astolfo
America tedesca – Ci fu a fine Settecento la
possibilità, non remota, che gli Stati Uniti indipendenti nascessero tedeschi:
la comunità tedesca era la più numerosa dopo quella inglese, ma era più attiva
e organizzata, e più urbanizzata. Ovunque s’incontrano tuttora –man, –burg e -ich, e le case
col tetto spiovente che fanno Germania attorno a Filadelfia, cuore della nazione,
tra Harrisburg e Gettysburg. È tedesca pure Yorkville a New York. Dietrich è il
cognome più diffuso, con Hoffman, con una e due -n. Eisenhower si scriveva Eisenhauer, Smith spesso Schmidt. È tedesco,
postnomadico, l’uso americano di cambiare i mobili ogni tre anni, magari per ricomprarli
uguali. E il coniuge, seppure non con la stessa frequenza. Quentin Tarantino ha
avviato il riconoscimento col dottor Schultz, il virtuoso cacciatore di taglie
di “Django unchained”, e l’eroina
Brunhilde che parla tedesco.
Furono i soldati
tedeschi di re Giorgio, i reggimenti dell’Assia, a propiziare a Trenton nel New
Jersey la prima vittoria e il carisma di Washington. E fu per una decisione a suo tempo minoritaria, com’è noto, che
l’America parlò inglese e non tedesco. I tedeschi si distinguevano anche per
qualità degli insediamenti, oltre che per essere numerosi. In America più che
in ogni altro posto, dice Kant nell’“Antropologia”, i tedeschi emigrati si sono
distinti per formare comunità nazionali “che l’unità della lingua e in parte
anche della religione trasforma in una specie di società civile che, sotto una
superiore autorità, si distingue nettamente dagli insediamenti di ogni altro
popolo per la sua costituzione pacifica e morale, l’attività, il rigore e
l’economia”. Un commento che si penserebbe indirizzato ai tedeschi di Russia
(del Volga), di Romania (del Banato, capitale Timisoara), di Praga e la repubblica
Ceca (Sudeti). Ma “questi sono gli elogi”, concludeva Kant, “che gli stessi Inglesi
fanno dei Tedeschi dell’America del Nord”.
Disoccupati organizzati – Sono una parte
di Roma a Napoli. Si dice che Roma è sempre sul filo di diventare Napoli, caotica
e ingovernabile, in questo caso avviene l’inverso: anche i disoccupati organizzati vengono
dall’antica Roma. Le folle di nullafacenti, mantenute dallo Stato e dalle
famiglie abbienti, che ritenevano loro diritto lamentarsi, protestare, e rubare,
da soli o in bande.
Egidio da Viterbo – In una delle lezioni
tenute a Milano nella primavera del 1985, raccolte in “Dietro l’immagine”, Federico
Zeri si dice sicuro che i soggetti della Camera della Segnatura e della
Cappella Sistina non sono di Raffaello né di Michelangelo, che, benché persone
di cultura, non possedevano le chiavi, storiche, mitologiche, filosofiche,
teologiche, oltre che bibliche, di tutti i soggetti che hanno rappresentato. Le
chiavi non erano neppure del committente, papa Giulio II, affaccendatissimo,
oltre che nelle committenze, architettoniche, urbanistiche, pittoriche, anche
in guerre e complicate diplomazie. Zeri opina che fossero invece di Egidio da Viterbo,
un agostiniano di cui s’è perduta la memoria – eccetto che nella chiesa di S. Agostino
a Roma dove è sepolto – ma personaggio ai suoi anni di grande rilievo (l’ipotesi
di Zeri peraltro era stata avanzata già dal gesuita Heinrich Pfeiffer nel 1972
- altri avevano ipotizzato un ruolo di Tommaso “Fedra” Inghirami).
A
Viterbo, sede allora mezzo papale, aveva potuto fare nel convento agostiniano
della Santissima Trinità, nel quale era entrato nel 1488, studi di filosofia,
teologia e lingue antiche, come allora usava, in chiave umanistica, per poter
accedere alle culture classiche – gli si attribuiscono studi di greco, ebraico,
aramaico, persiano, arabo. Peregrinò e insegnò poi in vari conventi dell’ordine,
ad Amelia, Padova, Firenze, Roma, Napoli, di nuovo Viterbo, e in Istria. Filosofo,
appassionato di lettere antiche, frequentò a Padova Pico della Mirandola a
Firenze Marsilio Ficino, a Napoli Giovanni Pontano, e fu in frequente corrispondenza
con loro. Fu anche oratore efficace, incaricato da Alessandro VI, Giulio II e i
due papi medicei, Leone X e Clemente VII, delle prolusioni in occasioni speciali.
Tra esse l’inaugurazione del Quinto Concilio Lateranense nel 1512, e nel 1530,
nel concistoro di novembre, sulla necessità di una riforma della chiesa – il concilio
di Trento sarà convocato quindici anni più tardi, da Paolo III, sui principi da
lui espressi in concistoro.
Fu
soprattutto famoso al suo tempo, e resta negli annali, quale rigido critico
dell’averroismo e di Aristotele. Fin dagli anni di Padova, la sua prima destinazione
fuori Viterbo, nel quadriennio 1490-1493. Fu in con confidenza con Pico della
Mirandola, dilettandosi anche lui di astrologia e cabbala. E vi curò una riedizione
dei commenti aristotelici di un altro Egidio agostiniano, Egidio Romano, o Egidio
Colonna – discepolo di san Tommaso d’Aquino a Parigi, dove anche lui poi insegnò,
generale degli agostiniani, precettore di Filippo il Bello e arcivescovo di
Bourges (cioèBruges). Egidio da Viterbo usò il commento per un attacco frontale al
razionalismo aristotelico. A Firenze,
subito dopo, frequentando Marsilio Ficinio, approfondì il neoplatonismo, che
trovava consono più consono alla tradizione cristiana, e alla lettura di sant’Agostino.
Il suo opus magnum, rimasto incompiuto,
intitolava “Commentaria sententiarum ad mentem et animam Platonis”.
Fu
anche diplomatico papale in varie occasioni, e cardinale dal 31 ottobre 1517.
Era anche all’epoca superiore generale degli agostiniani, e in questa veste quattro
mesi dopo, il 31 ottobre, Martin Lutero rese pubblica la protesta, con l’affissione
delle 95 tesi sulle porte della chiesa di Wittemberg – ma il gesto fu molto meno
drammatico dei suoi sviluppi. Fu noto, oltre che come oratore, per essere un
gran lettore. Uno che voleva approfondire le sue letture, e per questo
intensificava lo studio delle lingue. Gli si ascrive la lettura in aramaico di
molte parti della Bibbia e del “Talmud”, in arabo del “Corano” e di Averroé, di
Avicenna in persiano, della “Torah” in ebraico. Nel tentativo di collegare le
altre culture al filone cristiano.
Hitler-Vaticano – Non si risolve
la questione se Pio XII, papa Pacelli, benché sulla via della santità, non
abbia favorito Hitler, col concordato del 20 luglio 1933 – sottoscritto col cattolico
centrista von Papen, che lo aveva negoziato e firmava su incarico del presidente
tedesco Hindenburg, ma cancelliere era già Hitler – e col silenzio in guerra.
Ma Hitler disprezzava i preti e le gerarchie cattoliche, da cui era disprezzato,
ed era solo temuto in Vaticano, e da Pacelli papa più che da ogni altro, avendo
egli conosciuto la Germania di Hitler di prima mano come nunzio. Mentre Hitler,
soprattutto mentre varava la “Soluzione Finale”, diffidava del Vaticano.
Quando
il fascismo mediterraneo aprì in Germania, anzi proprio a Berlino, a fine 1942 –
il mondop era allora del Reich - l’istituto Studia Humanitatis, con un’orazione
del professor Riccobono in latino, Goebbels minacciò di togliere la luce: “È evidente
che gli italiani stanno tentando di accampare diritti al predominio spirituale
in Europa”. E Rosenberg scrisse l’epitaffio: “È passato il nemico. L’Istituto
Studia Humanitatis è una longa manus del Vaticano”.
Leonardo – È ultimamene
“materia” dei Modestini, restauratori. Esperti evidentemente attribuzionisti, ma di professione
restauratori. Dianne Dwyer Modestini, la restauratrice che ha scoperto e
riportato alla luce, con un’opera paziente, il “Salvator Mundi” di Leonardo, è
la vedova di Mario Modestini, romano, il principe dei restauratori del
Novecento, morto nel 2006 a 99 anni.
Il
“Salvator Mundi” ha registrato nel 20017, venduto da Christie’s, il record di
valutazioni di un bene artistico, 450 milioni di dollari. Pagati da un principe
saudita, Badr ben Abdullah, figlio dell’ex re. Probabilmente per conto del cugino
e principe ereditario Mohammed ben Salman. Da allora non è stato più visibile –
si dice adorni lo yacht del principe ereditario. Ma l’attribuzione è sempre più
contestata da molti studiosi di Leonardo.
Mario
Modestini si era reso celebre per l’autentica di un altro Leonardo, l’ultimo
accettato universalmente come opera di mano di Leonardo, la “Ginevra dei
Benci”. Un ritratto, messo in vendita dai principi del Liechtenstein fra i
tanti del loro magazzino. Da lui esaminata e autenticata, e anche personalmente
comprata, per conto dei banchieri Mellon, per cinque milioni di dollari, e trasportata
a Washingotn, alla National Gallery – la “America’s Mona Lisa”.
Era
un predestinato, essendo nato a Roma, nel 1907, a via Margutta, la strada
allora degli studi d’arte. Lavorò molto in Brasile e in Toscana, stabilendosi
poi a Rignano sull’Arno. Nel secondo dopoguerra lavorò soprattutto negli Stati
Unit, restauratore in residence della
Kress Foundation, che gestiva una collezione ricca di duemila opere, anche di
Tiziano, Bellini, Van Dyck, Tintoretto, Canaletto, Tiepolo, Rubens, El Greco, e
di van Gogh, Manet, Monet, Cézanne. Richiesto per expertise e restauri da vari
musei e collezionisti americani. Per Kress Foundation ha individuato un Greco
che l’esperta del pittore spagnolo, Eleanor Sayre, non riconosceva. La
collezione Kress era opera di Samuel Henry Kress, magnate del minuto commercio –
un ex minatore che s’inventò una catena di negozi five and ten, dove cioè si vendevano solo oggetti da 5 e 10
centesimi di dollaro.
Zeri lo ricorda,
in “Dietro l’immagine”, le sue lezioni milanesi sull’“arte di leggere l’arte”, nella
lezione sui falsi, come quello che gli consentì di smascherare falsi complicati,
difficili da individuare.
Provvide personalmente anche al trasporto del ritratto di
Leonardo da Zurigo a Washington. Su un aereo Swissair, prenotato in prima
classe per “Sig. e Sig.ra Modestini”. La “signora” era il ritratto, rinchiuso
in una valigia che lo stesso Modestini aveva progettato, che simulava la
temperatura e l’umidità della can ina dei duchi, dove il quadro era immagazzinato,
per il tempo di dodici ore, la lunghezza del viaggio, dopodiché approdava in
una ambiente della National Gallery con la stessa temperatura e umidità. La “signora
Modestini” viaggiò non solo rinchiusa ma anche ammanettata al restauratore.
Nave dei folli –
“Narrenschiff”, la nave in cui Sebastian Brant a fine Quattrocento rinchiuse
nel poema omonimo 111 folli in viaggio verso il paese di Cuccagna, era il
Parlamento nel linguaggio corrente dell’esercito austro-ungarico fino alla
Grande Guerra.
astolfo@antiit.eu
Il Lazio in particolare sta
peggio, molto peggio, per il coronavirus oggi della primavera. Ma nel silenzio
più assoluto. E nella vita in comune più tranquilla, come se niente fosse. Non
lo dice la sindaca, non lo dice la regione, che controlla la sanità, e sa bene
del disastro, non lo dicono le cronache. Si esce tranquillamente, si conversa, si urla anche, si mangia, si beve, si compra, come in un qualsiasi
autunno, fino a ieri pure mite. La rubrica “Destra sinistra – sinistra destra”
di questo sito mercoledì dice quello che a Roma colpisce come un pugno in un
occhio.
L’epidemia nel Lazio, come in altre
regioni, è molto più vasta e pericolosa che in primavera, quando era pressoché nulla rispetto ai numeri paurosi delle regioni padane, ma si dice e si fa
come se fosse invece per niente o poco pericolosa. Roma ha moltiplicato per venti
i contagi rispetto al picco della pandemia in primavera, e per dieci i decessi.
Ma in primavera a Roma non si poteva uscire di casa, e anche per andare dal
giornalaio bisognava giustificarsi. Ora invece è come se il virus non ci fosse.
Perché? Ci sono due ragioni per tanta
superficialità, una “politica” evidentemente, anche se politicamente assurda.
La seconda è il fatto economico: la chiusura rigida significa per molte
attività, commerciali, artigianali, e anche di piccola industria, la fine. La
ragione politica getta una luce sinistra sulla sinistra, sul ministro Speranza
e sul Pd romano. Si sottovaluta la situazione a Roma, ospedali pieni, un indice
elevato di contagiosità, e un numero elevato di decessi, perché la sanità è amministrata
dalla Regione, e la Regione è amministrata dal segretario del Pd. Una Regione che niente ha apprestato contro la prevista recrudescenza del virus, e avrebbe avuto tutto il tempo
per farlo. E ora manca, per la prima volta dacché è venuto in uso venti anni fa,
perfino il vaccino anti-raffreddore. Niente reparti covid, niente posti letto
nuovi, nessuna assistenza da parte delle Asl, nei tamponi e
nel tracciamento – le Asl semplicemente non rispondono.
Un poker pesante. Niente “Teresine”
o “Texas Old’em”, un poker e basta. Ma per giocarsi mezzo milione, l’uno. È l’idea
del promotore finanziario che è scappato coi risparmi, degli altri – una delle
tante buche del Grande Mercato del Millennio, che finirà per distruggere la ricchezza.
Un’idea per rifarsi – e restituire il malloppo? Chi lo sa, meglio non fidarsi.
Senza sorprese, tutto è piatto
nella Milano afosa, di singoli con biglietto e voucher in tasca per il refrigerio. Tutto veloce, come Robecchi usa
alla radio, in tv e negli sceneggiati, senza pensarci su.
Dalla raccolta estiva Sellerio 2014,
“Vacanze in giallo”. C’era Camilleri, con lo stesso editore, e ci sono gli
altri: una serie impietosa, questa di “la Repubblica”, per il raffronto inevitabile.
Alessandro Robecchi, Il tavolo, la Repubblica-LA STAMPA, pp.
47, gratuito col quotidiano
Nel
Lazio i casi nuovi di contagio erano ieri 2.686, i decessi 49. Il 12 aprile, al
culmine del contagio, erano 122, con 5 decessi. Non c’è paragone tra quell’ondata
e questa, molto più preoccupante – sono pieni anche gli ospedali. Ma non si può
dire, non si dice: le cronache romane dicono che, insomma, la situazione è
sotto controllo.
Il
concetto di palude è sempre stato associato a una certa Roma, ma questa
(non)informazione si supera, si direbbe impensabile.
Le
Borse navigavano già forte malgrado la virulenta seconda ondata, di contagi e
morti. È bastato l’annuncio Pfizer di un possibile vaccino contro l’epidemia
per portarle a nuovi record, sia a Wall Street che in Europa e a Shangai. Non è
una cosa seria – la Borsa o il contagio?
La
Lombardia muore, tremila contagi solo a Varese martedì, il doppio di tutta la
Calabria insolentita, gli ospedali di Como al collasso, e mercoledì il
“Corriere della sera”, p. 2, non trova di meglio che incolpare De Luca, il
presidente della regione Campania. Killer Roncone. Vero:
https://www.corriere.it/politica/20_novembre_10/campania-giallama-pure-rossa-adesso-de-luca-attacca-de-luca-92a9347a-23a0-11eb-852a-fddf3d627dac.shtml
A p. 7, invece, il colpevole è, a tutta pagina,
Solinas, presidente della Sardegna. Qui si capisce di più: Solinas è un
berlusconiano. La colpa non dev’essere
del governo, imprevidente e incapace - quello
della Roma magari no ma il giallorosso governativo va protetto e benedetto.
Informazione?
Il
governo è indietro su tutti i fronti nella pandemia di autunno. Non per
insipienza, poiché tutti sappiamo tutto - che la seconda ondata è più diffusa,
e più grave, della prima. Forse nemmeno per incapacità. Per un orrido equilibrismo
politico, che la figura virginale del ministro Speranza copre mentre proprio a
lui è da ricondurre: si dispongono chiusure e limiti non in base alla
virulenza del virus ma alle convenienze politiche. L’unico filo del ministro
della Salute è “salvare” le regione amiche – un tempo si sarebbe detto compagne - dove
il suo partito è al governo.
“Il grande sogno franco-tedesco è mettere le mani sul risparmio privato degli italiani”,
dice Giulio Sapelli. Che non sembra possibile e invece è quello che è avvenuto
e sta avvenendo. Da parte tedesca con qualche problema - i problemi di Deutsche
Bank, che per prima aveva tentato l’affondo (e affondò il debito aprendo la speculazione
del 2011). La Francia ci prova da tempo, con Bnl e Agricole – in un primo tempo
promossa dall’avvocato Bazoli.
Trump
certo non è Hitler. Ma fa senso ricordare che Freud scrisse “Psicologia delle
masse e analisi dell’Io” un secolo fa, quando un Hitler sconosciuto stava per
finire in galera per aver tentato un colpo di Stato in birreria, mentre gli psichiatri
americani si affannano, in libri e film a dire Trump pazzo. C’è da dubitare della
psichiatria se on sia follia, sia pure al coperto del politicamente corretto, e
anzi dell’“impegno” politico – ma l’impegno, in America, è parola vuota, se non
è business.
Nel
guazzabuglio di pareri “scientifici” sul coronavirus un fatto sembrava certo:
che chi l’aveva preso non l’avrebbe ripreso. Ma neanche questo è vero: un
quindici per cento dei guariti è ritornato positivo. La teoria degli anticorpi
sembra non reggere. Questo coronavirus è la Waterloo della scienza trionfante,
della medicina.
Macron
“è pazzo”. I mussulmani in Europa “sono perseguitati come gli ebrei sotto il nazismo”.
I capi politici in Europa sono “fascisti nel vero senso della parola”.
Copyright Erdogan, capo di Stato della Turchia, alleato dell’Italia, di Macron
e degli altri europei, nella Nato e con i sussidi di Bruxelles.
Dice:
altrimenti ci manda tutti i siriani. Cioè, ha ragione Erdogan?
“Nel buio c’è la paura”. Una
riflessione sulla paura nel 2020 che parte da qui è come dire che il progresso,
il digitale, l’intelligenza artificiale, il millennio del grande salto
tecnologico, tutto quello di cui ci siamo inorgogliti, e ancora oggi non
critichiamo, ha qualcosa di barbarico. Che non è tutto oro quel che riluce,
eccetera. E certamente due crisi in vent’anni, anche gravi, danno da pensare.
Ma poi è anche vero che si affronta
il virus letale con sufficienza. Senza paura. E questo è un limite: bisogna
avere paura. Tenere il male, riconoscere il male. Cioè ammetterlo, non siamo al
di fuori del bene e del male, per quanto ipnotico si prospetti il millennio. È
bene in somma aver paura, spiega consolante lo psicologo, guardare in faccia la
realtà: senza la paura non esisterebbe il coraggio, l’eroe è uno che ha avuto
paura, e per questo fa le gesta eroiche, per il bene di tutti.
Niente soluzioni, ma a volte
pensarsi è bene, su un livello anche solo poco più su dell’ananke quotidiana.
Scoperto resta, meritevole di
una riflessione, il punto forse più importante che Andreoli solleva di passata:
la politica che vive sulla paura. Oggi del virus come ieri della bomba, ma una
politica di rimessa, saprofita, senza progetto, senza identità. Che è forse la
caratteristica del millennio: si dice la crisi delle ideologie, ma è un grande buco
nero – se non è una cloaca.
Vittorino Andreoli, Paura, Corriere della sera, pp. € 6,90
Si sta peggio della primavera, molto peggio, ma non lo sappiamo. Non c’è confronto fra i numeri
della pandemia oggi e quelli della primavera, quado la paura fu tanta e il lockdown
severo, non si poteva nemmeno uscire di casa. I nuovi contagi sono ogni giorno dieci
volte quelli di allora. E anche i decessi sono superiori a quelli che allora
tanto impressionavano. Gli ospedali sono pieni come allora, di ricoverati con
sintomi da coronavirus. Le terapie intensive non sono sature come allora, ma si
accrescono da qualche giorno più rapidamente di allora.
Il 12 aprile i nuovi contagi
erano 4.092. Oggi sono 34 mila. I deceduti erano 569, oggi sono 636 – ieri 623.
I soggetti positivi erano allora 152.271, oggi 635 mila. I pazienti ricoverati
con sintomi erano 28.184, oggi sono 29.873 – record assoluto di tutto l’anno.
Le terapie intensive occupate erano 3.811, oggi poco meno, 3.170.
Ciononostante si può girare, frequentare
i luoghi pubblici, incontrare chi si vuole. I controlli non ci sono, e comunque
i divieti sono pochi e insuperabili, la chiusura di cinema, teatri, concerti, e
centri commerciali sabato e domenica.
A giustificazione del lassismo c’è
il bisogno di non azzerare l’attività economica. Ma questo non implica il
mancato allarme. Che invece è politico: il governo non lo dà, non impone
divieti e controlli, perché non vuole farsi legare al coronavirus – fa lo struzzo.
E gli specialisti, e i media? Qui non c’è nemmeno un interesse politico: è
collusione o incapacità. Un caso palese di concorso non esterno in epidemia.
“Pound ci stupisce perché sembra
aver pensato prima di noi quel che noi ora pensiamo su Dante”, è la prima
riflessione di Bologna, che con Fabiani si è preso la cura di dare infine alle
stampe il volume delle riflessioni di
Pound su Dante che Vanni Scheiwiller inseguì per poco meno di mezzo secolo,
senza mai poterlo mandare in libreria, per un motivo o per un altro. Ma non
“sembra”, riflette ancora Bologna: “Quel che oggi noi pensiamo”, su Dante,
“nasce spesso dalle sue idee”, di Pound, “e scorre fino a noi lungo rivoli
carsici, in un’attività di scrittura fitta e dispersiva”.
Pound
è stato per prima conosciuto come dantista, e studioso dello stil novo, dei
trovatori e dello stil novo. Apprezzato fuori, bene e male è all’origine del revival dantesco nel Novecento, insieme
con T.S. Eliot, altro americano, peraltro da lui influenzato. E per questo
anche riconosciuto, dopo la guerra, che lo aveva visto militare per l’Italia
fascista. Non in Italia, con rare eccezioni - Massimo Bacigalupo. Anzi, come
filologo rifiutato con disprezzo. Sulle letture poundiane di Dante si espresse
duro Contini nel 1958, per ragioni politiche, in una nota su “Studi danteschi”,
di cui era direttore, a seguire a una recensione del saggio “Inferno”, allora
pubblicato in edizione italiana: “Un presunto principe della cultura”,
“personaggio «d’attualità»”, per il fascismo, “apprenti sorcier analfabeta che presume di poter maneggiare, con effetti
ancor più penosi che grotteschi, gli strumenti della tecnica, inclusi i
manoscritti di Guido”.
Su
Pound e Guido Cavalcanti si era già espresso sarcastico vent’anni prima anche
Praz. Che però successivamente, a una rilettura, si era ricreduto. Ma già, in
parallelo col rifiuto di Contini, la lettura di Pound veniva fatta propria da
Luciano Anceschi, in una con i poeti saggisti, Alfredo Giuliani, Edoardo
Sanguineti. Da quest’ultimo con entusiasmo, celebratore del “disorganicamente
organico poundiano”. E successivamente da Maria Corti. “La funzione Pound nel recupero di un Dante d’avanguardia, maestro
vivo e scandaloso di lingua e di scrittura, non sarà mai abbastanza
sottolineata”, può così concludere Bologna.
Maestro
non solo del Dante d’avangaurdia.
Viene da Pound la rilettura – la messa in luce – del “Paradiso”, dopo la sagra
ottocentesca dell’“Inferno”. Degli studi e le novità di Dante stilista e
linguista. Con una curiosa funzione di maestro d’italiano, lui che l’italiano
lo apprese da subito, ma senza padroneggiarlo – resta incerto anche nelle
lettere. Abbastanza però per saper leggere. Maestro di lingua italiana Maria
Corti lo scoprirà tardi, sorpresa, lavorando al proprio Cavalcanti. Un ottimo
artigiano – Pound si fabbricava i mobili di casa, perdeva ore e giorni nella
grafica, era applicato anche negli studi. Al punto che il giudizio di Contini si
può rovesciare.
Fabiani
ne accerta la preparazione filologica, che dice massima per i suoi tempi, e
l’amplissima frequentazione delle letture allora correnti. Facendone perfino un
anticipatore di metodologie e richiami cui Contini sarebbe arrivato molto più
tardi. E ne porta plurimi esempi. Pound individua e mette in rilievo “la
continuità col pensiero di Riccardo di san Vittore”. Per primo individua “la poetica della luce che attraversa la
cantica paradisiaca”. È il primo, nell’Otto-Novecento, a saper leggere il
“Paradiso”. Eccetera.
Il
critico canadese Hugh Kenner, che introduce la raccolta secondo il vecchio
progetto di Scheiwiller, spiega che Pound si avvicinò a Dante da filologo:
“L’accostamento alla ‘Commedia’, che risale agli anni di università, non avvenne,
come per Eliot, sulla base di una conoscenza superficiale dell’italiano, bensì
dopo un periodo di studio sistematico di tale lingua e sotto la spinta di uno
specifico interesse filologico e linguistico”. Lo stesso che lo porterà, da
Londra dopo Venezia, a rinnovare polemicamente la poesia inglese: c’è Dante anche
in questa battaglia, attraverso le traduzioni, e la metodologia delle
traduzioni, in fatto di metrica, di ritmica, di fluidità – e di uso sapiente della metafora, di cui Dante è per Pound il maestro dei maestri.
La passione per Dante fu precoce
in Pound – per Dante in originale, moltissimi passi nei saggi qui inclusi trova
intraducibili, e riproduce per esteso, anche qualche canto. “A lume spento”, la
prima raccolta di poesie da lui pubblicata, a proprie spese, a Venezia, nel
1908, Bologna può dire “titolo esplicitamente dantesco”.
La lettura è anche agevole, Pound
scrive disteso. Talvolta fulminante, in uno dei tanti scritti su Guido Cavalcanti qui riproposto: “Il culto provenzale era stato culto delle
emozioni. Il culto toscano è culto delle armonie della mente”. Innovativo:
trova e prova “il debito dei poeti elisabettiani verso i toscani” - di fatto fa una lettura appassionante di Dante e Shakespeare in parallelo, oltre a trovare i debiti di Shelley e Yeats, mentre riduce il poema di Milton a un melodramma di maniera. Moderno,
naturalmente: “Non v’è dubbio che Dante concepisse l’Inferno, il Purgatorio e
il Paradiso come stati e non come luoghi”. Gran lettore, angelico, del
“Paradiso”. Trova in Dante, e fa gustare, anche l’umorismo.
Una immedesimazione, si direbbe, i
“Cantos” di Pound” sanno molto di Dante. Ma a distanza, da lettore critico.
Alla p. 61, il riferimento a
Coleridge, alla sua bellzza “καλον quasi καλουν”,
data in nota come “citazione non identificata”, viene dai “Principles of Genial
Criticism”, 1807.
Una storia a parte in coda al
volume, che Bologna e Fabiani raccontano, è quella del libro che Scheiwiller
fortemente voleva, e portò fino alle bozze, comprese le presentazioni
commissionate ad hoc, una a Maria Corti, e all’ultimo ogni volta fermava.
C’è anche un “Dante e Pound”, a
cura di Maria Luisa Ardizzone, 1998: una raccolta di saggi, italiani e
stranieri.
Corrado Bologna-Lorenzo Fabiani
(a cura di), Ezra Pound. Dante,
Marsilio, pp. 205, ril. € 20
Il virus è più della sinistra o della destra, la buona gestione del virus –
delle regioni governate a sinistra, o di quelle governate a destra?
La sanità privata è di sinistra o di destra?
Silicon Valley, Big Pharma, banche e
superricchi hanno votato Biden, i poveri e gli immigrati Trump.
Il governo giallorosso fa la riforma Bonafede,
che moltiplica le carcerazoni e avalla i trojan, lo spionaggio continuo del
nostro privato.
Nella regione Lazio, di sinistra, fare un
tampone quando si sospetta il virus richiede alcuni giorni di telefonate
inutili a un numero verde che non funziona. Il numero verde non funziona da
mesi, non ha mai funzionato.
Si fa per questo la coda ai Pronto Soccorso, e
si moltiplicano i contagi.
Le Asl romane non eseguono il tracciamento –
dei contatti dei contagiati.
Si parte con una saga di Vinland:
Freydig Eriksdóttir, figlia di Erik il Rosso, violenta ma accorta, naviga instancabile
verso Sud, con i suoi recalcitranti, su un modesto knörr lungo la costa americana: gli Stati Uniti (“il paese di Aurora”), Cuba, Chichen Itza (Aztechi), Panama, e
un assaggio di Inca (il Cipango di Colombo, il paese favoloso dell’oro).
Navigano un po’ schiavi un po’ padroni. Con tutto quello che si sa: la scoperta
del cavallo, del bue e della ruota, e quella del mais, del cotone e del cioccolato,
con le epidemie virali che decimano i nativi. Poi un diario di Colombo, fatto morire
per contrappasso, sotto una carica di cavalleria, indigena. Poi Atahualpa,
l’ultimo Inca, dopo una complicata guerra civile, conquista l’Europa - rovesciando l’inca Garcilaso de la Vega citato
in esergo: “Per la confusione nella quale vivevano, senza alcuna intelligenza, la
loro conquista fu facile” (e realizzando probabilmente una intervista impossibile di Calvino, 1975, con Montezuma). Per ultimo le avventure di Cervantes, finché non
cerca fortuna in America.
Il racconto della conquista si
chiude a Firenze, città dei tradimenti, con
Lorenzino-Lorenzaccio che fa fuori il prode Inca invitandolo nel letto della
moglie. Quizquiz - inutile sapere chi è- ne continua la lotta: sottrae Bologna al papa, pacifica bene o
male Firenze, sposa Caterina dei Medici, vedova di Enrico, il figlio di Francesco
I, e prepara l’attacco a Roma. L’imperatore successore di Atahualpa si
chiamerà Carlo Capac, come Carlo Quinto, e come questi farà il sacco del
papa, che sta antipatico a Binet - il papa si rifugia dal sultano Selim II.
Cervantes accoltella un mite
artigiano e se va a spasso per l’Europa, con Domenikos Theotokopulos - che noi
sappiamo sarà chiamato El Greco. Anche loro ce l’hanno col papa. Poi fanno Lepanto,
e finiscono alla torre di Montaigne. Conversazioni, ironie e saggezze, finché
Cervantes non si fa la signora della torre – vecchio topos, “la moglie di Montaigne”, tipo la moglie di Socrate. Dopodiché
da solo, a Bordeaux, s’imbarca per l’America.
Un racconto alla Virginia Woolf
di “Orlando”, fra storia rifatta e fantasia. Un po’ serioso: il titolo antifrastico
è di quante distruzioni siano capaci le civilizzazioni – e di chi la fa l’aspetti.
Binet si diverte, il naso di
Cleopatra è la sua passione, con gusto nel caso della semiologia, il celebre “La
settima funzione del linguaggio”. Il lettore un po’ meno. La conquista americana
dell’Europa, probabilmente il nucleo originario del libro, è colta e
sorprendente, oltre che irridente – ma è vero, l’Europa trova sempre motivi per
litigare. Anche se sceneggiata alla chanson de geste, che però è un mito fondante, non un divertimento. I due apocrifi, delle saghe norrene e del diario di Colombo,
e l’avventura scalcagnata, anche nella scrittura, di Cervantes, non fanno
ridere.
Un libro molto premiato, anche
dall’Accademia di Francia. Ma l’Europa alla deriva dagli Usa non
era già vecchia teoria woodyalleniana?
Laurent Binet, Civilizzazioni, La Nave di Teseo, pp.
384 € 19
Giuseppe Leuzzi
“Tutto vuol
persuadere” sul Ring - il viale circolare ricavato a Vienna sul percorso delle
vecchie mura, uno dei segni distintivi della città - “che Vienna è la capitale
del Sud, a trecento brevi chilometri dal Mediterraneo” – Guido
Morselli, “Contro-passato prossimo”, 41.
Il “Drang nach Süden”, o “spinta verso il Sud”, ricorre
spesso nella pubblicistica tedesca. In termini militareschi, di offensiva – e
segnatamente contro l’Italia, l’unico Sud non tedesco della Germania. Ma è una
bella formula, “Sud” potrebbe anche essere un asset, un patrimonio
– se Vienna ci tiene a contrassegnarsene nel mondo tedesco. Se ne
impadroniscono naturalmente la Riviera romagnola e il Lombardo-Veneto dei
laghi.
Un’altra storia
Con la Lombardia a un quarto abbondante di tutti i contagiati in tutta Italia (276.486 fino
a ieri, su 995.463, il 27,7 per cento), e quasi la metà dei morti (il 44 per
cento, 18.571 su 42.330). Con Varese che da sola conta oggi (ieri) 3.400 nuovi
contagi in una giornata, otto-nove volte la vituperata Calabria, non c’è dubbio
su come va affrontata la pandemia. Su come andrebbe affrontata, e invece non si
fa, oggi come non si è fatto in primavera. Bisogna dunque ripetersi.
Se il virus si fosse manifestato e diffuso a Napoli invece che a Milano non sarebbe stato circoscritto agli inizi, entro un cordone sanitario, rigido, guardato dai militari se necessario? Non è fantastoria, è un’ipotesi reale. Si sarebbe cortocircuitata Napoli, e
magari la Campania, subito, radicalmente. Basta poco, a volte. È successo
invece a Milano e la cosa non si è fatta. Non si fa, non si può fare.
Un virus non è come il terremoto, che non ha contromisure. Oppure: è un
terremoto ma rimediabile.
Un cordone sanitario avrebbe salvato la stessa Milano, con tutta la Lombardia.
Che invece, vivendo spensierata sulla pelle degli altri, ha potuto allegramente
infettare il vicino Piemonte, la vicina Emilia, il vicino Veneto, le zone
integrate produttivamente con la Lombardia, Vercelli-Novara, Piacenza, Verona. O
la Toscana, per dire, che dopo la Lombardia si sta liquidando gli anziani che
deve mantenere in Rsa, le residenze sanitarie assistenziali – oggi ne ha di
infettati uno su otto, oltre mille su novemila, più qualche centinaio di
operatori.
Per ragioni di geopolitica, oppure di politica – il governo deve proteggere i
“suoi” – il cordone sanitario non si è fatto. Se non nella forma, dopo otto
mesi e ridicola, dell’affiancamento della Calabria alla Lombardia.
L’odio-di-sé al tempo del Covid 19
Il ministro della Salute Speranza non ha esitato a inguaiare la Calabria e
la Sicilia, il ceto medio-piccolo che è il tessuto produttivo delle due
regioni, di negozianti, ristoratori, baristi, artigiani, che poco o nulla, e
tardi, vedranno dei ristori mentre l’avviamento va in fumo e i debiti
soffocano. “La Calabria ha un Rt di 1,86”, sbruffa , l’indice dei
contagi. Non un contagiato contro uno positivo, né mezzo, come si dovrebbe, ma
addirittura due: il virus galoppa in Calabria, a suo dire, mentre non è così,
fortunatamente – non era la Calabria l’unica regione italiana da cui la
Germania accettava ingressi? Ma il ministrino è segretario di Leu, cioè è a
capo di un partito, perbacco, e recita lo statista, impietoso.
L’appartenenza politica è un diritto, un buon diritto. Ma non a scapito della
salute, degli altri. Si può capire la sottovalutazione della Campania (gialla)
e la sopravvalutazione della Sicilia (arancione) in una logica politica: la
Campania è governata a sinistra, la Sicilia a destra. Ma la Calabria è solo un
falso scopo: ci voleva un po’ di Sud in rosso. Per calmare la Lombardia?
La Lombardia è un orco, un mostro assetato di sangue altrui? Assurdo. Ma c’è un
che di assurdamente leghista, nel decreto del governo sulle chiusure. Hanno
chiuso la Calabria, singolarmente al di sotto di tutti gli indici di allarme -
rapporto tamponi-contagi, occupazione terapie intensive, ricoveri ospedalieri
rispetto alla capienza, morti - per dire che tutto il mondo è paese.
Mandando senza rimorsi al fallimento un’economia essenzialmente locale, di
piccoli commercianti, ristoratori, pasticcieri, produttori, artigiani, e di già
ridotti consumi, per il reddito ridottissimo. Con una giunta regionale
presieduta, seppure da facente funzioni, da un leghista, Spirlì, che si vuole
una macchietta – non conta niente, e lo sa. Aspettando l’inevitabile
‘ndrangheta. Tutto banale, ridicolo, il virus già domani ce lo farà dimenticare, ma bisogna pure dirlo, ricordare tutte queste scemenze.
Speranza, il ministro che avrà il secondo, ferale, lockdown sulla
coscienza, è peraltro tassativo solo sulla Calabria: “Ha l’Rt a 1,86 ma contano
anche gli altri parametri”, insiste, “non avrebbe retto a tre settimane di
raddoppio, lo dicono gli scienziati”. Invece la Campania sì, la Toscana, il
Lazio, la Puglia. Perché sono tutte regioni dove lui è al governo.
Speranza è di Potenza, non si può nemmeno dire il Nord alla Feltri che inguaia
il Sud – benché telecomandato da Bersani. Può essere quello che è da solo: c’è
sempre un meridionale severo con il meridione - l’odio-di-sé meridionale è
sostanzioso. Certo, nel suo caso si può dire almeno fruttuoso, per la carriera.
Storia comica dei commissari alla sanità - altrui
Si ride con Tremonti, il ministro dell’Economia dei governi Berlusconi.
L’ultimo dei quali, nel 2010, commissariò la Sanità in Calabria: “A seguito
delle richieste della Commissione Bilancio della Camera venne fuori la storia
della sanità calabrese di cui non c’era traccia scritta. La risposta che diedero
dalla Regione è che venivano tramandate per tradizione orale, come se si fosse
ai tempi di Omero. È tutto vero, eh”?
Si ride amaro. Specie in tempi di peste galoppante. Anche perché la “leggenda
metropolitana” (Tremonti) è sinceramente creduta pure in Calabria. Ma sarà un
seguito di risate. Fino al generale Saverio Cotticelli, che non sa, non
ricorda, di avere predisposto il piano anti-Covid in estate, di averlo
perlomeno firmato, dato che è in “Gazzetta Ufficiale”. Licenziato da Conte e
Speranza due giorni dopo averlo riconfermato. E al suo successore appena
nominato, Giuseppe Zuccatelli, che non crede alle mascherine, al
distanziamento, e alle altre “fregnacce” con cui il governo gestisce la
pandemia. O al loro predecessore per quattro lunghi anni, Massimo Scura, che
non ha fatto nulla, ha litigato con tutti, e alla fine ci ha scritto su un
libro.
Ma la cosa è seria: in dieci anni il deficit da risanare è semmai aumentato, e
non un solo posto letto è stato aggiunto. La Calabria, due milioni circa di
abitanti, era ed è in rosso nel comparto sanitario per 160 milioni di euro. La
provincia di Massa e Carrara, 200 mila abitanti, lo è stata per 400 milioni, e
ne è uscita. Normalmente succede così.
Si dice commissariamento ma in Calabria sono stati mandati tre vecchietti, per
arrotondare la pensione, di novemila euro, al mese, più le trasferte, la
macchina con autista, e la scorta. E non si vuole pensare altro, che vengano
messi lì per garantire il lucroso settore ai partiti di appartenenza, Pd
(Scura), 5 Stelle (Cotticelli) e ora (Zuccatelli) Leu. Tutti peraltro
coordinati, in veste di sub-commissario, da Andrea Urbani, dirigente del
ministero della Salute, direttore generale della programmazione. Perché i
commissari hanno due sub-commissari, retribuiti, e un certo numero di
dirigenti, che muovono tra le Asl e le aziende ospedaliere.
Zuccatelli, il nuovo commissario, trombato alle elezioni del 2018, ebbe subito
dal suo compagno Speranza tre sub-commissariati in Calabria, in due aziende
ospedaliere e alla Asl di Cosenza. Prima di questo commissariato, ora, alla
intera regione. Urbani vanta nel curriculum, alla voce sub-commissario alla
regione Calabria, “lo sblocco di premialità per oltre 400 milioni di euro,
oltre ad un sensibile aumento dei valori Lea”, livelli elementari di
assistenza. Che invece si lamentano sempre bassi – è uno dei motivi per cui la
Calabria è stata messa in quarantena da Speranza. È comunque un dirigente molto
richiesto, tra Pd e Leu: è stato revisore dei conti all’Istituto di
Astrofisica, e all’Agenas, l’agenzia per i servizi sanitari regionali, nonché
consulente al commissariamento della sanità del Lazio, dal 2010 al 2013. E da
sempre con le mani in pasta in Calabria.
La sanità in Calabria è stata commissariata da Berlusconi il 30 luglio 2010.
Primo commissario il presidente della Regione Calabria Giuseppe Scopelliti,
affiancato poi da due vice-commissari, il generale della Finanza in pensione
Luciano Pezzi e il manager siciliano Giuseppe Navarria – che presto lasciò il
posto a Luigi D’Elia, succeduto da Andrea Urbani. Zuccatelli, l’ultimo della
serie, è uno che vive a Cesena, e da lì amministra le sue commissarie in
Calabria – si sposta, se proprio è necessario, solo in automobile, con autista.
Il generale dei 5 Stelle Cotticelli, generale dei Carabinieri, visto in tv da
Giletti, è non si sa se più ingenuo - faceva pena per la, diciamo così,
ingenuità – o rincoglionito. Massimo Scura, nominato il 14
marzo 2016, a 72 anni, di Gallarate in provincia di Varese, ex
manager Pd in Toscana, alla Asl 7 di Siena e all’Asl 6 di Livorno,
sub-commissario sempre Urbani, uno dei sub-commissari, si è reso celebre per la
lite continua, quattro anni, col suo compagno di partito Oliverio, presidente
della Regione. Ora propaganda un libro in cui dice che in Calabria tutto è
‘ndrangheta - ma è rinviato a giudizio a Catanzaro per somme indebitamente
erogate, oltre un milione, a cinque veterinari.
E la sanità in tutto questo? E la Calabria? Una farsa tragica. Ma non senza
colpe. Dei governi, soprattutto di sinistra, e degli stessi calabresi eterni
penitenti. Ultima il colpo di grazia a un’economia fragile. Che vive, male, di
piccoli operatori. I quali non supereranno la chiusura, per quanto
caparbiamente impegnati a sopravvivere. C’è già scritto nel “Bollettino economico”
della Banca d’Italia, al rapporto annuale delle economie regionali: “Lo scorso
anno (2019, n.d.r.) il pil calabrese in termini reali risultava inferiore
ancora di 14 punti percentuali rispetto ai livelli del 2007; gli indicatori
disponibili ne indicano per il 2020 una ulteriore caduta”. Questo prima della
chiusura. Una economia debole anche nella domanda, nei consumi – non ci sono
redditi accatastati cui poter attingere in mancanza di entrate. Inventive si
segnalano interminabili di piccoli e minimi imprenditori per sopravvivere, ma
l’inverno sarà lungo.
Calabria
Toccano personaggi “tragici” alla sanità calabrese, come commissari:
pensionati, ben pagati, nullafacenti, e un po’ svaniti. Il generale
5 Stelle ingenuo o svaporato, il trombato di Leu negazionista, il burocrate Pd
litigiosissimo. Ma nessuno si ribella: la Calabria si diceva anarcoide e
ingovernabile, e invece è prona a tutto.
“Il volo del calabrone (bourdon in francese, n.d.r.) si dice «Il
volo del Calabrone» (in it., n.d.r.). Credevo che volesse dire «il bandito
calabrese». Ecco come si creano le confusioni orribili, funeste al
ravvicinamento dei popoli” – Boris Vian, “Croniche di jazz”.
Muccino fa uno spot pubblicitario per la Calabria di otto
minuti, con due protagonisti bellissimi, Raul Bova e Rocio Muñoz Morales,
marito e moglie, e molte coppole, baciamani, e altri cliché.
Infuriando la Regione Calabria, che glielo ha commissionato. Che però ha pagato
il filmetto 1,7 milioni, il costo di due film a soggetto di 100 minuti. È
difficile in effetti liberarsi del provincialismo, i cliché sono
tuttora radicati.
Fra i tanti doni ricevuti da Giacomo Debenedetti, Walter Pedullà annovera (“Il
pallone di stoffa”, 149) l’espressionismo linguistico, da Debenedetti
inaugurato nel racconto “16 settembre 1943”, arricchendo l’italiano con
l’yiddish e il romanesco: “E scoprimmo che miscelando il calabrese con
l’italiano eravamo espressionisti inconsapevoli come quel personaggio di
Molière ignaro del fatto che parlando fa della prosa”. L’ironia in effetti è
inscindibile dal calabrese – anche disfattista, il calabrese non se ne libera.
Risa, Reggio Calabria, è toponimo della “Chanson d’Aspremont”, secolo XII,
volgarizzata due secoli dopo da Andrea di Barberino. Forse adattamento da Nisa,
dizione comune nell’antichità: è il nome della ninfa nutrice di Bacco, ed è
toponimo ricorrente in Grecia (in Tracia, Macedonia, Beozia, Eubea, Nasso,
Epiro), in Arabia e in Libia – c’è anche una Nisa indiana, di cui resta incerta
l’ubicazione, nella storia di Alessandro Magno in India.
Ha una battuta cattiva Claudio Noce nell’autoritratto d’infanzia “Padrenostro”:
al padre che l’ha portato in vacanza in Calabria dal nonno con la sua famiglia
allargata chiede: “Ma sono tutti tuoi parenti?”, “Sì”, “E sai il nome di tutti”,
“No”.
Il padre non ha altri rapporti con la Calabria. Ma tiene la sera, al ritorno
dal lavoro, il figlio sulle ginocchia quando ha già dieci anni. E non lo
rimprovera mai, anche quando fugge da scuola, o da casa all’alba: preoccupato
soprattutto di ritrovarlo, e di farlo tornare in sé.
Arcangelo Fiorello incanta a Venezia il pubblico di “Incontri”, la Biennale di
Musica, con tredici minuti di tre pezzi ardui di Luigi Nono per tuba e
elettronica. Con commenti esilarati del “Gazzettino
di Venezia” e dei periodici culturali. Fiorello, venticinquenne di Anoia, diplomato al “Cilea” di Reggio, vincitore di
plurimi concorsi, è ignoto ai
giornali calabresi, che pure ogni giorno faticano a riempire le pagine –
esaurite le liste di assessori e vice-assessori comunali. Non è il “nemo
propheta in patria”, il musicista non disturba nessuno, è che solo il made
al Nord ha valore.
L’unico italiano a Vienna, alla messa in Santo Stefano, alla presenza
dell’Arcivescovo e dell’imperatore Francesco Giuseppe, il 5 giugno del 1910,
dopo “la processione del Corpus Domini, rituale kermesse della monarchia”, è
nel romanzo “Contro-passato prossimo” di Guido Morselli un “on. Morabito,
deputato di Riva” - di Riva del Garda è da supporre. Cioè un calabrese.
Morselli aveva fatto il militare in guerra in Calabria, e nel romanzo si
diverte.
Ufficiale di complemento degli Alpini, richiamato in guerra, Morselli era stato
assegnato a Catanzaro, dai primi di aprile del 1943, al 114mo reggimento di
Fanteria. Vi rimase quasi tre anni. Alla smobilitazione visse senza entrate –
senza nemmeno vestiti civili. A pensione da un’anziana vedova, la signora
Gigetta, che divideva con lui i suoi parchi pasti. Si diede da fare con lezioni
d’inglese. Ma si era portato o aveva trovato buoni libri, e vi scrisse “Realismo
e fantasia”, un saggio di filosofia che teneva in gran conto - lo mandò pure a
Croce.
leuzzi@antiit.eu
“In una condizione tendenzialmente
sub-umana com’è quella di un esercito in guerra” Morselli pacifista fa risolvere
anticipatamente la Grande Guerra con un’azione di commando austriaca, organizzata e comandata dal capitano tedesco Rommel,
che dalla Valtellina dilaga in Lombardia fino a Brescia, prendendo l’esercito italiano
alle spalle. Un’idea geniale. Fatta sbocciare da Morselli in un’Austria tirolese,
marginale, minuta, piccoli borghi, piccoli fiumi, piccole perfino le montagne.
Benché sotto al sigla ubiqua A.E.I.O.U., che Federico III (1415-1493), il
creatore della dinastia asburgica, aveva voluto su tutti gli oggetti e i palazzi
imperiali – “Alles Erdreich ist
Österreich Untertan”, o, in latino, “Austriae
est imperari orbi universo”, Austria
über alles, il vizio è antico. Poi Morselli ci deve aver preso gusto, e l’accerchiamento
replica, con Ludendorff in Francia. Replica due volte: con von Tirpitz, l’ammiraglio,
contro l’Inghilterra, aggirata dalle isole irlandesi. E il divertimento non c’è
più, solo lunghi, probabilmente ingegnosi, piani militari. Anzi, un tedioso
manuale di Arte militare.
Morselli abbozza anche un aggiramento
degli Stati Uniti, con Lenin che un po’ va un po’ viene inviato negli Stati
Uniti invece che in Russia. Ma poi si deve essere stancato anche lui. Peccato,
aveva cominciato con un delizioso personaggio, un ambiente e una vicenda da
fine impero. Musiliani senza il sopracciò critico - Musil è anzi sbeffeggiato –
e di sottile graziosa ironia. Protagonista uno “speculativo von Allmen”,
maggiore dello Stato maggiore, cultore delle chiesette disusate e pittore della
domenica - “aspirante alla Biennale”.
Con un curioso apprezzamento dell’ordine
germanico. Le occupazioni militari sono pacifiche: generose, provvide,
liberatorie. Gli eserciti germanici quasi perfetti – Morselli li loda col razzista
britannico Houston Chamberlain: “Le forze militari tedesche sono le prime
istituzioni morali che esistano oggi al mondo”. Il made in Germany è il giusto contraltare all’introspezione. Una
celebrazione ripetuta tre o quattro volte – forse per questo non tradotta in
tedesco, dove si è tradotto praticamente tutto di Morselli.
Nel mezzo una garbata
contestazione della storia, dello storicismo. Con applicazioni, però, paradossali:
la Germania doveva vincere la Grande Guerra,
solo questo sarebbe stato giusto e buono, ma i tedeschi sono fatti male… È su
questo argomento che Morselli innesta il secondo e il terzo aggiramento
tedesco, interminabili. Con un solo senso, altro paradosso per un pacifista: la
celebrazione del militarismo tedesco, tutto Blitz,
intelligenza, risparmio, cavalleria, generosità. Perfino quando tenta il colpo
di Stato.
Guido Morselli, Contro-passato prossimo, Adelphi,
pp.261 € 24
spock
“L’opposizione
all’escissione, anche sul suolo francese, rientrerebbe in una visione
fondamentalmente etnocentrica, che opera nel disprezzo delle culture africane”,
Martine Lefeuvre-Déotte, sociologa delle differenze culturali, antropologa?
“La poligamia di papà è stata una grande esperienza”, Assà
Traoré, attivista Black Lives Matter?
“La penalizzazione dei certificati di verginità non serve (la
causa delle donne)”, “Libération”?
Della verginità femminile, maschile?
“La nostra passione per il rispetto degli altri ci tende
infantili nell’esprimere giudizi”, Philippe-Joseph Salazar, filosofo della retorica?
“Le donne sono libere purché si attengano agli standard patriarcali
di verginità, modestia, discrezione”, Movimento
femminista islamico?
spock@antiit.eu
Trump aveva avuto 63 milioni di voti nel 2016,
a sorpresa. Ne ha avuti 70,3 milioni ora. Voti di bisogno.
Ha vinto Biden, Democratico, nelle aree più
ricche e snob del Paese, da Filadelfia al New England e negli Stati, pochi, e
le città affluenti, Colorado, California, Arizona, dove la marijuana è libera e
gli sciacquoni sono due, uno per la pipì e uno per la cacca, segno di impegno
ecologico. Si vede rossa, cioè trumpiana, tre quarti della superficie degli
Stati Uniti nelle immagini in tv.
Dice candido David Leavitt ad Andrea Marinelli
sul “Corriere della sera” da Gainesville, dove insegna all’università della Florida:
“Quella dove abito è una contea blu circondata da un mare rosso: noi abbiamo
un’università, ospedali, compagnie tecnologiche, nelle loro ci sono quasi
soltanto agricoltura e prigioni” – nelle loro contee, abitate da “uomini bianchi e
arrabbiati, che soffrono psicologicamente e fisicamente, spesso dipendenti da
oppioidi e alcol”.
Negli anni di Obama, o della recessione
post-crisi bancaria, i poveri negli Stati Uniti sono passati dai 36 milioni del
2008 a 46 nel 2010-2013, e quasi 47 nel 2014-2015.
Sono scesi a 37,5 milioni nel 2019. Un americano su nove-dieci vive al di sotto
della “linea di povertà” – che è elevata per gli standard europei, 25.465 dollari
per una famiglia con due adulti e due figli, ma si confronta a un costo della
vita più elevato.
Fa macelli il covid-19 dove più
forte e anzi dominante è la sanità privata, a partire dalla Lombardia, col
Veneto e il Piemonte – il coinvolgimento dell’Emilia in primavera avvenne per ragioni
di confine. Una sanità che prospera senza responsabilità pubbliche, garantendo
servizi soprattutto alberghieri – quando c’è l’urgenza, o il caso difficile, o
l’epidemia, questi si lasciano al pubblico. Ma con entrate garantire dal
pubblico, a convenzioni convenienti.
Il sistema sanitario è diventato
in Italia largamente privato. Ma di un privato saprofita, a spese doppiamente
del pubblico: per le convenzioni generose, e come pubblico
pagante, attraverso le assicurazioni private, onerosissime, e di tasca propria,
ad abbattimento fiscale irrisorio - offensivo. Un settore ricco, per chi lo
gestisce, e ricchissimo, facile, anzi protetto.
La regionalizzazione della
sanità, che non ha nessun beneficio per gli utenti e per il sistema (una
moltiplicazione di burocrazie), è stata voluta e si è realizzata, con impegno congiunto
della Lega e dell’Ulivo oggi Pd, a questo fine: garantire i privati attraverso
il condizionamento della politica locale. Un traffico di influenze gigantesco,
altro che il concorso esterno in associazione mafiosa su cui si gingillano i
Carabinieri. E di corruzione, occulta e
anche palese. Gli scandali denunciati a Milano, a carico di Formigoni o di magnati
del business, è solo la punta di un
iceberg enorme, che stranamente non si rileva. Né fanno scandalo le trasmigrazioni
costanti di manager dal privato al pubblico e viceversa.
La sanità privata è il settore più
redditizio in Italia. Che si è svìluppato in pochi anni. Per collusioni
politiche evidenti, di destra e di sinistra - il più grande gruppo lombardo e
italiano del settore, Rotelli, è stato sviluppato da un impiegato Asl col
concorso del banchiere Bazoli, sinistra Dc (ne fece pure il frontman per il controllo del “Corriere
della sera” dal 2006 al 2016).
Un film documentario della
batteria anti-Trump nella campagna elettorale, visto dopo, lascia amaro. Per la
compassata assurdità degli psichiatri, che seduti, calmi, ironici, dicono
avvedutezze senza senso: Trump è afflitto da “narcisismo maligno”. Che sembra
niente, ma è nei prontuari una miscela
di paranoia, antisocialità (uno che ha catturato la fiducia di settanta milioni di
elettori, nei soli Stati Uniti?), e anzi sadismo.
Nonché in Italia, nella stessa America
Trump resta fenomeno sconosciuto. Alla critica militante, ai “belli-e-buoni” della
repubblica, ai saputi. Noto solo per le intemperanze verbali – per i tweet, un
linguaggio che chiama le intemperanze.
Trump si direbbe un fenomeno politico,
e non c’è da fare affidamento sulla psichiatria in politica. Ma la voglia di
spendersi in politica – degli psichiatri americani come dei virologi in Italia
- è inquietante, minacciosa. Il narcisismo dello psichiatra è in effetti come
da protocollo: paranoide, antisociale e sadico.
Dan Partland, #Unit – La psicologia di Donald Trump
“Quando mia madre è arrivata in
Francia non portava il velo e non parlava neppure l’arabo, cercava di
integrarsi”, Fatiha Agag-Boudjahlat a Stefano Montefiori su “La Lettura”, l’anno
era tra il 1970 e il 1980, non molto tempo fa: “Noi tornavamo a visitare i parenti in Algeria una volta
ogni tre anni quando andava bene. I miei nipoti ci vanno di continuo, tre volte
l’anno, con i voli low cost. Vivono
in Francia ma il sistema di valori, l’orizzonte, è l’Algeria”.
Fatiha Boudjahlat è una insegnante
di liceo franco-algerina. Quarantenne, femminista, polemista, con numerosi
saggi di successo (Montefiori la intervista per l’ultimo, “Combattre le
voilement”) e con un paio di fallimenti politici (movimenti, candidature) già
alle spalle - riconosciuta e non contestata solo in quanto avvocata della Francia
una e repubblicana (laica). Ma parla chiaro.
L’islamismo non è fine a se
stesso, punta a una guerra civile: “Gli islamisti non vedono l’ora che qualche
invasato di estrema destra faccia un attentato contro dei musulmani per provare
che la Francia è islamofoba e cattiva. È il loro sogno”.
Non ci sono quinte colonne, ma l’islam come un’enclave in Europa:
“Ma non credo a una guerra civile. Penso che evolveremo verso una forma di
apartheid, che rinunceremo alla nostra idea di Stato-nazione francese.
Perderemo la battaglia, ci adegueremo all’idea di muticulturalismo all’anglosassone,
così lontana dalla nostra storia, in cui la gente sfinita dirà: «Lasciateli
vivere come vogliono, applichino pure la sharia
tra di loro, basta che non vengano a mescolarsi con noi»”.
Non c’è radicamento: “Ce l’ho, e
tanto, con le persone della mia generazione, con i miei fratelli figli di immigrati,
come me. Lo vedo come si comportano con i miei venti nipoti. È gente che in
Francia si è realizzata professionalmente, eppure per prima cosa hanno mandato
i loro figli alla moschea, che è quasi sempre ormai il luogo dell’ortodossia
religiosa, perché è il discorso più estremista a vincere. Oggi non si può
essere che iper-musulmani, altrimenti arriva l’accusa di tradimento”.
Non è un problema di spesa
sociale. “È quel che tendeva a pensare il presidente Macron, che di formazione
è un liberale multiculturale anglosassone, per il quale basta che ognuno abbia
soldi a sufficienza e i problemi spariscono. Non è così, anche i musulmani, in
Francia, di solito stanno bene, meglio di quanto potrebbero mai stare nei paesi
d’origine. Solo che in troppi preferiscono crogiolarsi nel vittimismo e
ascoltare il discorso degli imam radicali”.
La schizofrenia dilaga: “I miei
nipoti sono completamente perduti. Figli di figli di immigrati, a differenza di
me non si sentono francesi perché i loro genitori non parlano loro che del bled, il paese natale in Algeria”.
Antifrancesi, ma in Francia: “Si
guardano bene dal tornare a viverci stabilmente”, al bled, “gli ospedali sono disastrosi”, lo Stato sociale non c’è,
eccetera: “Quindi si vive in Francia, ma si guarda la tv algerina, con i salari
francesi si mettono da parte soldi per comprare grandi case in Algeria, e per
fare vacanze in Algeria andando tutti i giorni al ristorante, perché, grazie
agli euro guadagnati in Francia, «il ristorante non costa niente»”.
Siamo alla terza generazione, e
non c’è rimedio: “I ragazzini pensano che l’Algeria sia il paradiso in terra e
nessuno insegna loro ad amare anche la Francia. Io ci provo e per questo vengo
chiamata «araba di servizio»”.
Curioso film politico, di un
politico amante della politica, critico e autocritico, costruttivo, innovativo,
sempre pronto a mettersi in gioco, un santo, si direbbe, della politica, che il
suo partito, il partito di una vita, non considera: quando pensa di potersi candidare
alle primarie per la presidenza, semplicemente non lo fanno parlare. Un apologo
socialista, della sinistra francese. Che, se non si è dissolta come in Italia,
sotto il giustizialismo e il settarismo, naviga però senza idee.
Alice, una giovane laureata
assunta all’ufficio stampa del comune di Lione, che si organizza per celebrare
i 2.500 anni della fondazione, prende servizio il giorno in cui il suo posto,
per una ristrutturazione, è stato abolito, e allora, per compensarla, le
inventano un’attività: produrre idee per il sindaco. È una “normalista”, ma non
intellettuale, una ragazza acqua e sapone – anche personalmente non ha grandi storie,
solo rapporti confusi. La sua semplicità è il reagente della politica inutile e
incapace – quale si sperimenta, non solo in Francia, ormai da decenni: dirà l’ovvio,
e su questo il sindaco a corto di idee ritrova passione e acume. I furori “politicamente
corretti” e inconcludenti, di cui la sinistra fa bandiera, sono
confinati all’artista monomaniaca – pazza.
Curioso anche per essere
trumpiano. Senza escandescenze, da sinistra classica – tra progressismo,
innovazione, abnegazione personale, eccetera. Il risveglio del sindaco avviene quando
scopre quello che tutti sanno: che la globalizzazione è l’impero del denaro, degli affaristi - banchieri e mediatori. Che
le scuole, anche le grandi scuole della tradizione francese, sono buone se
formano banchieri - quelli che si arricchiscono sui risparmi faticati da chi lavora. E
che conviene fabbricare il vasetto dello yogurt a tremila km. di distanza da
dove si produce lo yoghurt – conviene ai mediatori, la vecchia borghesia parassitaria. Il mercato, che lui chiama
mondializzazione, elimina la politica: il sindaco non ha più idee perché non ha
poteri, di orientare, facilitare, giudicare.
Nicolas Pariser, Alice e il sindaco, Sky