate. L’amico ne è certo. I
siciliani sono di fatto di ogni bordo, e cultura. Ma anche francesi,
indubbiamente. Non ne hanno la burocrazia, non avendo avuto un regno unito e
una Vesailles, ma il rivoluzionarismo sì, del tipo jacqueries (oggi gilets jaunes). E l’amore delle parole.
Lui è albanese: crespo, nero –
del genere che solitamente si dice arabo (molto, troppo, in Sicilia si vuole arabo,
specialmente dagli anni 1970, da quando gli arabi si sono arricchiti) ma lui è albanese
di nome e provenienza, albanese di montagna, di Piana degli Albanesi. Sua
moglie, bionda, il corpo abbondante, le ossa minute, la pelle diafana, gli
occhi verde-azzurri, ne sostiene il ragionamento con una dentatura smagliante.
Napoli
“Non sempre i meridionali sono convinti
meridionalisti, l’ismo di chi le prova tutte per dare lavoro in ogni campo al Sud.
Non solo i settentrionali gli fanno male, danneggiano il Mezzogiorno anche i
meridionali”, Walter Pedullà, “Il pallone di stoffa”, 331: da presidente Rai,
lo scrittore aveva ottenuto un’edizione del Tg 2 da Napoli che però i
giornalisti napoletani snobbarono.
Bakunin ci passò quindici mesi, eccezionali, da giugno 1865 ad agosto 1867, tanto da progettare di tornarci definitivamente. Fondò a Napoli un Circolo dei socialisti rivoluzionari, che sarà nel 1869 la prima Sezione italiana dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori. Ma fu a Bologna che riuscì a organizzare una rivolta, nel 1874 – anche se con l’aiuto del napoletano Cafiero.
Sua figlia Sofia, nata su Lago Maggiore nel 1870, andrà sposa a Napoli del grande chirurgo Giuseppe Cacciopoli, e sarà la madre di Renato Cacciopoli, il genio matematico che andò in cattedra a 27 anni a Padova. Tornato a Napoli, Renato Cacciopoli si esibì personalmente nel 1938 in varie contestazioni della visita di Hitler a Mussolini. Evitò il carcere col manicomio, per sospetta follia. Dopo la guerra fu matematico sempre in cattedra, membro dei Linccei e premio Lincei – finirà suicida nel 1959, dopo l’abbandono da parte della moglie, per il dirigente del partito Comunista Mario Alicata, calabrese ma deputato di Napoli-Caserta.
L’idea di fare passare Renato Cacciopoli
per pazzo fu della zia Marussia Bakunina, “Maria”, nata a Krasnojark ma
addottorata a Napoli, dove insegnava la Chimica all’università. Anche lei
cooptata all’Accademia dei Lincei nella sessione del 1947, insieme col nipote.
Alla morte di Bakunin, i tre figli, Sofia,
Maria e Carlo, furono accolti, con la madre Antossia, a Napoli da Carlo
Gambuzzi, avvocato socialista, che li ospitò nella sua villa di Capodimonte.
Si fa molto caso di “Napoli”, il breve saggio di W.Benjamin e A.Lacjs, col concetto di “porosità”, su cui molti a Napoli si esercitano. Ma il saggio si apre con questa constatazione: “Impressioni di viaggi fantastiche hanno colorato la città. In realtà è grigia”. E termina paragonando Napoli e la porosità al kral degli Ottentotti, il villaggio circolare, comunitario della popolazione bantu del Sud Africa.
Anche Goethe, a proposito dei lazzaroni, nella seconda tornata a Napoli di ritorno dalla Sicilia, avrebbe menzionato il kral degli Ottentotti, ma non nell’edizione definitiva del “Viaggio in Italia”. In questo secondo soggiorno, fa visita a William Hamilton, dice wikipedia, che gli mostra la sua collezione di reperti archeologici. Tra questi individua due candelabri di probabile provenienza pompeiana, al che Hackert lo invita a tacere e a non indagare oltre sulla loro provenienza.
Goethe approfondisce in questa seconda tappa napoletana gli usi e le abitudini del popolo, del quale elogia l’operosità e l’efficienza nella pulizia delle strade, a differenza di altre città che aveva visitato in precedenza.
Avvicinandosi a Napoli, nel viaggio in Italia dell’ottobre 1951, Sartre si sente (“Verso Napoli”, due pagine all’inizio della compilazione postuma “La regina Albermarle o l’ultimo turista”) “chiudere il cuore”. Per il solito catalogo: “L’amo e ne ho orrore”, etc.. Ma per un motivo preciso: “Niente querencia. È l’immagine arida dell’uomo”. Niente affettività, oggi si direbbe empatia.
In
effetti crudele, nella disinvoltura – da sempre metropoli.
Accolse
Gor’kij, esule politico, trionfalmente nel 1906. Nei circoli socialisti, nei grandi
alberghi, e nella stampa. Con cronache
passo passo delle sue giornate, e foto sui giornali, che lo mostrano contento e
a suo agio, malgrado il poco o nullo italiano, come uno di casa.
L’entusiasmo
si trasmise allo scrittore, per il teatro napoletano, di cui resterà sempre appassionato,
e per la politica – trasferendosi a Capri, vi aprirà una scuola di formazione socialista
per esuli russi.
A
Napoli, il “napoletano” Boccaccio fa furbo il perugino Andreuccio, a spese dei
napoletani. Una rivalsa? Non si saprebbe immaginare quante ne ha sofferte il
giovane Boccaccio commerciante a Napoli.
Il
siciliano non ha il futuro (Sciascia), il napoletano non ha il no. Zola, che
avversava il Sud più di Sciascia, gli trova (“Mes voyage. Lourdes. Rome.
Carnets inédits”) “una singolare avversione per il No: se gli domandi qualcosa
a cui deve rispondere negativamente, fa una smorfia, oppure sta zitto e non si
muove, in breve: esprime la sua negazione eufemisticamente. Solo l’uomo libero
nega”. Che sembra una condanna, e probabilmente lo è. Ma Zola così prosegue:
“Solo l’umo libero nega, solo lui distrugge, annienta l’oggetto, provando
piacere nel negare e nel contraddire i dati di fatto”. E allora? “L’uomo naturale
è invece imbarazzato quando deve contrapporsi” – l’uomo libero non è naturale?
Meta preferita del Grand Tour, ne sopporta
i limiti, di ammirazione condita dalla delusione, immancabile. Ma,
certo, secondo il repertorio di Ramondino e Müller, “Dadapolis”, tutti hanno fatto
a Napoli esperienze straordinarie, mostruosamente straordinarie, inattese,
anche sconvolgenti. Tutti i “viaggiatori”. I napoletani ne sono salvi? Si direbbe
un’osteria, tenuta da un oste giudizioso o astemio.
Nel
repertorio dell’urbanista Giovanni Laino delle “immagini molto diffuse” della
città in calce a “Dadapolis”, Napoli non ne ha uno solo positivo. Come “luogo
doppio” – “vulcanica e mediterranea”, “serena sull’abisso”, “legale e illegale”,
“miserabile e opulenta”. Ma su fondo negativo: città della miseria, città
mostruosa, città corrotta, città di rapina, città camorra, città complessa. E
da ultimo, “alla fine degli anni Ottanta”, del Novecento, “tavolo da gioco” –
la più positiva: ognuno vi gioca la sua parte.
leuzzi@antiit.eu
Calvino sfida il lettore - e Umberto Eco
“Sorrisi e Canzoni TV” e “la
Repubblica” avviano la serie promozionale del “tutto Calvino” con il romanzo dei
non-romanzi, una “narrazione” cerebrale, che ogni poche pagine, ogni capoverso,
se possibile ogni riga, si raffredda. Nel nome del Lettore di romanzi, anzi
della Lettrice – il lettore tipo, maiuscolo, si vuole sia avido di romanzi. Al
quale Calvino ne serve uno per ogni capitolo – solo l’inizio, il capitolo
iniziale, che però, si capisce, è già un racconto. Secondo un intreccio dei
“generi” romanzeschi non casuale. Che Calvino stesso schematizza nell’indice,
nei titoli. E in una lettera al critico Guglielmi, qui proposta come
introduzione (se ne riproduce il dettaglio da una ulteriore sintesi dello
stesso Calvino all’Istituto italiano di cultura di Buenos Aires, qui ripreso in
nota): “Un romanzo tutto sospetti e sensazioni confuse; uno tutto sensazioni
corpose e sanguigne; uno introspettivo e simbolico; uno rivoluzionario
esistenziale; uno cinico-brutale; uno di manie ossessive; uno logico e
geometrico; uno erotico-perverso; uno tellurico-primordiale; uno
apocalittico-allegorico”. Di fatto, malgrado le sensazioni forti dei titoli,
tutti gelidi, volutamente.
Contro
il nouveau
roman
Un paradosso dichiarato: Calvino
pretende la celebrazione del libro con un non libro. Meglio: col racconto di un
romanzo, come avrebbe potuto essere e non è. Fatto di dieci ipotesi di romanzo. Con
una punta di nouveau roman, la
descrittiva minuta di ogni gesto o persona, il viaggiatore alla stazione, il
soffritto di cipolla, il jogging, la
tintura dei capelli, le geografie, le geometrie, eccetera, parodistica. Nel
genere pastiche, ma lo scherzo non
dura se ripetuto, interminabile – diventa pietra dura, la “fissa” su cui si
ironizza. Proust, che ne ha lasciato esempi piacevoli, vi si esercitava con
gusto, ma con scherzi brevi e su un autore riconoscibile, non su un filone,
una tendenza, un mercato. Calvino ne fa il tema di questo “Se una notte”,
nella conferenza di Buenos Aires in questi termini: “L’impresa di cercare di
scrivere romanzi «apocrifi», cioè che immagino siano scritti da un autore che
non sono io e che non esiste”. Ma la parodia è aspra, cattiva, a tratti
ossessivamente sprezzante. O allora la (vecchia?) prosa di arte, il ricamo arabo, non figurativo, la calligrafia.
Il lettore può provare a leggere
il “romanzo inesausto” come proposta di visita al laboratorio dello scrittore.
Come un open day dell’autorialità, perché
possa vedere come si lavora. A disposizione del visitatore mettendo vari
abbozzi e non un artefatto-prodotto completo, finito. Un esempio dal reale di work-in-progress, teorico e pratico. A
cui però già l’introduzione – la lettera al critico, abuso editoriale? - che si
dilunga sul perché e come l’autore ha voluto deliziare (deludere) il Lettore,
maiuscolo, con un romanzo fatto di dieci generi di romanzo, di dieci ipotesi di
generi di romanzo, toglie tutta la poesia, cioè la voglia di leggere. Gli estri
ci sono, ma gettati lì, come a dire: “Ci so fare ma non voglio, non mi piace,
non m’interessa”. Una parodia di fatto del romanzo come genere, negli anni in
cui si profetava la fine del romanzo.
Contro
Eco
Si può anche leggere il
romanzo-non-romanzo come una canzonatura di Umberto Eco, che aveva appena celebrato il romanzesco nel “Superuomo
di massa”, 1976 - per la Cooperativa Scrittori, ultimo residuato del Gruppo 63 (e si apprestava a praticarlo, con “Il nome
della rosa”, 1980).
Ma bisogna sapere troppe cose.
Anche che Eco reagirà cinque anni dopo con un elogio sperticato del “Conte di
Montecristo”, e della letteratura (romanzi) di consumo, a puntate, di colportage, di massa, popolare – il
saggetto si legge come introduzione al “Conte di Montecristo” nella Bur. Con
tutti i loro difetti, spiegava lungamente perfido, il “Conte di Montecristo”
dicendo “uno dei romanzi più mal scritti
i tutti i tempi e di tutte le letterature”, stiracchiato, perché pagato un
tanto a riga, di uno scrittore che sapeva “scrivere” - “I tre moschettieri”
“fila via che è un piacere”, “secco, rapido”… Un duello a distanza, senza sfide
e senza padrini, ma cattivo. Quindici anni dopo Eco metteva Calvino, nelle “Sei
passeggiate nei boschi narrativi”, accanto a Campanile, Carolina Invernizio e
Ian Fleming. Sotto un titolo che rifà esplicito le “Lezioni americane” - da
Calvino intitolate “Sei proposte per il prossimo millennio”. Per un pubblico
sempre americano – un duello in campo neutro, o forse perché in Italia con la
Seconda Repubblica della letteratura non interessava più nulla a nessuno. Un
duello con ottimi argomenti da parte di entrambi, entrambi partendo dal Gruppo
63, dall’ipotesi di rinnovare l’italiano letterario e la letteratura, entrambi
convincenti, ma l’uno opposto all’altro, senza mai nominarsi. Marciando su terreni
diversi, Calvino esploratore, Eco storico - ma queste cose nei duelli non
contano.
Controvoglia
In questo come in molti altri
libri d’invenzione Calvino è narratore manifestamente controvoglia, che ha
difficoltà a tenere teso il filo della narrazione, come ce l’aveva a parlare,
avendo in uggia il parlarsi addosso – volendo parlare delle cose essenziali, vaste programme? È autore di un’opera
voluminosissima, in tutti i generi, anche nella scrittura giornalistica e
d’occasione, meno che nel romanzo – tre o quattro li ha lasciati inediti. Ne ha
scritti, come questo, ma di genere-non genere. Un tipo di racconto nuovo invece
articola, e inclassificabile. Si annovera nella scrittura fantastica, ma non
era narratore di fiabe, fantasy, fantascienza, gotico, del terrore, o altro
filone del genere. Era scrittore di scritture, di ricerca. Presto insofferente
– non incapace, ne ha scritti, e non di malavoglia – al racconto tradizionale,
di personaggi e sviluppi più o meno storicizzabili, abituali, conservativi. Un
po’ avulso com’è noto dalla politica, o a disagio, la realizzava (intendeva
realizzarla) nel suo ambito, letterario – fu anche funzionario editoriale e
lettore professionale. Come innovatore.
Nulla di più semplice della sua
prosa. Frasi corrette, svelte. “Cose” di tutti, di tutti i giorni, non usa
eccezionalità, trovatine, agudezas.
Eccetto quelle della normalità, della quotidianeità. Attraverso le quali
conduce il lettore in strani percorsi. Il cap. I (ogni proposta di romanzo è
preceduta da un capitolo introduttivo, con
progressione ordinale, in numero romano, ma è scollegata dalle altre)
spiega al Lettore, a cui confidenzialmente dà del tu, come vedersi, mentre
compra “Se una notte d’inverno un viaggiatore” e poi si dispone a leggerlo.
Nulla di più semplice anche come tema – piano, tradizionale. Ma inconsueto: il
piacere della lettura propone in questa “novità”.
Contro
Joyce
Come nei racconti di Borges,
tradizionali nel taglio e inconsueti nell’argomento, lo svolgimento, l’esito.
Per un qualche aspetto a sorpresa ammirabile. È lo stesso per Calvino? Calvino
non chiude, lascia il filo dipanato, il congegno visibile. Lo “straniamento” di
Sklovskij e Brecht pratica con naturalezza, ovvietà. Non vuole
l’immedesimazione, tiene il lettore a distanza. E questo disorienta, respinge.
Col sospetto, per il lettore avvertito, tutto sommato, della trovatina. Non per
circonvenire il lettore, ma come di un autore in lite con se stesso. Che
procede sfidandosi - sfidando se stesso, figurarsi il Lettore. L’“opera aperta”
ha questo handicap: affatica l’autore
ancora prima del lettore.
Nella lettera-introduzione
Calvino si appella “al” Joyce che non nomina – Joyce è un nome che non ricorre
mai nella vastissima produzione di Calvino – del “romanzo che racconta una
giornata qualsiasi di un tizio di Dublino in diciotto capitoli ognuno con una
diversa impostazione linguistica”. Se non che Joyce aveva voglia di raccontare,
tanto che ne sperimentò in continuazione forme nuove. Come Calvino, si direbbe.
Solo che Calvino sembra invece disappetente lui per primo, al limite
dell’anoressia. O come uno chef che lavorasse per disappetenti, e riduce
l’oggetto, il tema del suo lavoro, la narrazione, a ghirigori mentali su un
muro che non scalfisce – come nelle foto di Mario Mazzetti di Pietralata,
l’endocrinologo che non riusciva a scalfire il male e lo rappresentava nei
muri ciechi. A distanza, non si infetta, non si spreca.
Esercizi
di stile
Un novista condannato al
novismo, a una sorta di moto perpetuo, dell’insoddisfazione, irrequietezza,
rigurgito acido - la ricerca può essere applicata, fra ipotesi e prove, o fine
a se stessa.
Negli stessi anni del
“Viaggiatore” Calvino è allegro traduttore, editore e riscrittore di
Queneau, cioè di una scrittura probabilistica. Una deriva del surrealismo, in
ambito matematico, o l’indistinto ipotetico della meccanica statistica
applicato alla scrittura. L’idea di “Se una notte” gli viene, dice, mentre
traduce il Queneau più ostico, “Esercizi di stile”. Apostolo ancora fervido
della letteratura dell’Oulipo nella quale è stato cooptato a Parigi, della
letteratura “potenziale” – per una narrazione caricaturale, non a caso del
Lettore, entro un gioco del tipo “vieni a prendermi”. Essendo partito da
Raymond Roussel, che in Italia si conosce solo per la morte a Palermo romanzata
da Sciascia, come un vagabondo un po’ svitato, ma è un iper-letterato che
studiava ”operazioni romanzesche”, dice Calvino - punto di partenza e punto di
arrivo le allitterazioni… Calvino non ha amato, forse non ha nemmeno letto,
l’“Ulisse” né le altre “stravaganze” linguistiche di Joyce, ma allora?
Contro
il Lettore
“Se una notte d’inverno” si legge
più correttamente come una continua beffa della narrazione, del piacere di
raccontare. Calvino stesso lo dice nel progetto, riflesso nell’indice, i dieci
“romanzi” avendo organizzato secondo una traccia che espone nei titoli: “Se una
notte d’inverno un viaggiatore\ Fuori dell’abitato di Malbork\ Sporgendosi
dalla costa scoscesa\ Senza temere il vento e la vertigine\ Guarda in basso
dove l’ombra s’addensa\ In una rete di linee che sì allacciano\ In una rete di
linee che s’intersecano\ Sul tappeto di foglie illuminate dalla luna\ Intorno a
una fossa vuota\ Quale storia laggiù attende la fine?” Un esercizio goliardico.
O l’anti-romanzo – il punto
interrogativo finale. Se il Lettore eletto dovesse fermarsi alla
lettera-introduzione e al primo capitolo con annesso “romanzo”, come dargli
torto? Un lettore scampato. O uno che sa, come l’autore, “che il meglio che ci
può aspettare è di evitare il peggio”.
“Sorrisi e canzoni” e “la Repubblica” hanno
scelto quest’opera per promuoversi in edicola, cioè tra quanti, per età, mezzi
o abitudini di lettura, non si erano ancora avvicinati a Calvino. È buona
scelta? Certamente ardita.
È l’edizione Oscar, con la
presentazione dello stesso Calvino, e la corposa cronologia di Barenghi e Falcetto per i “Romanzi e racconti” di
Calvino nei Meridiani.
Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore,
Sorrisi e Canzoni TV-La Repubblica, in edicola, pp. XLVII + 276 € 9,90
“Sorrisi e Canzoni TV” e “la
Repubblica” avviano la serie promozionale del “tutto Calvino” con il romanzo dei
non-romanzi, una “narrazione” cerebrale, che ogni poche pagine, ogni capoverso,
se possibile ogni riga, si raffredda. Nel nome del Lettore di romanzi, anzi
della Lettrice – il lettore tipo, maiuscolo, si vuole sia avido di romanzi. Al
quale Calvino ne serve uno per ogni capitolo – solo l’inizio, il capitolo
iniziale, che però, si capisce, è già un racconto. Secondo un intreccio dei
“generi” romanzeschi non casuale. Che Calvino stesso schematizza nell’indice,
nei titoli. E in una lettera al critico Guglielmi, qui proposta come
introduzione (se ne riproduce il dettaglio da una ulteriore sintesi dello
stesso Calvino all’Istituto italiano di cultura di Buenos Aires, qui ripreso in
nota): “Un romanzo tutto sospetti e sensazioni confuse; uno tutto sensazioni
corpose e sanguigne; uno introspettivo e simbolico; uno rivoluzionario
esistenziale; uno cinico-brutale; uno di manie ossessive; uno logico e
geometrico; uno erotico-perverso; uno tellurico-primordiale; uno
apocalittico-allegorico”. Di fatto, malgrado le sensazioni forti dei titoli,
tutti gelidi, volutamente.
Contro
il nouveau
roman
Un paradosso dichiarato: Calvino
pretende la celebrazione del libro con un non libro. Meglio: col racconto di un
romanzo, come avrebbe potuto essere e non è. Fatto di dieci ipotesi di romanzo. Con
una punta di nouveau roman, la
descrittiva minuta di ogni gesto o persona, il viaggiatore alla stazione, il
soffritto di cipolla, il jogging, la
tintura dei capelli, le geografie, le geometrie, eccetera, parodistica. Nel
genere pastiche, ma lo scherzo non
dura se ripetuto, interminabile – diventa pietra dura, la “fissa” su cui si
ironizza. Proust, che ne ha lasciato esempi piacevoli, vi si esercitava con
gusto, ma con scherzi brevi e su un autore riconoscibile, non su un filone,
una tendenza, un mercato. Calvino ne fa il tema di questo “Se una notte”,
nella conferenza di Buenos Aires in questi termini: “L’impresa di cercare di
scrivere romanzi «apocrifi», cioè che immagino siano scritti da un autore che
non sono io e che non esiste”. Ma la parodia è aspra, cattiva, a tratti
ossessivamente sprezzante. O allora la (vecchia?) prosa di arte, il ricamo arabo, non figurativo, la calligrafia.
Il lettore può provare a leggere
il “romanzo inesausto” come proposta di visita al laboratorio dello scrittore.
Come un open day dell’autorialità, perché
possa vedere come si lavora. A disposizione del visitatore mettendo vari
abbozzi e non un artefatto-prodotto completo, finito. Un esempio dal reale di work-in-progress, teorico e pratico. A
cui però già l’introduzione – la lettera al critico, abuso editoriale? - che si
dilunga sul perché e come l’autore ha voluto deliziare (deludere) il Lettore,
maiuscolo, con un romanzo fatto di dieci generi di romanzo, di dieci ipotesi di
generi di romanzo, toglie tutta la poesia, cioè la voglia di leggere. Gli estri
ci sono, ma gettati lì, come a dire: “Ci so fare ma non voglio, non mi piace,
non m’interessa”. Una parodia di fatto del romanzo come genere, negli anni in
cui si profetava la fine del romanzo.
Contro
Eco
Si può anche leggere il
romanzo-non-romanzo come una canzonatura di Umberto Eco, che aveva appena celebrato il romanzesco nel “Superuomo
di massa”, 1976 - per la Cooperativa Scrittori, ultimo residuato del Gruppo 63 (e si apprestava a praticarlo, con “Il nome
della rosa”, 1980).
Ma bisogna sapere troppe cose.
Anche che Eco reagirà cinque anni dopo con un elogio sperticato del “Conte di
Montecristo”, e della letteratura (romanzi) di consumo, a puntate, di colportage, di massa, popolare – il
saggetto si legge come introduzione al “Conte di Montecristo” nella Bur. Con
tutti i loro difetti, spiegava lungamente perfido, il “Conte di Montecristo”
dicendo “uno dei romanzi più mal scritti
i tutti i tempi e di tutte le letterature”, stiracchiato, perché pagato un
tanto a riga, di uno scrittore che sapeva “scrivere” - “I tre moschettieri”
“fila via che è un piacere”, “secco, rapido”… Un duello a distanza, senza sfide
e senza padrini, ma cattivo. Quindici anni dopo Eco metteva Calvino, nelle “Sei
passeggiate nei boschi narrativi”, accanto a Campanile, Carolina Invernizio e
Ian Fleming. Sotto un titolo che rifà esplicito le “Lezioni americane” - da
Calvino intitolate “Sei proposte per il prossimo millennio”. Per un pubblico
sempre americano – un duello in campo neutro, o forse perché in Italia con la
Seconda Repubblica della letteratura non interessava più nulla a nessuno. Un
duello con ottimi argomenti da parte di entrambi, entrambi partendo dal Gruppo
63, dall’ipotesi di rinnovare l’italiano letterario e la letteratura, entrambi
convincenti, ma l’uno opposto all’altro, senza mai nominarsi. Marciando su terreni
diversi, Calvino esploratore, Eco storico - ma queste cose nei duelli non
contano.
Controvoglia
In questo come in molti altri
libri d’invenzione Calvino è narratore manifestamente controvoglia, che ha
difficoltà a tenere teso il filo della narrazione, come ce l’aveva a parlare,
avendo in uggia il parlarsi addosso – volendo parlare delle cose essenziali, vaste programme? È autore di un’opera
voluminosissima, in tutti i generi, anche nella scrittura giornalistica e
d’occasione, meno che nel romanzo – tre o quattro li ha lasciati inediti. Ne ha
scritti, come questo, ma di genere-non genere. Un tipo di racconto nuovo invece
articola, e inclassificabile. Si annovera nella scrittura fantastica, ma non
era narratore di fiabe, fantasy, fantascienza, gotico, del terrore, o altro
filone del genere. Era scrittore di scritture, di ricerca. Presto insofferente
– non incapace, ne ha scritti, e non di malavoglia – al racconto tradizionale,
di personaggi e sviluppi più o meno storicizzabili, abituali, conservativi. Un
po’ avulso com’è noto dalla politica, o a disagio, la realizzava (intendeva
realizzarla) nel suo ambito, letterario – fu anche funzionario editoriale e
lettore professionale. Come innovatore.
Nulla di più semplice della sua
prosa. Frasi corrette, svelte. “Cose” di tutti, di tutti i giorni, non usa
eccezionalità, trovatine, agudezas.
Eccetto quelle della normalità, della quotidianeità. Attraverso le quali
conduce il lettore in strani percorsi. Il cap. I (ogni proposta di romanzo è
preceduta da un capitolo introduttivo, con
progressione ordinale, in numero romano, ma è scollegata dalle altre)
spiega al Lettore, a cui confidenzialmente dà del tu, come vedersi, mentre
compra “Se una notte d’inverno un viaggiatore” e poi si dispone a leggerlo.
Nulla di più semplice anche come tema – piano, tradizionale. Ma inconsueto: il
piacere della lettura propone in questa “novità”.
Contro
Joyce
Come nei racconti di Borges,
tradizionali nel taglio e inconsueti nell’argomento, lo svolgimento, l’esito.
Per un qualche aspetto a sorpresa ammirabile. È lo stesso per Calvino? Calvino
non chiude, lascia il filo dipanato, il congegno visibile. Lo “straniamento” di
Sklovskij e Brecht pratica con naturalezza, ovvietà. Non vuole
l’immedesimazione, tiene il lettore a distanza. E questo disorienta, respinge.
Col sospetto, per il lettore avvertito, tutto sommato, della trovatina. Non per
circonvenire il lettore, ma come di un autore in lite con se stesso. Che
procede sfidandosi - sfidando se stesso, figurarsi il Lettore. L’“opera aperta”
ha questo handicap: affatica l’autore
ancora prima del lettore.
Nella lettera-introduzione
Calvino si appella “al” Joyce che non nomina – Joyce è un nome che non ricorre
mai nella vastissima produzione di Calvino – del “romanzo che racconta una
giornata qualsiasi di un tizio di Dublino in diciotto capitoli ognuno con una
diversa impostazione linguistica”. Se non che Joyce aveva voglia di raccontare,
tanto che ne sperimentò in continuazione forme nuove. Come Calvino, si direbbe.
Solo che Calvino sembra invece disappetente lui per primo, al limite
dell’anoressia. O come uno chef che lavorasse per disappetenti, e riduce
l’oggetto, il tema del suo lavoro, la narrazione, a ghirigori mentali su un
muro che non scalfisce – come nelle foto di Mario Mazzetti di Pietralata,
l’endocrinologo che non riusciva a scalfire il male e lo rappresentava nei
muri ciechi. A distanza, non si infetta, non si spreca.
Esercizi
di stile
Un novista condannato al
novismo, a una sorta di moto perpetuo, dell’insoddisfazione, irrequietezza,
rigurgito acido - la ricerca può essere applicata, fra ipotesi e prove, o fine
a se stessa.
Negli stessi anni del
“Viaggiatore” Calvino è allegro traduttore, editore e riscrittore di
Queneau, cioè di una scrittura probabilistica. Una deriva del surrealismo, in
ambito matematico, o l’indistinto ipotetico della meccanica statistica
applicato alla scrittura. L’idea di “Se una notte” gli viene, dice, mentre
traduce il Queneau più ostico, “Esercizi di stile”. Apostolo ancora fervido
della letteratura dell’Oulipo nella quale è stato cooptato a Parigi, della
letteratura “potenziale” – per una narrazione caricaturale, non a caso del
Lettore, entro un gioco del tipo “vieni a prendermi”. Essendo partito da
Raymond Roussel, che in Italia si conosce solo per la morte a Palermo romanzata
da Sciascia, come un vagabondo un po’ svitato, ma è un iper-letterato che
studiava ”operazioni romanzesche”, dice Calvino - punto di partenza e punto di
arrivo le allitterazioni… Calvino non ha amato, forse non ha nemmeno letto,
l’“Ulisse” né le altre “stravaganze” linguistiche di Joyce, ma allora?
Contro
il Lettore
“Se una notte d’inverno” si legge
più correttamente come una continua beffa della narrazione, del piacere di
raccontare. Calvino stesso lo dice nel progetto, riflesso nell’indice, i dieci
“romanzi” avendo organizzato secondo una traccia che espone nei titoli: “Se una
notte d’inverno un viaggiatore\ Fuori dell’abitato di Malbork\ Sporgendosi
dalla costa scoscesa\ Senza temere il vento e la vertigine\ Guarda in basso
dove l’ombra s’addensa\ In una rete di linee che sì allacciano\ In una rete di
linee che s’intersecano\ Sul tappeto di foglie illuminate dalla luna\ Intorno a
una fossa vuota\ Quale storia laggiù attende la fine?” Un esercizio goliardico.
O l’anti-romanzo – il punto
interrogativo finale. Se il Lettore eletto dovesse fermarsi alla
lettera-introduzione e al primo capitolo con annesso “romanzo”, come dargli
torto? Un lettore scampato. O uno che sa, come l’autore, “che il meglio che ci
può aspettare è di evitare il peggio”.
“Sorrisi e canzoni” e “la Repubblica” hanno
scelto quest’opera per promuoversi in edicola, cioè tra quanti, per età, mezzi
o abitudini di lettura, non si erano ancora avvicinati a Calvino. È buona
scelta? Certamente ardita.
È l’edizione Oscar, con la
presentazione dello stesso Calvino, e la corposa cronologia di Barenghi e Falcetto per i “Romanzi e racconti” di
Calvino nei Meridiani.
Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore,
Sorrisi e Canzoni TV-La Repubblica, in edicola, pp. XLVII + 276 € 9,90
lunedì 26 ottobre 2020
Secondi pensieri - 432
zeulig
Grecia - Perché la
sensibilità d’animo e la bellezza vi nacquero? Perché non ebbe sacerdoti, solo
qualcuno importato dall’Egitto, né chiese né dogmi, ma una libera fioritura.
Dio la Grecia concepì anche malvagio e lussurioso, ma non geloso dell’uomo.
È un’ipotesi,
ma perché no. Dio era suo, la divinità fu greca come i greci, fu della parte
più ambiziosa di sé la Grecia che lo forgiò e nutrì. Seppure tra guerre continue – i greci inventarono anche
quella dei trent’anni.
Heidegger – La questione
si può chiarire (svelenire) col personaggio – comunque è la via maestra per l’insondabile
filosofia. È heideggeriano il Walter Matern di Güter Grass, “Anni di cani”, l’ubriacone,
comunista, milite SA, hitleriano che, disertore in guerra e tourné cattolico, va col cane di Hitler
alla ricerca dei colpevoli. Nel 1933 si era fatto pure i baffetti alla Hitler –
Heidegger, di Matern non sappiamo. La Germania è fatta così, a volte si
sorprende.
Elegiaco, quasi sentimentale, nei versi
e anche in prosa: della tribù, la provincia provinciale, il dialetto, la
solitudine, il silenzio.
Chiercihetto, e quasi mistico, non fosse
per la foia. Dell’“abbandono” preda, che deriva all’esoterismo: “Pervenire a
quell’assenza del pensiero di cui finora non si è fatta esperienza”, e alla “trascendenza (che) oltrepassa la
percezione degli oggetti”. In Attesa, all’Aperto, dell’Aperto. Dagli ossimori
affascinato del misterico Trakl, che ritrova fino in Rimbaud – del “sapere
ignorando”, del “nominare tacendo”, e “il non parlare” come “un aver già
detto”. Ossimori che ripetono la dialettica appena insolentita – “la dialettica
è la dittatura dell’ovvio”.
Il
greco sapeva meglio dei greci.
E
anche le cose che i greci non dicevano, non pensavano nemmeno. Il metodo del
pensare e le vie del pensiero volendo diversi: “Questo fatto si lascia dire
nominare nel modo più chiaro nella lingua\ greca, sebbene la seguente
proposizione non ricorra\ in alcun luogo del pensiero dei Greci:\ La via (non
è) mai un metodo”. Salvo, poi, concedere: “La via non conosce nessun metodo,\ nessun
dimostrare, nessuna mediazione”, scoprendo di sapere di non sapere. Socratico.
O un neoteros della sofistica. Perché
sapere è “l’esperienza della mancanza”. O: “«Oblio dell’essere» nomina di primo
acchito\ una mancanza, una negligenza. In verità\ questa parola è il nome
dell’invio del diradare\ dell’essere, in quanto questo uò farsi palese solo
come\ presenza”.
Nello
scemenzario: la filosofia è solo tedesca. Perché la Germania è l’erede deal
Grecia. Di quella dorica, presocratica.
Licht, Lichtung ha la stessa radice di leicht,
facile facile.
Il
7 febbraio 1950 Hannah Arendt incontra dopo vent’anni Martin, a Friburgo. Dove
lui abita con la famiglia. Il 14 marzo rivela alla sua “amata animuccia”
Elfride che ne è stato l’amante. In questi termini: “L’Altro, ciò che è inseparabile
dall’amore per te e, in altra maniera, dal mio pensare, è difficile da dire. Lo
chiamo Eros, il più vecchio tra gli dei secondo Parmenide. Il colpo d’ala di
quel dio mi sfiora ogni volta che compio un passo essenziale nel pensiero e mi
arrischio nell’impercorso”. Bene, ma il meglio deve venire: “Mi tocca forse con
più forza, e in modo più inquietante di altre volte, quando ciò che è stato
lungamente presentito deve essere tradotto nella sferra del dicibile, e però il
detto deve essere lasciato ancora a lungo nella solitudine”. Che sembra
incomprensibile e lo è. Ma non se si capisce che pensare è scopare – geniale,
no?
Marxismo liberale – L’arciliberale
Gobetti Giacomo Devoto, “Civiltà di persone”, può dire “marxista”. Non per
convinzione, per tattica: “Non arieggia un «vocabolario», uno «stile» marxista,
flirta apparentemente con formulari marxisti, in realtà si mimetizza, si maschera
con quei formulari e quei simboli per battersi meglio sul piano tattico” E
dunque, il marxismo è copertura liberale…
Ma è più vero il percorso inverso: è Marx l’iperliberale
intransigente. Più conseguente – l’esito più coerente del liberalismo è
l’anarchia, dolce, mite: l’abolizione dello Stato al coperto della lotta di
classe, del supremo consegnatario del potere dei poteri.
“Furio Diaz, ricorda ancora Devoto in
“Civiltà di persone” (1973), ex sindaco comunista di Livorno, “durante un pranzo
abbastanza ufficiale ebbe a dire di sé «noi di formazione liberale»”. Diaz, lo
storico del Settecento toscano, in realtà era socialista, avendo lasciato il
partito Comunista nel 1956, dopo l’invasione dell’Ungheria, ma al tempo in cui
era sindaco di Livorno era comunista professo - ma quando il suo collega
universitario Devoto scriveva era vivo e attivo. Le radici liberali del
marxismo non sono indagate, ma sono evidenti, tra l’illuminismo e Adam Smith,
dal materialismo all’abolizione dello Stato.
Memoria – È mobile,
essendo la memoria di un essere vivente – compreso lo storico, che pure è allenato
ai suoi temperamenti, o trucchi, o movimenti (non c’è storico che abbia personalità,
giudizio, misure costanti, inalterabili, non potrebbe). Nel tempo, anch’esso
mobile. Ancorabile, a eventi passati, Che però non sono tutti, sempre, fissi,
Questo
è vero delle memorie collettive, di eventi come la guerra, e di quelle
personali, per diletto o testimonianza. Si vaga. Se è un fondamento, ci si
fonda sulla labilità.
Un’altra sfaccettatura
dell’interminabile autorappresentazione di Proust, dice Devoto analizzando i vari
tipi di “memorie” (“Civiltà di parole”,) è la memoria “lirica”. Dice anche i
ricordi “del Proust”, “trasfigurati ad altissimo livello”, come quelli di
Cellini e di Alfieri, “disinteressati”. Cioè? “Senza secondi fini, né di potenza
né di difesa”. Davvero? Un tipo di memoria fuori della storia?
Pirandellismo
–
È l’affermazione della negazione. E un modo di essere che si connota per non essere.
L’essere al tempo della civiltà della crisi e della negazione dell’essere. Così
è nell’opera, ed è come lo pensa e lo dice l’autore. Che ne ha fatto la
scoperta dopo vari esperimenti (prove) di altro indirizzo: ha trovato infine un
riscontro (il successo letterario, artistico) e lo ha caratterizzato – se ne è
caratterizzato.
È una maniera di essere, più che di non
essere. Anche qui testimone la stesa figura dell’autore. Che fu un bugiardo compulsivo,
perfino eccessivo, senza necessità o forza maggiore. Finché del bugiardo-bugiardo,
al modo del paradosso del mentitore (Epimenide cretese che dice: “Tutti i
cretesi sono bugiardi”), fece un personaggio, il “fu Mattia Pascal”, il personaggio
piacque, metafisicizzato, e il pirandellismo ci crebbe sopra. Una costruzione meditata
ma non disperata: sapiente, calcolata, aggiornata, adattata, in innumerevoli
racconti e nel teatro poi “pirandelliano”.
Di questo Pirandello dà ampi materiali l’ultima
biografa, Annamaria Andreoli, “Diventare Pirandello. L’uomo e la maschera”, che
lo apparenta a Pinocchio. Racconta normalmente bugie ai genitori su tutto, in
genere per spillare denaro ma anche innecessarie. Fidanzato con una cugina che
non gli piaceva, s’inventa stranissime malattie che lo porterebbero a morte in
caso di matrimonio.
Andreoli può trovare il pirandellismo
pinocchiesco – dove prende le parti dello scrittore contro i critici del “Fu
Mattia Pascal”, “l’eroe pirandelliano che muore fintamente a trent’anni, l’età
di Cristo, per risorgere con una falsa identità”: “Si fatica a comprendere che Pascal è
variante degradata dell’uomo-dio: uomo-burattino come Pinocchio, anche lui
risorto. Nella trama compaiono in controluce due ladroni (il gatto e la volpe),
un sentenzioso filosofo (il grillo parlante), una giovane «mammina» vestita d’azzurro
(la fata turchina). Se il naso non diventa lungo le bugie attanagliano il
personaggio finché non è più in grado di sostenerle. Per tornare alla verità
deve fingere di morire un’altra volta”.
Social
–
Sono un Ersatz della socialità, di fatto
la aboliscono e la impediscono. Il contatto diretto, tra persone invece che tra
detti e contradetti, o le vignette dei fumetti. Come impegno del tempo, e di
più come forma di comunicazione, di fatto impersonale, malgrado le “amicizie” e
i “likes”.
Il digitale sostituisce e abolisce il
rapporto personale – l’impulso, l’umore, la passione. È come diceva McLuhan un
mondo freddo, di messaggi e immagini fredde.
Storia – L’opera
colossale di Tito Livio Devoto, “Civiltà di persone”, dice la “memoria
collettiva” dei romani. La storia è memoria collettiva.
zeulig@antiit.eu
L’immigrato in Italia è europeo
Erano censiti in Italia vent’anni fa poco più
di due milioni di immigrati residenti, 2 milioni 122 mila. Meno del Benelux,
quasi 3 milioni. Meno della metà della Gran Bretagna (4,7 milioni). Un terzo
della Francia (6.3 milioni). Tra un quarto e un quinto della Germania (9 milioni).
La cifra per l’Italia risulta triplicata a
fine 2019 (i dati sono Onu): 6,3 milioni. Mentre in Gran Bretagna è raddoppiata
(9, 6), superando la Francia di 1 milione e 200 mila unità. In Francia e in
Germania è aumentata di un terzo o poco più: in Francia risultavano 8 milioni
335 mila immigrati residenti, in Germania 13 milioni 132 mila. L’Italia ha
avuto l’impatto maggiore di nuova immigrazione nel Millennio.
Altra peculiarità: gli immigrati residenti in Italia
sono per più della metà europei: 3,2 milioni, rispetto ai 3,1 milioni di extraeuropei.
Lo stesso equilibrato rapporto registra la Germania: 6,6 milioni di europei e
6,6 milioni di extraeuropei. In Gran Bretagna e Francia, paesi coloniali fino a
cinquant’anni fa, il rapporto è invece di uno a due: in Francia 2,6 milioni di
europei e 5.6 di extraeuropei, e in Gran Bretagna di 3,3 europei 6,2 extraeuropei.
Per europei si intendono soprattutto immigrati
dall’Est Europa (Polonia, Romania, Bulgaria, Ucraina, Moldavia per lo più) e
dai Balcani (Albania, Bosnia, Serbia, Montenegro, Nord Macedonia).
Gelo inter-genere
Singolare frigidezza di questa “fluidità
di genere”, tra maschile e femminile, di cui Sky ha dato l’opportunità a
Guadagnino. Una sorta di manuale di come farlo, tra anonimi, in una base
militare, quindi per antonomasia di omaccioni. Il non-genere o multi-genere non
si presta - niente affettività, niente passioni?
Freddissimo il linguaggio coatto.
Non documentario: gli adolescenti non sono (del tutto) inespressivi. Nemmeno in
America, è da supporre. Un’americanata anti-America?
Luca Guadagnino, We are who we are, Sky-Atlantic
domenica 25 ottobre 2020
Il mondo com'è (412)
astolfo
Antisemitismo – Nell’accezione
moderna, tra Sette e Ottocento, è stato essenzialmente francese. Come
teorizzazione e come sentimento diffuso, mediato dalla pubblicistica. Il caso
Dreyfus, che divise la Francia tra fine Ottocento e primo Novecento, condensava
le teorie di Vacher de Lapouge e del franco-tedesco de Lagarde. Lunga è la
lista del sentimento antisemita espresso o coltivato dagli scrittori, da
Voltare a Michelet e Céline. Compreso il socialismo di Saint-Simon, Fourier,
Jaurès.
Diffuso anche il risentimento popolare. Ancora nel 1944, con la Germania in rotta,
all’Est, a Sud, nel Mediterraneo e in Italia, e sullo stesso fianco Ovest, si
facevano denunce di singoli ebrei e arresti a Parigi. Max Jacob, che pure era
buon cristiano da molti anni, molto pio, fu arrestato il 24 febbraio 1944
all’uscita dalla basilica dove aveva servito messa, la messa del mattino –
morirà nel campo di Drancy.
Drôle de guerre –
Poco analizzata la dissoluzione della Francia sotto l’attacco di Hitler, in
quaranta giorni nl 1940, si presta a contrastanti illazioni. Pesò il sabotaggio
del partito Comunista Francese e della Cgt, il sindacato legato al Pcf, essendo
la Germania l’alleata dell’Unione Sovietica? O il francese medio era giunto a
rallegrarsi, vendicativo contro l’esperienza governativa del Fronte Popolare,
socialcomunista: “Adesso ci penserà Hitler a tenere a bada i comunisti!”.
Francia-Germania –
Giacomo Devoto, “Civiltà di persone”, 131: “I germanici «Franken», in quanto
«Frànconi», hanno definito la regione tedesca della Franconia, e in quanto
«Franchi», la Francia. Ad essi risalgono
anche due parole italiane, derivate secondariamente da «Francia»: l’una, nome
di popolo, «Francesi», l’altra soprannome individuale, «Francesco».
Quest’ultimo dall’Italia è rientrato in Germania, e sotto l’influenza del
pesante accento iniziale, si è ridotto a «Franz» - “gli rimase vicino la forma
latineggiante «Franziskus», che, nel rituale ecclesiastico, è rimasta a
indicare (più di) un santo». Franchi uber alles?
I
tedeschi sono in realtà “francesi” anche in questo, nota Savinio, “Scatola
sonora”, 137-8: “I Tedeschi, tre volte in meno di un secolo, hanno mosso guerra
ai Francesi. Per vincerli? No. Per distruggerli? No. Per manducarli a scopo
eucaristico. Per infranciosarsi (per indiarsi… Dieu est-il français?”.
Con una
coda: “In altri tempi, e quando non la Francia ma l’Italia era la sirena di
turno, i Tedeschi, e con lo stesso fine eucaristico, cercavano di manducarsi
l’Italia (Goethe)”.
Jünger, che è
nazionalista sensibile, voleva dare “tutto Stendhal per un poesia di Hölderlin”
- poi si pentì, e riscrisse il romanzo, ma fu l’edizione originale a fare il
successo di “Cuore avventuroso”.
La “linea
Sigfrido” e la “linea Maginot”, residuati delle fortificazioni tedesca e
rancese della Grande Guerra, Jünger vede fronteggiarsi, nel diario di guerra
dell’inverno 1939, sulle due rive del Reno come cannicciati, “paraventi” o
“contrevents” di canne.
Stefan George,
che ha rifatto la poesia germanica, solo da grande a Berlino scelse il tedesco,
essendo cresciuto col francese lungo il Reno, dopo aver fatto tesoro a Parigi
di Mallarmé e Verlaine. I casi di tedeschi che
si preferiscono francesi sono numerosi: da “Anacharsis” Cloots a Heine, Walter
Banjamin, Heinrich Mann, Ernst Jünger. Anacharsis Cloots, il barone prussiano educato dagli oratoriani di
Juilly, collegio colto ma civicamente salesiano, cioè laico, compagno di Héraut
de Séchelles, il bello della Rivoluzione - tanti i nobili tra i boia del
Terrore - e di Bonald, teorico della reazione, dapprima si volle
l’Anacharsis in viaggio dell’abate Barthélemy, confutatore del cristianesimo col maomettismo,
quindi si ribattezzò Jean-Baptiste, e “oratore del genere umano” - e fu feroce
coi girondini, i liberali della Rivoluzione, ma era del gruppo estremista
perdente e gli tagliarono la testa, anche a lui.
Il contrario è pure vero, di francesi che si vogliono
tedeschi, ma in minor numero. Nerval al Reno esclama: “Germania, nostra madre a
tutti!”. O Mme de Staël. Il Reno commuoveva anche Hugo e perfino Dumas.
Ma, poi, i francesi – galli e franchi – sono
dappertutto. Nell’anno 49 a.C. , del
ritorno di Cesare dalla Gallia, “un gran numero di Germani – centoventimila
venne riferito – ha attraversato il Reno e si è stabilito nelle terre degli
Elvezi, una tribù bellicosa, la cui risposta è stata di spostarsi a loro volta
verso ovest, all’interno della Gallia, in cerca di nuovi territori” (R.Harris,
“Conspirata”, p. 336). Con una distinzione, però, tra galli e franchi: molta
letteratura d’appendice nell’Ottocento, diecine di migliaia di pagine, divide
la Francia tra franchi oppressori e galli onesti lavoratori, oppressi.
Simone Weil, “La
prima radice”, ha l’atroce conquista della Francia sotto la Loira da parte dei
francesi-franchi - i tedeschi di un tempo erano i francesi, nella Francia
attuale sotto la Loira, di Albigesi e trovatori che non erano francesi, in
Borgogna, nelle Fiandre, in Sicilia. Così S. Weil: “La Franca Contea, libera e
felice sotto la lontanissima sovranità spagnola, si batté nel Seicento per non
diventare francese. La popolazione di Strasburgo si mise a piangere quando vide
le truppe di Luigi XIV entrare nella sua città in piena pace, con una
trasgressione della parola data degna di Hitler”.
Franck, barbaro libero, la cui
lingua s’impose quando il latino fu desueto, nei secoli ha significato europeo,
nel Mediterraneo e oltre. Carlo Magno, che s’illustrò battendo i longobardi per
il papa, regnò su una Francia Occidentale e una Francia Orientale. Prima di
Carlo Magno, Pipino il Breve fu franco e tedesco. Le parti s’invertivano ancora
nel 1746, quando Maurizio di Sassonia sconfisse Carlo di Lorena per conto del
re di Francia. Teutonicissime le mogli dei conti-duchi normanni, Adelasia,
Eremburga, Fressenda, Sichelgaita, che s’incontrano a Mileto in Calabria, prima
capitale del Regno del Sud.
I normanni, uomini del Nord, erano vichinghi, cioè
tedeschi, anche loro.
La Francia
identifica per la Germania anche l’antisemitismo moderno, ottocentesco. I
migliori teorici in Germania furono francesi: Paul Anton de Lagarde, che scelse
di essere tedesco malgrado le ascendenze lorenesi, e Vacher de Lapouge. Collaboratori volenterosi in questo campo degli
occupanti germanici dopo la drôle de guerre.
Francia-Italia –
Pesa sempre Cesare col “De bello gallico”, e la serie di Asterix, ma prima e
dopo l’impero romano i rapporti sono stati sempre a senso unico, con le truppe
e le signorie francesi in Italia. Cominciò Brenno nel 393 a. C. I galli-celti
restarono nella Gallia Cisalpina, cacciando gli Etruschi: tutta l’Italia
settentrionale fino al Rubicone, divisa dal Po tra Gallia Transpadana e Gallia Cispadana. Bologna è nome gallico, dai
Galli Boi che la abitavano (gli stessi che daranno il nome alla Boemia) – con
gli Etruschi era Felsina. Senigallia è la città dei galli Senoni.
Poi vennero i Normanni, gli Angioini, i Valois. Carlo di
Valois a Firenze nel 1301 sconfisse e scacciò dalla città la parte Guelfa
Bianca – Dante compreso, condannato a morte e da allora in esilio per
ventiquattro anni, fino alla morte. Disastrosa pure la spedizione di Carlo VIII
nel 1494, per le distruzioni materiali da lui ordinate, e per la rottura degli
equilibri italiani, che avrebbero potuto altrimenti assestarsi nel segno
dell’unità nazionale. Lo seguì il successore Luigi XII ai primi del nuovo secolo, da ultimo chiamato dal papa Giulio II. E poi Francesco I – che il marchese di Pescara Ferrante
D’Avalos sconfisse a Pavia e fece prigioniero.
Tra Carlo VIII, fine Quattrocento, e la fine del Cinquecento
furono ben undici le “grandi guerre d’Italia” registrate dalla storiografia
francese, condotte dai re di Francia in Italia, per presunti diritti sul regno
di Napoli e\o sul ducato di Milano. La prima, di Carlo VIII, è per il regno di
Napoli. La seconda, di Luigi XII, per il ducato di Milano. La terza,
1501-1504, per il regno d Napoli, con numerose battaglie, a Capua, Seminara
(due battaglie), Barletta, Ruvo, Cerignola, Garigliano. Le altre sono tutte
per il milanese. La quarta fu combattuta in tutto il Nord, in una ventina di battaglie. La quinta, il battesimo
del nuovo re di Francia Francesco I, è la battaglia d Marignano. Le sei guerre successive sono repertoriate come
“duello Valois-Asburgo”. La prima vide Francesco I sconfitto a Pavia,
prigioniero di Carlo Quinto.
Poi venne Napoleone. Con la Repubblica Cisalpina, la
Repubblica Italiana, le occupazioni di Roma, e la lunga guerra nel regno
borbonico di Napoli. E con le enormi depredazioni di opere d’arte.
Saranno le truppe francesi a fiancheggiare il Piemonte nelle
prime guerre del Risorgimento, Con la
parentesi, subito dopo il 1848, del 1849, quando abbatterono la
Repubblica Romana per conto del papa.
Da parte italiana c’è solo la mini-invasione decisa da
Mussolini due giorni prima che la Francia si arrendesse a Hitler con
l’armistizio di Compiègne, e l’occupazione della Provenza per tre anni.
astolfo@antiit.eu
Vita dura e divertita del Critico Militante
Giuseppe Leuzzi
“Non posso stare tranquillo un attimo:
stanno ammazzando lo Stato Sociale, che è il massimo risultato della mia vita
politica”. Walter Pedullà si angoscia, e non può nemmeno tanto, l’ischemia è in
agguato. Ma non smette lo humour che lo ha fatto gigante, di uno e ottantatré,
per settanta di spalle: si proclama vittima, mentre si accinge a raccontarceli,
di “ricordi involontari che pretendono di dire la loro”. Mentre lui ha solo due
certezze: “So solo che sarò sempre interista (lo sono da più di ottant’anni) e
sempre socialista (lo sono da settantacinque)”. Una professione di fede oggi
non comune – non la fede nell’Inter.
A novant’anni, quello che è stato il critico militante e anche il teorico
dell’innovazione letteraria, della ricerca nella scrittura, soprattutto sulla
pagina “Libri” dell’“Avanti!”, e negli studi di Svevo (“socialista e umorista”,
che di meglio?), Palazzeschi, Gadda, Savinio, D’Arrigo, Pizzuto, Bontempelli, nonché a capo
di importanti istituzioni, la Rai, il Teatro di Roma, prova a mettere ordine
nei ricordi. Per un risarcimento personale, e per un bisogno di collocarsi, di
rivedere il mondo com’era – quando “il passato remoto diventa presente
infinito”. Socialista, tiene a dire, controcorrente sui tempi, dal primo
all’ultimo voto – “ sempre a favore delle correnti di sinistra, Foa, Basso,
Giolitti, Mancini, Lombardi” (ma “di fatto appartenevo alla corrente muta
fondata da me stesso”).
La vita rimemora come un romanzo, pieno di sorprese anche negli angoli più
frequentati, nelle pieghe più usate. Un “Buddenbrook” minore, in prima persona
– e senza l’alterigia thomasmanniana, cioè onesto: l’altoborghese, di censo o
cultura, è pur sempre nato piccoloborghese. Ma è storia, per lo più, seppure
recente - una storia recente ma remota, già arcaica, nell’Italia del Millennio:
familiare, locale, dei luoghi di origine, accademica, culturale, politica.
La famiglia a Siderno – “partimmo tutti”
Singolare è il quadro familiare, che viene per primo (in parte anticipato
nella raccolta di scritti d’occasione, “Quadrare il cerchio”, qui
sistematizzato) e del piccolo mondo in cui visse fino ai venticinque anni,
Siderno, in Calabria, sul mare Jonio. Il padre sarto di paese, maestro di
taglio, e quindi “don” Salvatore, uomo saggio e previdente. Il fratello
Gesumino, uomo colto, modesto, ottimo insegnante, secondo padre del molto più
giovane Walter, “che morì a trentadue anni nel viaggio di ritorno dalla lotta
partigiana” - organizzatore del Pci nel frusinate, a lui era intestata la
sezione Pci di Alatri. Il fratello Alfredo, epico non-studente, anche
all’università, alle università, Genova, Napoli, Messina, ma cultore
irrefrenabile d’a zannella, lo scherzo con gli amici in paese, e
comunista invece serioso, che ogni giorno spendeva ore sull’“Unità”, segretario
inappuntabile della Camera del Lavoro – “nessuno senza un lavoro”. Sette figli,
“quattro lauree, nonché tre diplomi con studi universitari interrotti per
urgenze o emergenze”. La memoria è lusinghiera: “Belli anche i corpi. Le figlie
erano bellissime”.
Ma niente di regalato. La memoria è pure un documento storico. La vita a
Siderno negli anni 1930-1950 è solidale ma grama. “Il paese del melodramma”,
Siderno Marina, cresce dal nulla fino a diventare una cittadina – il
borgo originario in collina resterà abbandonato. I sidernesi si disegnano il
marciapiedi, dato che nessuno glielo costruisce. E indorano la giornata con
l’ironia – che probabilmente inerisce al dialetto, è parte della forma
espressiva dialettale - e lo scherzo. Ma l’isolamento è totale – nella Calabria
di quegli anni, pur povera, la parte jonica era reputata un deserto.
Il nostos, il ritorno al paese, che Pedullà ha lasciato nel
1956, è la parte più combattuta dei “ricordi involontari”. “Eravamo tutti
un’unica famiglia. Le case a un solo piano affratellano: sei contemporaneamente
in casa e sulla strada, dove si fa salotto tra vicini” - le case a un solo piano, post-terremoto. Ma “d’inverno lo Jonio
era quasi sempre violento, invadente e travolgente”. Si facevano tre ore di
treno più una e mezza di traghetto per andare all’università, che era solo a
Messina, altrettante per tornare. Walter per anni lavora fino a quattordici ore
al giorno, con le lezioni private, dalle sei di mattina a mezzanotte, e fino a
trenta studenti al giorno (diecimila lire per ventisei ore mensili – ma
“lezioni gratuite ai bisognosi”), dormendo appena cinque ore. Furono anni anche
difficili: “Avevamo tanta fame che avremmo sgranocchiato il legno”. E poi,
morto Gesumino, “eravamo rimasti sei figli, partimmo tutti”. Gesumino era
partito per primo.
Siderno è la parte più raccontata – verrà utile quando quei luoghi avranno
infine una storia. Walter ci tornerà da grande, e la troverà diversa.
“Tranne che in Grecia, oggi ci sono sidernesi in ogni parte del mondo”,
constata. E anche: “Un giorno mi accorsi che i sidernesi non pativano più la fame”.
Quando la ficaia che copre il muro davanti casa appare stracolma di frutti
maturi, di ogni tipo, che nessuno coglie, mentre da ragazzo Walter
personalmente stava in agguato, tastando ogni giorno i fichi nella speranza che
fossero mangiabili.
Per molti anni ci passerà le vacanze. “Abbiamo appreso ad accogliere i
migranti e abbiamo imparato la lezione: il lavoro c’è dovunque”. Combatte, per
ridere, anche lui la battaglia con la vicina, vicinissima, Locri: “Fatta salva
la mitologia, che parteggia per Locri, la storia dice che i sidernesi opposero
irriducibile resistenza prima al fascismo e poi alla Democrazia Cristiana”, che
Locri invece locupletarono di “uffici da riempire con impiegati”, il Tribunale,
l’ospedale, la sotto-prefettura, il liceo. Fino al conglobamento nella
“locride”, neologismo presto famigerato (“ È chiamata Locride solo da quando le
dette tale nome il mio professore liceale di italiano”) per dire riserva di
caccia mafiosa, dai rapimenti di persona allo spaccio. E le vacanze di
Walter tornano a Nord, anche se Siderno è il luogo dove un giorno si vede
riposare. È lo stig ma del calabrese, come probabilmente di ogni altro costretto
all’emigrazione: in sintonia col luogo natio, ma tra suoni
discordanti.
Il maestro, Giacomo Debenedetti
C’è il ricordo del maestro, Giacomo Debenedetti, che ritorna in ogni piega
del ricordo – è il quarto o quinto libro di Walter Pedullà in cui Debenedetti è
parte dominante. Qui assortito con quello di Galvano Della Volpe. “Ogni
quindici giorni andavo a Messina dal giovedì al sabato, che erano giorni buoni
per le lezioni di altri professori, da Mazzarino a Della Volpe” - altri in
aggiunta a Debenedetti (Messina ha, aveva, una singolare abbondanza di teste
pensanti). Che veniva da Roma dal giovedì al sabato a settimane alterne.
Galvano Della Volpe non ha studenti, solo tre: “Era davvero singolare, il
filosofo aspettava me, Filocamo e Strati per fare le proprie ore di lezione, di
almeno doppia durata” – “la lezione poteva durare più di un’ora e mezza, ma
Della Volpe non se n’era accorto”. Erano lezioni-riflessioni per se stesso,
“per lui noi non esistevamo”. Del “filosofo materialista” impegnato a
“dimostrare quanta poesia c’è nella struttura razionale dell’opera”: “Ci pareva
di sentire il ticchettio ossessivo del suo cervello”, impegnato nel parto
concettuale. “Era felice lo sgravio”, Della Volpe sorrideva infine sprezzante:
“Ho assistito così alle lezioni di un professore che insegnava filosofia a se
stesso”.
Debenedetti di allievi ne aveva cento. I più non lo capivano, ma a decine
lo andavano a prendere in albergo e lo accompagnavano a lezione. Che si
concludeva con un applauso. Molto qui Pedullà spiega del modo di analizzare
testi e autori di Debenedetti, la sintesi forse migliore della personalità, gli
interessi e la metodologia del grande saggista. Ma è la sua vicenda personale a
prendere il lettore, fra il semitragico e l’inverosimile. Debenedetti,
incaricato a Lettere, fu licenziato perché comunista – era il tempo della
legge Scelba: niente uffici pubblici per i socialcomunisti. Galvano Della
Volpe, che lo aveva portato a Messina (benché anche lui sospettabile…), fece in
modo che mantenesse un incarico a Magistero, di Francese. Ma fu licenziato
anche a Magistero. Fu chiamato allora a Roma, era il 1958, per succedere a
Ungaretti. A Roma fu bocciato all’ordinariato: la commissione doveva cooptare
un Dc e un Pci. E il Pci gli preferì Salinari. Presidente di commissione il
professor Sapegno, Pci, torinese come Debenedetti, suo amico personale e
estimatore. Che andrà anche in tv a dire: Debenedetti non meritava di vincere.
“Meritavano di vincere invece Salinari (era membro della Direzione nazionale
del Pci in quanto responsabile della Commissione Cultura del partito) e
Petrucciani, che tra i suoi titoli aveva di essere democristiano come due
commissari” della cinquina – Salinari si illustrerà tardi, spiega Pedullà,
rivelando che del compromesso storico di Berlinguer era “precursore nientemeno
che il Manzoni dei Promessi sposi”.
La letteratura
Moltissimi aneddoti o piccoli segreti Pedullà ha da richiamare o svelare,
in una lunga vita per molti aspetti anche pubblica. Consigliere non assente per
quindici anni e poi anche presidente della Rai, presidente del Teatro di Roma,
responsabile dei Libri all’“Avanti!” per trenta e più anni, con collaboratori
di gran nome, poi critico saltuario al “Messaggero”, “Il Mattino, “l’Unità”,
referente di molti premi letterari (“più di me solo Carlo Bo”, che però “non
leggeva i libri, li annusava”), professore alla Sapienza per quarant’anni di
Letteratura Contemporanea, autore di monografie che fanno testo, su
Palazzeschi, Svevo, Gadda, Savinio, D’Arrigo, Pizzuto, Bontempelli, Debenedetti, animatore
di molte iniziative editoriali, la Cooperativa Scrittori con Pagliarani, Eco,
Manganelli, Balestrini, Sanguineti e molti altri, la Lerici per una quindicina
d’anni, le riviste “Il Cavallo di Troia”, “L’Illuminista” e “Il Caffè
Illustrato”.
Pedullà è soprattutto un professore di Letteratura Contemporanea e Moderna
e un critico letterario, e la letteratura ha molto spazio. Il metodo di lavoro
del “critico militante”. Che deve seguire le programmazioni editoriali, con poca libertà di scelta, ma non va a occhio, di fretta, per caso o per un qualche obbligo o servitù. E sempre impegnato per la ricerca letteraria, il nuovo, le avanguardie. A
decifrarle, spiegarle, metterle in valore. Senza mai smettere il sorriso, ma con
impegno. Anche le lezioni conduce con allegria, col metodo socratico –
insegnare, dice, “è il mio vizio preferito”.
Loquace, a lezione e sulla pagina: “Le mie descrizioni mancano di sintesi,
meglio l’analisi”. Ma sempre “col freno a mano tirato”, come riflette una
mattina di sé e della sua scrittura mettendo in moto la Cinquecento. Un critico
la cui maschera diventa personalità. Si direbbe per l’ironia insopprimibile.
Walter dice per il senso del comico. Ma è l’ironia, tutt’altra cosa: un occhio
non comico sul comico. Da maneggiare con attenzione: l’ironia è creativa ma
anche velenosa, dissecca. Un’anatomia, sotto la lama insopprimibile di se
stessi. Un match di scherma, con lama sottile, un fioretto,
che incide senza sopprimere, ma isolante più che protettivo – la critica è una
scherma, con l’opera e con l’autore, una scherma protetta, con maschera e
visiera.
Questo è comunque Pedullà, un duellante. L’ultimo lettore probabilmente –
tra i recensori specie rara: il recensore sembra anzi che odii i libri, Walter
li legge. Che all’incontro con l’autore ne studia, carpisce, somatizza ogni
tecnica e ogni abilità, più spesso mimandolo. In un corpo a corpo da scrittore
a scrittore, più che da sarto a cliente, da professore a materiale, da
presentatore a gentile pubblico. Sia da professore, è da credere dalle
monografie, che da critico militante. Con un distinto penchant per
la scrittura. Il progetto e l’innovazione, o la scrittura che pensa alla
scrittura – si polemizza spesso contro la “scrittura”, ma da parte di “scrittori
della non-scrittura” (Montale, Pasolini), altrimenti è sciatteria.
Le pagine settimanali sull’“Avanti!”, e poi, diradate, sugli altri giornali,
sono ri-creazioni. Dissimulate ma immedesimate. Anche se, nelle amate
avanguardie, il progetto tende a prevalere - anche nel caso di
Umberto Eco romanziere, per esempio, che la letteratura vuole e fa di massa,
d’appendice, maestro Dumas. Lettore unico specialmente della vena comica e
surreale, che è tanta parte della poesia e prosa italiane ma orfana di critica.
Non piace al critico essere sfidato con le proprie armi: se la letteratura è
faceta, tanto più la critica si vuole arcigna. Magistrale e quindi arcigna,
severa.
E questo forse – è una vena che Pedullà
intuisce ma non elabora - per quel tanto di calabrese (bizantino, sarmatico,
sardonico) che è la cifra del calabrese integrale, lo stigma del dialetto, il
“linguaggio naturale”. Fisico e spirituale, dialettico – dialettale dialettico?
la commistione gli piacerebbe. Paziente e irritato. Vicino e lontano. Col tarlo
del Witz, che è sempre aggressivo. Ma Pedullà addolcisce, generoso,
altra virtù terranea. Gran signore. Prodigale perfino: i giudizi che qui ripete
(un primo consuntivo aveva abbozzato dieci anni fa, sotto il titolo
sartoriale “Il giro di vita”) sono sempre da pescatore di perle.
Diversamente da Debenedetti, maestro e insieme apostolo, dalla sua
“irrimediabile estraneità al comico”, Walter lo privilegia - come Debenedetti
suo malgrado, anche “il saggista deve fare i conti con l’invisibile, trovandogli
le figure che suggeriscono verità collettiva”, dice in altra occasione
(“Debenedetti e Savinio”, in “Alberto Savinio. Scrittore ipocrita e privo di
scopo”).
L’ultimo dei saggisti-moralisti, ricchi di letture, di curiosità umana e
estetica, di lingua e di umori che hanno infiorettato le lettere italiane del
secondo Novecento, nella tradizione di Croce e De Sanctis: Praz, Macchia,
Ripellino, lo stesso Debenedetti - ma senza le sue idiosincrasie (Svevo su
tutti), o le sue fisse (Tozzi). Aperto, curioso, lettore di servizio più che
professore e giudice. Comparatista, un poco. Interdisciplinare. Critico
militante più che accademico, ma di letture approfondite, che lasciano il
segno.
Nell’insieme, i “ricordi involontari” si
conformano in una sorta di vindicatio. Di un “destino” costruito
con costanza e grande profusione di energia - “Impiegavo trenta ore a scrivere
un articolo”, per la sua pagina sull’“Avanti!”. Con qualche regolamento di
conti, con parsimonia. Con Angelo Guglielmi alla Rai. Con “Cesarino”, Cesare
Garboli, “il facoltoso figlio di un grande costruttore” fascista, per questo
animoso antisocialista, recensore “di scrittori spesso scelti tra i minimi
affinché risultasse meglio la statura del critico”. Ma la letteratura è
soprattutto il campo privilegiato, e quasi della felicità. Anche l’aneddotica,
per quanto curiosa, è gentile. Fenoglio all’indice per molto tempo perché aveva
fatto la Resistenza nelle “brigate partigiane monarchiche”. Stefano D’Arrigo,
l’autore di “Horcynus Orca” - che Pedullà racconta in varie circostanze di
avere praticamente tenuto a battesimo, dal primo vagito e poi per una
quindicina d’anni (ma era stato Debenedetti, spiega, a “scoprire” D’Arrigo, “un
critico d’arte siciliano”), la saga linguistica e mitica marina di cui diverrà
il paladino critico - i miti se li creava dapprima per se stesso, discendenze
illustri, gesta grandiose, essendo figlio di una prostituta (1). La stagione aurea
da “Cesaretto” in via della Croce, già allora gestito da Crocetta col provvido
Luciano, a tavola indifferentemente con Pagliarani, Arbasino, Maccari, Flaiano,
Frassineti, Manganelli, i “milanesi” Eco, Balestrini, Porta. La pensione a via
Castelfidardo, da giovane assistente straordinario di Debenedetti a Roma, in
compagnia di Sciascia, Strati, Bonaviri e La Cava, due mutangoli e due
chiacchieroni. O il ri-racconto, sfidato da uno studente all’esame, della mezza
pagina di Pizzuto intitolata “Canadese”, che prende due pagine. Gli amici
stimati Volponi, Pagliarani, Malerba, Zavattini. E istantanee numerose , di
Ungaretti, Sibilla Aleramo, Tobino, Albino Pierri, Silone, Manganelli, Massimo
Ferretti, l’inventore degli “indiani metropolitani”, il conversatore Arbasino,
“il grande prosatore che avrebbe voluto essere narratore”, Bonaviri, i
dimenticati Burdin, Renzo Rosso, Di Ruscio, la rivalutazione di Piero Jahier.
Curiosamente assente dalla pur dettagliata memoria il Millennio, compresa
la coda del Novecento. Curiosamente per un contemporaneista, l’assenza dei
contemporanei. Da ultimo, per dire, di Baricco, De Luca, o chi sono gli
scrittori che il Millennio privilegia. In precedenza di Tabucchi, Magris,
Calasso, e perché no di Umberto Eco, con cui pure Pedullà ha condiviso
esperienze importanti. Insofferenza comune a molti contemporaneisti, Citati, lo
stesso Magris, ma che in Pedullà cozza con l’attenzione, che è la sua cifra,
con la curiosità inesausta. Un ricasco probabilmente del senso della vita che
questo “Pallone di stoffa” agita in continuo con forza - l’approccio che
s’indovina più prepotente, il motore sincrono della ricerca applicata alla
parola e del cachinno - e non trova nel prodotto editoriale.
La fede nel futuro
Molte, qua e là, le tracce aperte alla storia recente del partito
Socialista – la storia che non si fa. Un partito che ha sempre governato
come ruota di scorta, eppure è riuscito a fare cose grandiose, col metro di
oggi - una rivendicazione di appartenenza coraggiosa nel 2020, quasi solitaria. Con
la riesumazione del primo centro-sinistra, la sola stagione delle riforme in
Italia: i parchi protetti, archeologici e naturali, lo statuto dei lavoratori,
il sistema sanitario nazionale, il nuovo diritto di famiglia (il divorzio,
l’aborto, la parità dei coniugi - c’era il “delitto d’onore” fino a tutti gli
anni 1970, la non punibilità del femminicidio…), la riforma della Rai, etc., il
catalogo è lungo.
Con qualche singolare risvolto politico, sempre sul filo della memoria. Il
quadro del partito Socialista che costrinse De Martino alle dimissioni “quando
annunciò che il Psi non sarebbe mai più andato al governo senza i comunisti”:
“Fu costretto a dimettersi da un’alleanza fra gli ex demartiniani passati con
Enrico Manca, la sinistra di Riccardo Lombardi e Claudio Signorile, il forte
gruppo degli «autonomisti unitari» guidato da Giacomo Mancini, e gli
autonomisti «integralisti» di Bettino Craxi”. Craxi, “già manciniano”, emerge
su Manca e Signorile perché è il giovane più debole, quindi non avrebbe
impensierito il Pci: “Aveva un punto di forza che era la sua debolezza nel
partito: la sua posizione nettamente minoritaria nel Psi non avrebbe impaurito
il Pci”. E anche perché “l’anticomunismo, che in Craxi non era meno forte
dell’antisocialismo di Berlinguer, sarebbe parso paradossale in un partito che
proponeva l’alternativa socialista in funzione antidemocristiana”. L’analisi
storica sarà più sfumata, ma è su questa antitesi, caratteriale, che s’innesta
il tramonto della sinistra in Italia, caso unico in Europa.
Il Pedullà politico è poco afflitto dalla realtà presente. Troppo “comica”
forse per essere combattuta. Ma ben conscio dei limiti del paese, del sistema
istituzionale che a questo punto è sociale e nazionale: “Dalla Rai”, di cui è
stato a lungo consigliere d’amministrazione e poi presidente, “si vedeva un
Paese dove il reato non è punibile, mentre lo è non averlo denunciato”. La Rai
non poteva licenziare “nemmeno coloro che erano stati colti in flagrante mentre
rubavano televisori, videoregistratori, e attrezzature tecniche di alto valore
che rivendevano alle tv private”. Doveva fare causa, e inevitabilmente
perderla. Contro tutti gli handicap, il Psi riuscì a portare in
porto anche la riforma della Rai, almeno nella programmazione aperta, plurale,
se non nella “linea” – che resta quella del vincitore. Col paradosso di Angelo
Guglielmi, “il dirigente comunista più antisocialista della Rai”, promosso e
difeso contro il suo partito dai socialisti Paolicchi e Pedullà, in omaggio al
pluralismo….
L’orgoglio socialista è pervicace. L’elenco può essere lungo, all’“Avanti!”
e poi alla Rai, di intellettuali socialisti, per le idee e non per il posto:
“C’è stata una grande cultura socialista. Io l’ho vista, è stata
quotidianamente in azione dagli anni Quaranta alla fine del Novecento”. Oggi
sembra strano, ma “c’era un fitto dialogo fra cultura della politica e politica
della cultura” – e politica. Malinconico naturalmente, ma convinto: “Era
impagabile la fede nel futuro che il socialismo mi ispirava: ne avanzava tanta
che la usavo per vivere, leggere e scrivere. Se ci credo, mi viene bene tutto”.
Una professione politica semplice, ed esemplare. Onesta, produttiva. La
storia come avrebbe potuto essere e non è stata, in questa prolungata apnea di
Repubbliche che si succedono a nessun fine, alla deriva.
Aristotelico un po’ platonico
Un memoriale con lo spessore di un documento, di un monumento – un po’ di
cura editoriale ne avrebbe ricavato tre-quattro memoir di
successo come ora usa, del filone zavattiniano “parliamo tanto di me”,
denudandosi per farsi leggere: il com’eravamo, la navigazione critica,
l’università, la piccola-grande politica (soprattutto avrebbe evitato i
fastidiosi svarioni, un “istriano” per friulano nel caso di Pasolini, p.204, il
mare a “ovest” di Siderno, 152, allievo di Debenedetti per “sette” anni, 148,
D’Arrigo in due pagine successive, 183-184, figlio secondogenito e
primogenito). E avrebbe incluso il necessario indice dei nomi. Ma anche così
“di fretta” il racconto è stringato, se ne sarebbe voluto sapere di più.
Pedullà di suo non è un narratore. Non racconta, rimemora. Come viene, non
organizza, probabilmente non riscrive, anche se ha la scrittura lenta,
sofferta. Perché non può? Perché non vuole, se ne vergogna, è un critico. E in
un senso ha ragione: non convincono, danno fastidio, i tanti giornalisti
autori, manager autori, funzionari editoriali romanzieri, filosofi romanzieri,
e a volte poeti. Ma i brani narrativi sono la cosa migliore. Insieme col piglio
politico – socialista, lombardiano: sa di antan ma è
fresco, è vivo, “dice”.
Parlando della sua attività di “critico militante”, punto a lungo di
riferimento della scena letteraria, nella profusione di elogi della sapienza di
lettura di Giacomo Debenedetti, trova a un certo punto l’occasione di situare
se stesso. Nella formazione, a Messina, tra Galvano Della Volpe e Giacomo
Debenedetti, “un aristotelico e un platonico”, con “tre quarti di
debenedettismo e un quarto di neoaristotelismo dellavolpiano”. Il suo “metodo”
sintetizza così all’ombra dei due Dioscuri: “Metto così parecchia storia nella
psicanalisi e nello strutturalismo, miscelo marxismo e formalismo, cerco
significati nell’astrattismo, trovo la figura umana nell’informale, inseguo la
vita nella retorica più sofisticata, trattengo per la coda chi spinge lo
sperimentalismo verso l’autoreferenzialità, riconduco all’espressione la
comunicazione cui ho dato briglia sciolta illimitata, acchiappo sempre il
soggetto che si è immerso nella realtà oggettiva che lo renderà diverso”. Sotto
la pervasiva curiosità, è da aggiungere, e il filo insopprimibile dell’ironia.
Da lettore coscienzioso, va ripetuto. Forte anche di una memoria fotografica,
come ricorda già da bambino (al fratello-padre Gesumino che gli fa leggere una
pagina per poi riassumerla, risponde ripetendola parola per parola). Non amando
la stroncatura, rispettoso sempre del lavoro altrui – “Walter è un nome che si
rovescia da viva in abbasso”, nota, ma lui usa frequentare “la W normale”.
La
critica “militante” non è – non era - mestiere da poco. Vuole fondamentali
solidi del giudizio critico, e antenne sensibili: vigili ma anche intuitive,
esercitate e coraggiose (libere).
Sainte-Beuve, il Critico Militante per eccellenza, prima di Debenedetti, con i
suoi implacabili “Lunedì”, e uno che si pretendeva chiaroveggente, più di ogni
altro, non salva – non ha saputo leggere – nessuno dei contemporanei, a partire
da Stendhal. Il mestiere a Sainte-Beuve era chiaro – “Chateaubriand e il suo
gruppo letterario”: “Tutti sono buon a discettare su Racine e Bossuet… La
sagacia del giudice, la perspicacia del critico, si trova soprattutto sugli
scritti nuovi, non ancora provati dal pubblico. Giudicare a prima vista,
indovinare, anticipare, ecco il fondo critico. Quanto pochi lo posseggono”. Il
fiuto gli mancava – ma è gusto, esercitazione al piacere della lettura. Pedullà
mostra anche qui di averlo avuto, a beneficio degli autori che ha censito – la
critica militante è uno dei pochi benefici dell’autore, che niente altro
compensa dell’applicazione, e della fatica, scrivere può essere un esercizio di
masochismo.
Walter si direbbe fisicamente platonico. In tutt’e due le accezioni, la
larghezza delle spalle o la larghezza della fronte, che si riconoscono al
soprannome del grande filosofo greco – che di suo si chiamava Aristocle, com’è
noto, come il nonno. Ma solo fisicamente, il cervello implacabile muove
aristotelico. Se c’è un effetto c’è una causa. Se uno è o dice una cosa, non
può essere o dire il contrario. Se vogliamo il progresso non possiamo stare fermi.
Eccetera: la mannaia del riformista. Anche nel senso dialettale calabrese, la
radice che in età scopre incancellabile, dove per “mannaia” s’intende
mannaggia – uno a volte vorrebbe accontentarsi, non stare sempre lì a
indirizzare il mondo. È una fatica, insomma, ma ai novant’anni è probabilmente
una benedizione: essere svegli, avere voglia. Un racconto, anche, di
consolazione. Se ne dilettava Cassiodoro, pure lui novantenne, nel buen
retiro calabrese, poco sopra Siderno.
A novant’anni, sopravvissuto da dieci a una crisi quasi fatale, il critico
decide infine di lasciarsi andare, di parlare di sé. Il “pallone di stoffa” è
quello della rivalsa dei ragazzi poveri contro il compagno ricco che,
insuperbito, s’è preso e portato via il “suo” pallone di cuoio: non rimbalza,
ma serve ugualmente a fare gol (non male: Maradona, dice Maradona, cominciò con una palla di stracci). È il primo socialismo: le differenze sociali si
superano. Il memoir di Walter non è rancoroso, al
contrario, è tutto andante con brio, nemici o antipatici inclusi, singolarmente
corroborante in questa età di mestizie, di crisi a ripetizione. Con la
soddisfazione del lavoro ben fatto, anche se spesso improbo, e almeno una
certezza, di non avere sbagliato politica, schieramento, partito – una
trasgressione a novant’anni, e quasi una sfida, il partito essendo il
Psi.
Walter Pedullà, Il pallone di stoffa, Rizzoli, pp.543 € 22
(1) A questo proposito Andrea Camilleri (“I detti di
Nené”) ha un ricordo di D’Arrigo che “si appropria” di sua madre, della madre
di Camilleri, in una cerimonia a Messina.
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