sabato 21 novembre 2020
Il mondo com'è (415)
Gulag – I campi di lavoro forzato nella
Russia sovietica sono durati fino al 1960 – ma “colonie di lavoro forzato”
furono tenute aperte, nelle aree polari, fino a perestrojka inoltrata, il regime di relativa liberalizzazione
inaugurato negli anni 1980 da Gorbacov, fino al 1987. Vi passarono 18 milioni
di russi e assimilati. Tutti “traditori del popolo”, trockijsti, antipartito,
categoria che sempre si rinnovava, a ogni mutamento di equilibri politici a
Mosca, e chi aveva nome germanico, polacco, baltico, cosmopolita (ebraico),
tutti spie, “nazionalisti”, più i soliti sovversivi, destrorsi, menscevichi,
socialrivoluzionari, anarchici, emigrati. I campi a “regime speciale” erano
situati nelle aree più remote o impervie, alcuni vicini o sopra il Circolo
polare, Pečora, Intra, Vorkuta, Kolyma.
Cronache dell’altro mondo – Trump aveva ragione (78)
Non molti anni fa l’Oriente si
vedeva nel coolie, che trasportava merci
in spalla, e nel risciò, il biciclo con
cui un uomo alla stanga trasportava merci e persone. Ora niente di questo è
visibile e nemmeno immaginabile a Singapore o a Taiwan – nonché ad Hanoi - e non perché l’ordine sociale lo impedisce,
come nella madrepatria continentale dopo Mao, ma perché le tre Cine sono i
ricchi del pianeta. Si sorpassano invece a Roma – o si viene sorpassatati da –
giovani che portano pizze e altri pesi su biciclette traballanti, per mezzo
euro, un euro, a consegna, e per la vergogna si chiamano rider, all’inglese, cavalieri.
Ci sono effetti deleteri della
globalizzazione. Che ha prodotto più ricchezza. Ma l’ha spostata, verso l’Asia governata
con lo scudiscio, e verso i ceti parassitari in Europa e in America, di
importatori e delocalizzatori. Che sono venditori in patria, grazie alla posizioni
di rendita che hanno maturato, di beni di consumo a caro prezzo, per produrre i
quali niente corrispondono ai consumatori\utenti, in retribuzioni e commesse.
La globalizzazione è
imbattibile, senza sindacati e senza leggi, orari di lavoro estensibili, paghe
ridotte. Ma nell’interesse, in Europa e Stati Uniti, di pochi mercanti – la borghesia
compradora che fino a ieri si disprezzava.
Fa pena Trump, che esce a ritroso
dalla Casa Bianca, recalcitrante. Come un tennista sconfitto al tie-break che non si dà pace e fa notte
alla rete – se non è un furbastro, che vuole negoziare l’uscita. Ma Trump è soprattutto
una spia, quello che il re nudo l’ha detto nudo, e un reagente. Delle due cose
che ha eretto a muro. La globalizzazione produce povertà nei paesi ricchi, molta,
e moltissime incertezze e paure. L’America
è classista, come nessun altro paese – non più – in Europa, e quindi nell’Occidente.
Questo è ridicolo detto da un affarista, ma è un fatto. Che non lo dica chi
dovrebbe, la stampa liberal, è una
conferma, di un classismo talmente radicato da essere pieno di sé.
La lettura quotidiana dei giornali
e periodici di New York, la stampa liberal,
e compresa la “Washington Post”, non registra un solo articolo, uno solo, sulle
donne e sui giovani che fanno due e tre mestieri - anche a New York, tutti lo
vedono - per qualcosa che si possa dire una paga giornaliera. O sulle campagne
e sulle aree industriali, che occupano i quattro quinti dell’America, che stanno
tornando all’età della pietra. Sulle vittime, pure tanto visibili, della
globalizzazione. Dei ricchi importatori di città, con le loro coorti mediatiche.
Dei ceti urbani professionali. Specie di
quelli che possano vantare un quarto razziale, ex africani, ex indiani, ex
cinesi, ex latinos, quelli dei diritti, così pieni di sé, con carnet di rivendicazioni alti come grattacieli.
Non si vede perché i giovani in
Europa debbano portare pesi, solo perché il mondo – il “mercato” – lo fa la
borghesia parassitaria. I ricchissimi, influentissimi, anzi dominanti,
riccastri delle mediazioni e le importazioni delle “scarpe schifose” della
Lidl, che una stampa compiacente – si spera prezzolata - fa oggetto di culto. A
fronte dei guasti la reazione è semmai blanda. Lo chiamano populismo ma è
classismo, semplice, netto - e liberal,
progressista.
Comica cosmologica, evolutiva
Dopo quasi mezzo secolo – le comiche cosmiche sono
state pubblicate nel 1965, era lecito ancora in Italia fantasticare, sulle ali
del boom, quel miracolo mai visto prima nella lunga storia, prima del tutto
politico, o Sessantotto - durano. Le storie fantascientifiche del signor
Qfwfq non appassionano - lo scrittore non vuole, s’interpone e lo strattona a ogni
piega, il lettore non deve immedesimarsi, vuole fare un racconto o
romanzo contro il racconto o romanzo, e la chiama operazione verità - ma
incuriosiscono. Per il misto di scienza e fantasia che di Calvino sarà il trademark - sia pure sullo stimolo di una immagine, come racconterà da ultimo agli studenti americani (qui Popeye, Grandville e Sebastian Matta, assieme, in ordine). Consentendogli finalmente di evadere dal mondo reale che lo opprimeva – non lo
opprimeva, ma lo respingeva, lo faceva assente, lontano. Un “disimpegno” che all’epoca
poteva costargli caro, ma che riuscì a imporre, non facendosi atterrare dalle critiche
– l’anteprima del libro uscì su “la Fiera Letteraria”, settimanale conservatore.
Grazie al pubblico che aveva fidelizzato con la raccolta delle fiabe e con
“Marcovaldo”, e soprattutto, dieci anni prima, con la trilogia “I nostri
antenati”.
L’immaginazione qui Calvino dispiega, in
forma di apologo, in una fantasmagoria geologica e animale che tutto si
permette. Avendo l’evoluzione proceduto come le è parso, di fatto senza regole né modelli. Per cui anche il signor Qfwfq può essere stato un dinosauro, come pretende, al
capitolo apposito. Erano intelligentoni, anche loro come già i molluschi.
Una divagazione. Che però scorre
come una presa in giro dei principi di Sir George H. Darwin, richiamato alla
prima riga – che naturalmente non è “il” Darwin (è il figlio, uno dei dieci): una comica, cosmologica.
Italo Calvino, Le cosmicomiche, la Repubblica-Sorrisi
e canzoni tv, pp. 187 € 9,90
venerdì 20 novembre 2020
Ombre - 538
“La
Calabria è irrecuperabile”. Il presidente della Commissione parlamentare antimafia
Nicola Morra non vuole perdere la battuta, sulla farsa della Sanità in
Calabria, e non sa che altro dire. Poi dice che la mafia è invincibile.
“Ogni
popolo ha la classe politica che si merita”, dice anche il senatore in tema di
irrecuperabilità. Questo Morra, grillino genovese come Grillo, laureato a Bari,
ha lavorato in Calabria, come insegnante di liceo, ed è senatore della Calabria
da due legislature. Mah!
Ettore
Jorio, amministrativista, professore a Unical, università della Calabria a
Cosenza, va in Commissione alla Camera, spiega che il decreto semi-lockdown è
fatto male, e che il commissariamento della sanità in Calabria ha funzionato
malissimo. Dà le cifre che nel 2008, incaricato di portare in chiaro
l’indebitamento della sanità in Calabria, accertò. Solo questa cifra viene
ripresa, dall’antipatizzante Stella sul “Corriere della sera”, che ci
costruisce sopra quattro colonne di barzellette, per dire: chi ci salverà dalla
Calabria?
Nell’occasione
– è il giorno del terzo o quarto nome sbagliato del governo per la sanità in
Calabria - il “Corriere della sera” fa un paio di pagine contro la Calabria. Come
a dire: sappiamo di chi è la colpa.
Ma chi legge un giornale che parla tanto della Calabria, anche
se male? Milano si diverte così?
“A
settembre”, confida ai giornali un infermiere dell’ospedale romano del San
Camillo, “qualcosa era cambiato: su 70 ingressi al Pronto Soccorso, 40 erano
Covid”. Come non detto.
Dove
il virus è più letale è in Italia – dopo Messico e Iran: 3,8 morti ogni 100
positivi. Effetto indubbiamente del disordine ospedaliero e dei protocolli di
cura. Però si accredita la teoria consolatrice ai che gli italiani muoiono di
più perché sono vecchi. E i tedeschi (ne muoiono 1,6), i francesi (2,2), gli spagnoli
(2,8)?
“Per
il Lazio 4 milioni di vaccini”, apre il “Corriere della sera-Roma”, a corpo 36,
ben spaziato. Come a dire : ce li abbiamo in tasca, pronti. Poi dentro dice la
verità: “”Serviranno 4 milioni di vaccini”. C’è una grande voglia di
minimizzare il contagio nel Lazio. In omaggio a Zingaretti’, capo del Pd e presidente
della Regione Lazio? Ma i morti e i contagi giornalieri?
È
per questo che la regione Lazio ha smesso di dare i numeri dei nuovi contagi giornalieri,
e dei decessi? Certo, non bisogna alimentare l’allarme. Ma quando è giustificato,
e aiuterebbe a osservare le misure di contrasto? Tutto si fa per Zingaretti.
Si
fa il caso, a Roma, di “un noto vivaio, nella zona di vila Pamphilj, nei pressi
di via Aurelia Antica”, in cui il titolare, positivo acclarato, ha nascosto la
positività e ha infettato i dipendenti. E i clienti? A questi non si dà nemmeno
il nome o l’indirizzo del vivaio – ce ne sono tre nella zona. Che informazione è
questa? Divertimento, terrorismo?
“la
Repubblica” apre “Affari&Finanza” con, a destra, Giovanni Pons, “Il
pericolo francese e la difesa dell’italianità”, e a sinistra Rizzo, “I frutti
marci del sovranismo”, contro l’emendamento
Pd pro Berlusconi - contro il raider francese Bolloré. Non c’è più
Debenedetti al giornale ex di Scalfari, ma Berlusconi è sempre un fantasma.
“Attrazione
fetale” è il titolo che “Il Sole 24 Ore” dà a una ricerca sulla “natura”
dell’omosessualità, che la individua nei geni. Una “diversità” che ora piace
soprattutto in ambito omosessuale. Quando
lo disse Rita Levi Montalcini, venti o trenta anni fa, fu insultata come omofoba. La scienza
è capricciosa?
A
Taranto, all’acciaieria, “bruciati in otto anni quasi 50 miliardi”, calcola
Bricco, dettagliando, sul “Sole 24 ore”. Di ricchezza non prodotta. Perché
l’investimento era sbagliato all’origine, per “la sottomissione della politica
alla magistratura”, per i politici commissariamenti incompetenti, perché il mercato
è entrato in crisi. Con uno solo si sarebbe pagato un vitalizio, a tutti di
dipendenti? Risparmiando a Taranto le morti.
Sei
mesi di Mes “assolutamente da prendere”, schieramento compatto, “Corriere della
sera” e “la Repubblica” in testa, martellamento quotidiano. Poi, all’improvviso,
Sassoli da Strasburgo lo dichiara uno strumento dubbio. E il silenzio subentra.
Senza spiegazioni.
L’emigrazione, l’avventura
Un repertorio delle dimensioni e i
problemi dell’immigrazione italiana dall’unità a oggi, ricostruita con articoli
e saggi pubblicati sulla stampa di tutto
mondo dove gli italiani sono emigrati, corredati da una vasta galleria
di foto d’epoca. Una storia non felice, anzi specialmente dura.
L’emigrazione è una scommessa, in
un orizzonte di speranza – quanti non sono emigrati, nella stessa stabile
Europa ora ricca, da una città o una regione a un’altra, tra mondi diversi
seppure della stessa lingua? Un segno di vitalità, comunque di iniziativa
personale. Per quanto ardue possano essere le sue condizioni, anzi tanto più.
L’emigrazione è stata per quasi
un secolo transoceanica, e in lingue e mondi diversi e alieni. Ma la difficoltà
è parte dell’atto di coraggio. La durezza viene dallo sfruttamento. Che, non si
penserebbe, ma la raccolta testimonia opera per lo più di connazionali. I
“padroni”, oggi “caporali”, che condizionavano l’accesso al lavoro, le paghe, la
sussistenza (casa, cibo). I “reclutatori”, soprattutto di bambini, nelle campagne
remote e misere, del Sud prevalentemente: di bambini “comprati” per poche lire
da adibire ai commerci non remunerati e alla piccola delinquenza nelle città e
oltremare. Le mafie. Il linciaggio di New Orleans nel 1891, la caccia
all’italiano che la raccolta documenta per prima, in apertura, fu la giustizia
popolare contro la banda uscita vincente in una guerra di mafia, che in questa
guerra aveva ucciso il capo della polizia, e poi si era fatta assolvere da una
giuria da essa prezzolata – una mafia strapotente, a New Orleans, nel 1891: la
folla che li assaltò nella prigione, e poi con una ricerca tignosa nei loro
vari nascondigli in città, era capitanata dal Procuratore Capo.
Una rassegna delle tante emigrazioni,
diverse per tempi e, di più, per destinazione. Le destinazioni di diritto inglese,
in Gran Bretagna (molti in Scozia…) e nel Commonwealth (Australia, Canada), si
caratterizzano per l’accettazione di diritto e di fatto, e una assimilazione
rapida. Col “pesce fritto e i gelati” a Dundee, italiani, nel 1928 – o il caffè
napoletano, si può testimoniare per esperienza, a Inverness, estremo Nord della
Scozia, nel 1960. Gli alti e bassi in Francia, terra di accoglienza e di rifiuto,
con la tragedia di Aigues-Mortes, a Ferragosto del 1893, contro gli italiani che
abbassavano le paghe nelle saline (mancano le restrizioni, anche in regime di
Fronte Popolare, a metà degli anni 1930, che per molti aspetti anticipano le
difficoltà e incomprensioni odierne). Gli accordi postbellici, braccia in cambio
di carbone, o di petrolio, di cui non si sa che pensare. L’emigrazione così era
protetta, censita dai consolati, ma l’occupazione era nelle miniere,
dove registrò centinaia di morti. L’emigrazione tutto sommato felice in Sud
America, Brasile, e Argentina soprattutto, ma anche Venezuela e Perù, di immigrati
presto qualificati e integrati, presto spina dorsale della classe media locale,
di agricoltori, imprenditori, allevatori, professionisti.
In
cerca di fortuna,
Internazionale Storia, pp. 192, ill. € 14
giovedì 19 novembre 2020
Problemi di base congressuali - 607
spock
Che ne
pensa Di Maio di Di Battista?
E
viceversa?
Ma pensano
– non sembrerebbe, non fanno che parlare?
Hanno
il pensiero pesante, come il sonno, come l’acqua?
I
grillini si sono riuniti, poi si sono separati, e soli ci hanno lasciati?
Dice
il professor Carlo Galli che i grillini non sono un partito, come lo era la Democrazia Cristiana, ma ne è sicuro?
C’è nulla di più antico - storico, classico - del nuovo grillino?
spock@antiit.eu
Grisélidis commediante e martire
“Il nero è un colore” suona, oggi, un
manifesto. Controcorrente. Una rivolta, “Black lives matter”, contro le morti
dei giovani neri americani per mano della polizia. Ma non è la sola sorpresa: è un romanzo,
comincia con un botto, “Ho sempre amato i Neri”, detto da una Bianca, svizzera,
e scoppietta come un gioco pirotecnico, colorato, anche cupo.
“Il nero non esiste” è la terza o quarta frase, non esiste nel senso della
diversità. Ma non è un proclama: è la storia di una giovane madre bianca che
l’innamorato nero porta a prostituirsi, e lo fa di preferenza con i neri –
americani, bisogna dire: caciaroni, cioè, ubriaconi, spendaccioni. E non è la
sola sfida: il romanzo è anche degli zigani, belli, forti e generosi.
Grisélidis comincia come un treno, e
non si ferma. Un racconto di stenti e prostituzione, per lo più lurida, che sa
però rinnovarsi e tenere avvinti. Non disturba nemmeno la sua figura sociale,
protagonista nel “Sessantotto” del movimento dei diritti delle prostitute,
fondatrice della cassa mutua di settore Aspasie. Tournée narratrice,
racconta come pochi. Sa perfino imbastire in tanta degradazione, botte,
spaccio, malattie, fame, prigione, sporcizia, stanze luride non pagate, tra i
rifiuti, montagne di rifiuti, con i figli dietro, un lieto fine. Sempre con un
nero – a volte indiano (dell’India?) e nero insieme. Quello che l’abbandona nel
bisogno, dopo essere stato salvato da lei, quello che la picchia e le impone la
prostituzione, quelli che se la fanno allegri al bar. Un racconto che più non
si fa della derelizione, dopo Victor Hugo. La marginalità – i bassifondi, le
borgate – ricostituendo nel fatto razziale. Da irriducibile indomabile
suffragetta del “tipo nero”, anche non credibile, tanta è l’abiezione, ma non
noiosa.
Il titolo sembra di oggi, ed è
quello che forse ha spinto alla riedizione, ma è del 1974 e già vecchio,
ripreso da Martin Luther King e il Black Power, anni 1960 – la paura del nero,
del diverso, si allenta per tappe, ed è ora, cinquant’anni dopo, la volta
dell’Europa. Di neri si racconta per lo più, mariti e amanti, anche cattivi, e
molto cattivi. Nonché di zingari, i pochi sopravvissuti in Germania a Hitler,
di cui Grisélidis è parte – “sono di razza gitana”. Il racconto è invece
nuovo e nuovissimo, del genere che si apprezza leggendo.
È un racconto-verità, come usava –
del ladro, dell’operaio, del galeotto? Non sembra inventato. Cioè lo è, ma
“scritto”, con un occhio al genere, porno, e uno alla prosodia e poetica. Più
Genet che “Papillon”: il diario della prostituta come il “Diario del ladro” –
il “Santo Genet, commediante e martire” di Sartre. Il racconto non tralascia
nulla del repertorio sessuale, il Krafft-Ebing, aggiornandolo anzi, all’“odore
aspro della negritudine” e al pene ricurvo dei neri, doloroso uncino. E forse è
vero, per minuti particolari. Per esempio “Roma, città aperta”, visto a Monaco,
in una sala gremita. Ma riscatta la pornografia. E la noia. La vita di una
prostituta, con la coda alla porta i giorni di paga, il sabato, il 30-31, non è
varia. Nel racconto sì.
Grisélidis pubblicherà poi altri
nove o dieci libri. Qualcuno anche premiato – “Carnet di ballo di una
cortigiana” sarà premio Humour Noir in Francia nel 1979. Avvinta all’immagine
di attivista della prostituzione in quegli stessi anni 1970, dopo aver scritto
il libro, che data 1972-1973: alla radio, alla televisione, nei libri, nelle
chiese occupate a Parigi e Lione nel 1975, e ai “convegni internazionali” che
naturalmente se ne fecero. Ma narratrice dotata. Nata a Losanna nel 1929, aveva
fatto in tempo a sentire gli ultimi hitleriani minacciare il pericolo nero, dei
“violentatori delle vostre figlie”. Su questo sfondo mentale procede col suo
racconto goloso, tra i liberatori in Germania di colore in Chevrolet.
Cresciuta in Egitto e in Grecia,
studi al Liceo Artistico di Zurigo, Grisélidis fa la Modella all’Accademia, ma
è presto madre di due figli, e a trentadue anni fugge in Germania con l’amante
Bill, un nero americano che ha aiutato a evadere dal manicomio di Ginevra – in
realtà con tutti i crismi dottorali, purché ne liberasse la Svizzera. È
l’inizio del racconto, che sarà di cose vissute e viste. Scappa anche perché
l’assistenza sociale vuole toglierle i due figli che già ha, di padre violento
svanito. L’autobiogafia si svolge tra l’occupazione americana, la ricostruzione
tedesca, avventurosa e tignosa, tra sessuomani invariabilmente deviati, e la
vita confinata ai margini. Tra le cantine del jazz e i piccoli traffici, il
sesso nelle sue peggiori declinazioni subendo ogni notte, mentre i figli
dormono. E ciò malgrado l’amore sessuato con un uomo, con un nero, con costanza
perseguendo, invariabilmente ingannevole e violento. Eccetto, forse, l’ultimo.
Una vita “maledetta”. Nei due sensi,
anche in quello letterario. della bohème nel secondo
Novecento. Nel senso della riuscita di una bohème iperletteraria:
questo è un racconto che si recupera, l’autrice resterà pure marginale, il
libro no. O anche: la sua vita sarà stata il racconto migliore. Se non è Genet in
gonnella, narratrice dell’abiezione più che abietta – si riesce a immaginare
“la vita è bella” di un ladro, non di una prostituta con la coda alla porta, e
i figli nel letto.
Nel 1959, a trent’anni, con due
figli e un polmone in meno, Grisélidis esce di nascosto dal sanatorio a Montana
nel Valais per divertirsi in paese, finendo a letto con uno che le lascia cento
franchi. Ma è già in corrispondenza con Maurice Chappaz, tra altri letterati,
come si vede dalla corrispondenza, che ha curata e lasciata, “Mémoires de
l’inachevé”. Anche qui, qualche segno lascia. Dalla casa in Svizzera, che ha
affittato alla solita ricca americana, per scappare col nero pazzo e sfuggire
all’assistenza sociale che vuole prenderle i figli, risultano scomparsi a un
certo punto “manoscritti e poesie”. Un cliente l’assomiglia a Elizabeth Taylor,
dopo alcuni anni di mestiere infaticabile, tra sberle, pedate e ossa rotte. E
beve già il vino rosso in fresco.
Grisélidis Réal, Il nero è
un colore, Keller, pp. 320 € 17
mercoledì 18 novembre 2020
Allegri, la colpa è della Calabria
Gramellini, leghista honoris causa, non s’informa su chi ha
nominato chi, su Gaudio, sulla Calabria, ma punta il dito, anzi il pugno, a
ombrello: “Prosegue la sfida tra Calabria e Perù”, a chi fa peggio, intende:
https://www.corriere.it/caffe-gramellini/20_novembre_18/calabria-vale-peru-18abcd24-291b-11eb-92be-ccd547aa4d2b.shtml
Gaudio è qualificato, come
ricercatore (H-Index 75) e come amministratore, all’Aquila e alla Sapienza.
Chiunque va in rete lo sa, Gramellini non se ne cura: Gaudio è calabrese e
questo gli basta per insolentire. Non è il solo.
È una sagra di dileggi, nel
“Corriere della sera” oggi, sulla farsa del commissario alla Sanità in Calabria. Ma non contro Conte e l’incredibile
Speranza, che devono decidere il commissario. Dopo (non)
aver deciso contro il virus. Non tempestivamente, non coi modi e i mezzi
giusti. Contro la Calabria.
Cosa non si fa per non dire che
il governo è ridicolo, e affronta il virus malamente. O è il leghismo? Il
leghismo dilaga – lo stesso presidente f.f. della Regione Calabria è leghista,
fervente. Sottotraccia: noi non siamo razzisti, ma la Calabria, proprio….
Ma non c’è solo il giornale di
Milano. Il presidente del consiglio Conte, messo al corrente dell’“alto
profilo” di Gaudio, che tra l’altro ha un inglese parlato e scritto come un
inglese, si esibisce in un: “Mi ha colpito, non sapevo fosse calabrese”. Lui
che, invece, in inglese zoppica, ed è pugliese. Questo è l’altra parte dello
psicodramma, l’odio-di-sé meridionale, una miniera.
La sagra anti-Calabria è
organizzata al “Corriere della sera” da un direttore napoletano. Che esuma per
l’occasione in prima lo specialista anti-Calabria del giornale, l’altrimenti desaparecido Gian Antonio Stella – il
“Corriere della sera” ha uno specialista anti-Calabria. Con la volenterosa
collaborazione degli informatori di Stella, quelli della Calabria “‘ndrangheta
e barzelletta”. E naturalmente del giudice Gratteri di Catanzaro.
Dumas si traveste da Poe
Dumas giallista a Napoli, da
Napoli. In compagnia di Edgar Allan Poe, detective sopraffino. Uno dei tanti feuilleton che Dumas dettava - “col
cappello fra le mani congiunte dietro la schiena, si dava a passeggiar su e giù
fra i tavoli nella camera di redazione e a voce alta, staccando bene le aprole,
detta” (Federico Verdinois, uno dei collaboratori) - per il suo giornale
“L’Indipendente”, da lui fondato e diretto dal 1860 al 1864. Qui assortito
dall’incontro prolungato con Poe, che sarebbe stato suo ospite per alcune
settimane a Parigi nel 1832, presentato da Fenimore Cooper, l’autore de
“L’ultimo dei Mohicani”, il romanziere del momento, e avrebbe “risolto il caso”
– molto alla Sherlock Holmes, ancora di là da venire.
Un caso di assassinio, duplice e bestiale,
un massacro, nella camera chiusa. Ma il giallo più appassionante è raccontato
in appendice da Ugo Cundari, che ha disseppellito il racconto, pubblicato a
puntate, come usava, dal 28 dicembre 1860 all’8 gennaio 1861, e mai ripreso in
volume né analizzato dai critici dello scrittore. Un plagio, di E. A. Poe, dei
“Delitti della rue Morgue”?
Dumas e Poe sono i principi della
querelle sui plagi che ha infettato
l’Ottocento, spiega Cundari nei dettagli, i più sospettati e accusati. Ma, poi,
non si copia sempre? E Dumas, nell’occasione, non fa di Poe il protagonista del
racconto? Con in più la questione: è stato Poe a Parigi nel 1832, come Dumas vorrebbe
– e come “I delitti della rue Morgue”
lascerebbe supporre, prima di Dumas nel 1860.
“Un giallo (storico) nel giallo
(letterario)”, lo dice Cundari. Che dà credito alla scomparsa di Poe fra il
1828 e il 1832, forse a San Pietroburgo, per arruolarsi nella guerra d’indipendenza
dei Greci, da byroniano fervente – Byron
era morto in Grecia, per la Grecia, nel 1824. Una favola inventata da Poe, che
James Russell Lowell avallerà nella celebrazione postuma, ma senza riscontri
possibili: in quegli anni Poe vive a Boston, pubblica la sua prima raccolta di
poesie, byroniana, si arruola nell’esercito, quasi due anni, raggiungendo il grado
di sergente maggiore, fa il concorso per West Point e lo vince, infine abbandona
l’accademia militare e si costituisce una famiglia a Filadelfia, puntando sul
solo lavoro giornalistico-letterario.
La familiarità fra Dumas e Poe
Cundari può dare comunque per accertata, stante la comune appartenenza alla
“setta massonica e rivoluzionaria americana, la «Society of the Cincinnati”»,
di cui faceva parte anche Fenimore Cooper – e Alexander von Humboldt, cui Poe
ha dedicato “Eureka”.
Alexandre Dumas, L’assassinio di rue Saint-Roch, Baldini
Castoldi Dalai, remainders, pp. 111, ril. € 6,45
Un caso di assassinio, duplice e bestiale, un massacro, nella camera chiusa. Ma il giallo più appassionante è raccontato in appendice da Ugo Cundari, che ha disseppellito il racconto, pubblicato a puntate, come usava, dal 28 dicembre 1860 all’8 gennaio 1861, e mai ripreso in volume né analizzato dai critici dello scrittore. Un plagio, di E. A. Poe, dei “Delitti della rue Morgue”?
Dumas e Poe sono i principi della querelle sui plagi che ha infettato l’Ottocento, spiega Cundari nei dettagli, i più sospettati e accusati. Ma, poi, non si copia sempre? E Dumas, nell’occasione, non fa di Poe il protagonista del racconto? Con in più la questione: è stato Poe a Parigi nel 1832, come Dumas vorrebbe – e come “I delitti della rue Morgue” lascerebbe supporre, prima di Dumas nel 1860.
“Un giallo (storico) nel giallo (letterario)”, lo dice Cundari. Che dà credito alla scomparsa di Poe fra il 1828 e il 1832, forse a San Pietroburgo, per arruolarsi nella guerra d’indipendenza dei Greci, da byroniano fervente – Byron era morto in Grecia, per la Grecia, nel 1824. Una favola inventata da Poe, che James Russell Lowell avallerà nella celebrazione postuma, ma senza riscontri possibili: in quegli anni Poe vive a Boston, pubblica la sua prima raccolta di poesie, byroniana, si arruola nell’esercito, quasi due anni, raggiungendo il grado di sergente maggiore, fa il concorso per West Point e lo vince, infine abbandona l’accademia militare e si costituisce una famiglia a Filadelfia, puntando sul solo lavoro giornalistico-letterario.
La familiarità fra Dumas e Poe Cundari può dare comunque per accertata, stante la comune appartenenza alla “setta massonica e rivoluzionaria americana, la «Society of the Cincinnati”», di cui faceva parte anche Fenimore Cooper – e Alexander von Humboldt, cui Poe ha dedicato “Eureka”.
Alexandre Dumas, L’assassinio di rue Saint-Roch, Baldini Castoldi Dalai, remainders, pp. 111, ril. € 6,45
martedì 17 novembre 2020
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (440)
Giuseppe Leuzzi
C’è un Dyonisos Taurokeos. C’è anche,
nell’“Aiace” di Sofocle, e a Andros, nelle Cicladi, una Atena Taurobolos, o
Tauropolos. Non si indaga abbastanza il
toro onnipresente, nella simbologia e nella toponomastica, in Grecia e nella
Magna Grecia, eredità dei Micenei, prima della civiltà greca e quindi della
Magna Grecia – dove pure le tracce sono frequenti e anche vistose.
Il Dizionario Italiano Olivetti elenca Taurina
(s. femm.), taurinense, taurino (agg.m.), taurisanese, tauriscio, taurite,
tauro,taurobiliare, taurobolo, taurocaptasie (sost. femm. pl. – ma di
“taurocaptasie, giochi del toro, in Tessaglia tratta a lungo Evans,
l’architetto di Cnosso, n.d.r.), taurocolato, taurocolico, tauroctonia,
taurocton, taurodesossicolico, taurodontìa.
Il Grand Tour, il viaggio italiano di iniziazione alla storia e
all’arte dei ricchi e nobili europei, escludeve fino a tutto il Settecento la
Magna Grecia e la Sicilia, cioè il Sud: troppo pericoloso. La fama è antica.
Sudismi\sadismi
In un soprassalto d’intelligenza Conte nomina Eugenio Gaudio,
calabrese, medico, ricercatore e manager, commissario alla Sanità in Calabria.
Gaudio rinuncia, o non accetta la nomina. E ha di che. Il “Corriere della sera”
non ha trovato di meglio che dirlo “indagato”: “In Calabria tocca a Gaudio (ma
è indagato)”, a corpo 36.
Gaudio, con un H-index (misura la qualità della ricerca)
elevatissimo, 75, ex preside di Medicina all’Aquila, ex rettore della Sapienza
fino all’altro ieri, uno che sa l’inglese come gli inglesi, per il giornale
milanese è solo “un indagato”. Per la solita faida tra giudici, a Catania: il
Procuratore nuovo contro il Procuratore vecchio, che accusa di avere pilotato
l’assunzione della figlia all’università. Gaudio non c’entra, ammesso che il
fatto criminoso ci sia stato, ma questo non interessa, basta poterlo dire “un
indagato”.
Quello che si dice “un avvertimento”. Che il “Corriere della sera”
fa dare opportunamente dal suo corrispondente in Calabria, Carlo Macrì.
Sulla stessa linea lo stesso giornale si affida a Marco Demarco, ex
direttore del “Corriere del Mezzogiorno”, la sua edizione napoletana, per ironizzare sul primadonnismo dei politici
nella pandemia. Demarco sceneggia De Luca vs.
De Magistris, il presidente della Regione Campania contro il sindaco di
Napoli (non bene: mette in scena De Luca ma non De Magistris, ma questo è un
altro discorso). Niente di più ridicolo, nella tragedia, del presidente della
Regione Lombardia e del suo assessore alla Sanità, traffichini, inconcludenti.
Ma questo si lascia a Crozza – il “Corriere della sera” sarà sempre
dell’opinione del suo segretario di redazione (da Tropea) che a Natale del
1955, al tempo di Mike Bongiorno e “Lascia o raddoppia”, sentenziò: “Se non ne
parliamo noi, non esiste”.
Cupole,
coppole e spesa storica - un’altra storia
L’insouciance del governo
– l’albagia, la supponenza, la disattenzione esibita - sulla Calabria, sulla
sanità e il relativo commissariamento, ha buttato la questione in ridere, per
cui, vedi Crozza e buon numero di quotidiani, la sanità nella regione è al
solito questione di cupole e coppole, mafiose. Mentre il problema è uno solo, e
neanche difficile, che un qualsiasi governo, anche mezzo governo, avrebbe
affrontato e risolto: la spesa storica.
Che la sanità venga garantita in base alla spesa storica è un abuso
e una stupidaggine. Vuol dire che i calabresi, con gran concorso di spese, se
non altro per i viaggi, dovranno continuare a correre, per curarsi, a Roma e a
Milano. Ma così è – è stato per dieci anni e continua a essere. È un aspetto
della ineguaglianza nella distribuzione della spesa pubblica. Non nuova, ma
ultimamente aggravata.
Il concetto di spesa storica è lo zoccolo di qualsiasi
trasferimento pubblico: “quanto hanno avuto l’anno scorso? aggiungiamoci uno
zero virgola”, e la pratica è chiusa. La burocrazia s’acquieta così, altrimenti
dovrebbe lavorare: calcolare, decidere. Ma questo semplicemente significa che
chi più ha più avrà. Che sembra lapalissiano, e lo è: una sciocchezza. E tutti
lo sanno. Compresi i ministri Pd meridionali nel governo a base 5 Stelle,
Boccia, Provenzano (ex Svimez, se non lo sa lui) e Speranza, che però non
cambiano: la sinistra si vuole aralda indefettibile del Mercato.
Su “basi storiche”, la spesa pubblica complessiva annua per servizi
(scuola, sanità, ferrovie, assistenza) e infrastrutture si è così divaricata a
dismisura. Va dai 27.874 euro pro capite della Valle d’Aosta ai 9.761 euro
della Calabria (la spesa pubblica annua in euro pro capite è calcolata da
Eurispes, sui Conti Pubblici Territoriali, come valori medi per il primo
Millennio, gli anni 2000-2017). Prima della Calabria vengono per ultime tutte
le regioni meridionali: Puglia, Sicilia, Campania, Basilicata, Molise,
Sardegna, Abruzzo. In ordine crescente di spesa, ma tutte al disotto
abbondantemente della media nazionale dei trasferimenti pubblici, che è stata
di 16.697 euro.
A seguire la Valle d’Aosta tra
le regioni privilegiate vengono Bolzano, Lombardia, Lazio e Trento, con
oltre 21 mila euro pro capite, Emilia, Friuli e Liguria con oltre 19 mila. Una
bella differenza.
Si
ricicla – senza la ‘ndrangheta?
“Oltre duemila
miliardi” di dollari sono stati riciclati dalle grandi banche, Deutsche,
l’olandese Ing la francese Société Générale (ma l’elenco è lungo: JPMorgan Chase, HSBC, Standard Chartered, Bank of New
York Mellon, American Express, Bank of America, Bank of China, Barclays, China
Investment Corporation, Citibank, Commerzbank, Danske Bank, First Republic
Bank, VEB.RF e Wells Fargo). Negli anni dal 1999 al 2017. Pur sapendo
della provenienza illecita, senza scrupolo.
Non è una novità. Si suppone, si sa, che le banche preferiscono il
denaro sporco, ci guadagnano molto di più (il pizzo…), in commissioni,
custodia, cambio. La novità è che il riciclaggio è documentato, dai FinCen
Files del dipartimento americano del Tesoro, i documenti del Financial Crimes
Enforcement Network del ministero, una sorta di polizia finanziaria. Il sito
americano di indiscrezioni Buzzfeed ne è venuto in possesso, e li ha pubblicati
il 20 settembre, coadiuvato dall’International Consortium of Investigative
Journalists, l’organizzazione dei giornalisti d’inchiesta. Sono oltre 200 mila files, che documentano altrettante
operazioni sospette.
I giornalisti d’inchiesta hanno accertato anche che la
documentazione non ha prodotto nessuna conseguenza - eccetto
un crollo temporaneo dei titoli bancari in Borsa il 21 settembre, il giorno
dopo la pubblicazione (ma la Borsa ha la memoria corta, l’incidente è
dimenticato). Né negli Stati Uniti, che del riciclaggio avevano
cognizione documentata da tempo, né
altrove, in Europa, in America Latina, in Asia: né i governi né le banche hanno
fatto nulla per arginare il riciclaggio. In Europa non c’è nemmeno un organismo
di segnalazione, se non di controllo, alla Bce o altrove (c’è in Italia, alla
Banca d’Italia attraverso l’estinto Ufficio Italiano Cambi, ma può agire solo
in via giudiziaria, cioè in tempi fuori dal tempo).
Ma anche questo si poteva dare per scontato. Il
problema è che questo traffico si svolge senza la ‘ndrangheta. E come è
possibile? I
servizi si devono svegliare, che ne è della Calabria über alles, al comando del mondo? Aisi e Aise, ancora uno sforzo.
Milano
“All’infuori dei polacchi, non c’è nell’intera
Europa gente che abbia, in fatto d’invasioni nemiche, la tremenda esperienza
degli italiani del Nord” – Guido Morselli, “Contro-passato prossimo”, 95.
“La grande pinacoteca di Brera fu fondata dal
viceré Beauharnais, che letteralmente sequestrò alle regioni veneta, lombarda, romagnola,
emiliana e marchigiana molti quadri che ormai erano avviati a rapida rovina”,
F. Zeri, “Dietro l’immagine”, 120. Un francese che non rubava. Ma ben un
francese, per pensare Brera.
“Non appena
i quadri” di Brera “giunsero a Milano, accadde un fatto che, ai nostri
occhi, può sembrare piuttosto bizzarro” , id.: “Una commissione li divise in
tre categorie: categoria A, da esporre, categoria B, da tenere in deposito,
categoria C, da vendere”. Come categoria C, “insieme a opere di nessuna
importanza furono venduti anche capolavori, o pezzi di capolavori”.
Tanto
bizzarra la vendita non è, prima dell’arte viene l’avidità.
“Tra poche ore le ambitissime sneaker della catena
Lidl saranno
finalmente acquistabili anche in Italia a 12,99 euro. Spazio anche a ciabatte,
calzini e t-shirt. Tutto in edizione limitata”. Blurb – gratuito? - gigantesco del “Corriere della sera” al
discount tedesco di periferia: l’indomani è un pandemonio a piazza Corbetta,
mezza Milano si litiga le scarpe e le ciabatte. Indifferente ai contagi e alle
ore di attesa.
C’è anche chi ne ha fatto incetta, delle scarpe-non
scarpe Lidl. Sempre sfidando il virus. All’ora di pranzo le stesse scarpe,
colorate ma non utili, erano in vendita su eBay e altrove a prezzi d’affezione.
I milanesi si facevano pagare la sfida al virus.
In primavera s’infetta di covid mezza
Lombardia: Lodi, Cremona, Mantova, Pavia, Brescia e fino a Bergamo. Questo
novembre, piena di anticorpi la Lombardia padana, è la volta di Varese e Como.
La Lombardia non si priva di nulla, anche a rischi di morire. Ma altrove questa
pratica si direbbe colposa.
leuzzi@antiit.eu
Quando il calcio era Totti
Una celebrazione, purtroppo chiusa
sull’amaro, con la polemica, lunga, incattivita, contro l’allenatore Spalletti
che non voleva più il quarantenne Totti, benché tonico (o non aveva preso
impegno con la società di convincerlo a smettere, per risparmiare sull’ingaggio?). E manca del tutto il Totti delle barzellette, di persona che le ha accettate con grandissima presenza di spirito - e ne ha anche tratto ampio beneficio, generoso, per opere di bene. Resta il piacere di un Totti bel ragazzo biondino, che smarca e segna con
tre\quattro geometrie calcolate, non casuali. Della grande famiglia Totti, fino
ai suoi bambini, con Ilaryi. Degli amici di sempre, tutti puliti - già il tatuaggio è
sospetto. Dei tanti allenatori che hanno dato a Totti e alla Roma, Mazzone,
Zeman, Capello, compreso il primo Spalletti (manca Boskov) - mentre dell’enigmatico
argentino mister Bianchi (bianci),
che voleva Littmanen e non Totti, si dice giusto il giusto. E un calcio
inventivo, frizzante, non lo smosciante possesso palla di questi anni – prendere
palla di fronte al portiere avversario, portarla rinculando fino al proprio
portiere, che poi nel migliore dei casi rinvia con un calcione, fuori campo, o
su una testa avversaria. Con la fedeltà alla squadra, che era – ed è, sarebbe –
il cemento del tifo, dell’orgoglio di bandiera, di un po’ di passione.
Già un com’eravamo del calcio, già
un Totti è così remoto?
Alex Infascelli, Mi chiamo Francesco Totti, Sky
lunedì 16 novembre 2020
Secondi pensieri - 434
zeulig
Ascetismo – “Dopo
l’ascetismo contro la carne, abbiamo l’ascetismo che è fobia dell’intelletto,
che loda la stupidità come «semplicità», il culto della naiveté”, E.Pound, “Medievalismo” (nel saggio “Cavalcanti”, nella
raccolta “Make it new”). Come forma della conoscenza è restrittiva, e quasi castrante,
come un accecarsi.
Bellezza - “Καλον quasi καλουν” la dice Coleridge,
“Principles of Genial Criticism”, 1814: la bellezza sta in sé, è qualcosa di
oggettivo, ma connaturale anche alla condizione umana, un richiamo dell’anima. Dove
Coleridge svolge l’argomento kantiano della soggettività del gusto, in dialogo
fra Milton e un puritano, che il poeta non riesce a convincere, finendo allora
per decidere, dopo tante argomentazioni andate a vuoto su un concetto oggettivo della bellezza, che essa è una
condizione autonoma, in grado di attirare le menti umane - sulla traccia del “Cratilo”
di Platone, dice Pound (“Dante”, a commento del canto XXIII del “Paradiso”), ma
più probabilmente di Plotino: “Come la luce all’occhio, così è la bellezza per
la mente. Che non può che accettare ogni cosa che percepisce come pre-configurato
alle sua facoltà vitali. Per questo i Greci chiamano un bell’oggetto καλον quasi καλουν, cioè che si appella
all’anima, che lo riceve all’istante e lo apprezza, come qualcosa di connaturato”.
Heidegger - Lo scandalo non è l’errore.
O la furbizia, come diceva Arendt (“Heidegger è una volpe, che si scelta una
trappola come casa”), di chi presumeva un nazismo altro da Hitler. L’errore lo
commise Pound, che “per seguire certe sue utopie estremistiche sulla necessità
di eliminare l’usura dal mondo perché l’arte possa trovarvi spazio…., cadde nella
trappola dell’ideologia più folle collaborando con il fascismo mussoliniano”
(Corrado Bologna, intr. a “Ezra Pound. Dante”), propagandista in guerra contro
il suo stesso paese. O Hamsun, per l’attrazione pangermanica, nordica,
eddica, della natura lavacro. Di Heidegger fa dubitare il silenzio, lungo,
polemico, sul passato, l’ossessione, ancorché blanda, dell’ebraismo, che ebrei
di qualità suoi seguaci sconcertò, Celan, Lévinas e una lunga serie di
filosofi, la stessa ubbia, a suo tempo (discorso del Rettorato, 1934) e forse
dopo, per decenni dopo la guerra, di essere stato miglior nazista di Hitler. La
costanza, seppure nel riserbo. L’occhio furbo, mai addolorato. E una
programmazione dell’opera omnia nel tempo nemmeno tanto riservata. Un filosofo
politico, seppure con i silenzi invece che con le parole.
Ritracciare il nazismo,
qualcosa del nazismo, in Heidegger non è occupazione banale o scandalistica. È
– avrebbe dovuto essere – opera di storici. Ma in qualche modo la traccia va
approfondita. Lo scandalo è – sarebbe - se qualcosa del nazismo persuade nel
profondo, resta al fondo.
Kitsch – Termine oggi in
disuso, ma sempre di accezione sbagliata, Zeri rilevava nel 1985, nelle lezioni
milanesi ora in “Dietro l’immagine”: kitsch
non è la cosa, il manufatto artistico, ma il modo di vederle la cosa.
Però è anche il manufatto: un modo di rispondere al gusto del
cliente.
Male – Metastasizza in
varie forme, da varie origini. Ma spesso dal bene, dalla buona coscienza, la supposizione del bene. Metastasizza specie
ora, in un mondo che pure si vuole governato dal bene – la democrazia, i diritti, il politicamente corretto.
Ciò è evidente nella questione sociale. E anche nella questione
politica. Del fascismo, che è nato, si è innestato, a forme estreme di democrazia,
in Italia, in Spagna, in Germania. E anche in norme non estreme, ma perduranti:
della coscienza superiore del bene, una sorta di beghinaggio del bene. Del bene
ipostatizzato, per se stesso. È, in forme non estreme, il trumpismo a fronte di
una coscienza liberal intollerante.
Piena cioè di sé, non critica, non autocritica. Del protezionismo contro una
globalizzazione invasiva senza anticorpi. La stessa situazione di guerra civile
strisciante, endemica, in America. Dal tempo di Nixon e la guerra del Vietnam.
Che non era colpa di Nixon, ma della fazione politica contro la quale Nixon era
stato eletto. Dell’ordine che produce il disordine. Che si eleva a buona
coscienza, la difesa trasformando in ritorsione. La stasis di Agamben - la litigiosità, la guerra civile - come
paradigma politico.
Il trumpismo – l’identificazione di una buona metà degli americani in
Trump - è stato rafforzato dall’opposizione. Specie dai media, che non sono andati
oltre, nella contestazione, la propria superiorità morale, il disprezzo, l’insulto.
Una contestazione costante, ripetitiva, ultimativa, per quattro lunghi
anni, che ha moltiplicato i voti per Trump, e soprattutto li ha incoraggiati,
li ha sdoganati nella ragion d’essere, dalle paure, dal complesso
d’inferiorità.
Memoria – La Ley de
Memòria Historica voluta dal governo socialista di Zapatero nel 2007 per la
cancellazione della memoria franchista dalla Spagna ora viene applicata anche alla
memoria repubblicana: strade e piazze dedicate a Largo Cabalero e Indalecio
Prieto – altri seguiranno, non c’è dubbio – vengono ridenominate, monumenti
abbattuti. La legge Zapatero fu voluta contro i segni “die esaltazione personale
o collettiva della sollevazione militare, della guerra civile, della repressione
e della dittatura”. Ma ha riacceso la guerra civile, seppure senza armi, ogni
schieramento rimproverando all’altro la violenza – la prima mossa, la prima
colpa.
La memoria storica non può essere selettiva. La cancellazione della
memoria per legge, a scopo democratico, quanto aiuta la democrazia? Moltiplicando
il risentimento offusca semmai la democrazia e acuisce le divisioni - la democrazia
ha bisogno comunque del concetto base della società romana, l’“idem sentire de re publica”.
Overbeck - Franz
Overbeck, per il quale Nietzsche ebbe l’ultimo segno di ragione che si ricordi,
è quello che era corso a Torino per internarlo a Jena. Egli pure professore a
Basilea neo laureato, con una tesi su sant’Ippolito di Roma, di cui non ha
capito nulla, del martire, primo antipapa, salvatore dei frammenti di Eraclito
- l’ateo Overbeck insegnava la teologia. Ma le falsità di Elisabeth Overbeck
denunciò con coraggio, ancora in tarda
età e in cattiva salute, sfidando la temibile sorella, e ha salvato Nietzsche.
Tanto
migliore l’Overbeck pittore di Italia e
Germania, Friedrich, lontana parentela anseatica, della migliore famiglia
di Lubecca, figlio del borgomastro, senatore, canonico, giurista e poeta
Christian, pronipote di Johann, il corettore del Katharineum, il ginnasio che
la Riforma volle nel 1531 per lo studio del latino, di cui l’artista fu allievo
come poi i fratelli Mann e Theodor Storm. Friedrich lasciò Lubecca a ventun’anni
nel 1810 per Roma, la città laica di Napoleone, dove fu iniziatore dei nazareni
e buon cattolico convertito, e nella quale visse i restanti 59 anni: il genio
non segue i buoni propositi.
Storia – “C’erano i cosiddetti
Storicisti a quei tempi e insegnavano, ‘bianchi’ o ‘rossi’ che fossero, che non
esiste fatalità, non esiste caso ma solo la Storia, sempre sacra, quand’anche
sia dialettica; e provvidenziale. Ha i suoi Decreti solenni, ma anche le sue
‘Astuzie’, e cioè si fa furba, restando sempre sacra, ricorre a trucchi e
gherminelle per rimediare alle proprie sviste e malefatte”, Guido Morselli, “Contropassato
prossimo”. Per “quei tempi” s’intende gli anni 1910, gli anni del romanzo, ma
potevano anche essere quelli della scrittura del romanzo, gli anni 1960.
zeulig@antiit.eu
Ma la romanità non è bonaria
Molinari si promuove con un
contributo “storico” a Gigi Proietti, pieno di cose – interviste, ricordi, pezzi forti, estratti – e di umori. All’insegna della romanità, “Mandrake a
Roma” è il sottotitolo. Ma di una romanità bonaria. E questo è in sintonia con
Proietti ma non con la romanità - Proietti del resto, benché nato a Roma, e a via Giulia, era tosco-umbro di famiglia, con la quale ha vissuto a lungo da immigrato, provvisorio, cambiando residenza in continuazione, più che da romano-romano. Petrolini lo era, scettico per
non essere violento, e comunque cinico, ma di Petrolini Proietti prendeva solo
il porgere, nelle imitazioni.
Si confonde la romanità con la
bonarietà. Mentre è armata. Proietti per primo lo sapeva che sempre si è
difeso – muore con l’aureola, ma quanto ha faticato. Fino a Petrolini – fino a
Mussolini, che mezza Trastevere mandò al confino sigillandone i covi, una
deportazione, seppure in costosi condomini popolari d’architetto, ai Quattro
Venti e a Donna Olimpia – il romano romanesco sapeva di coltello facile. Molinari
apre la golosa compilazione celebrando l’apologo del cavaliere bianco e del
cavaliere nero, ma appunto: il cavaliere nero non è bonario.
Stefano Costantini-Paola Ermini (a cura di), Gigi
Proietti,
“la Repubblica”, pp. 144, gratuito col quotidiano
domenica 15 novembre 2020
Letture - 439
letterautore
Bernini – Fu anche pasticciere – architetto di dolci barocchi, per
grandi banchetti. Era l’uso presentare torte fantasiose, di forme e colori, che
adornavano il pasto, prima di essere consumate. Di Bernini la pratica è
attestata da Zeri in “Dietro l’immagine”, 245: “Fra le più straordinarie
produzioni di Gian Lorenzo Bernini vanno annoverati alcuni dolci colossali, che
venivano prima esposti e poi mangiati ne grandi pranzi dell’aristocrazia
pontificia. Erano strutture di panna montata, di gelatina, di biscotti”
Dante – Il
genio della metafora lo dice Pound. Che della metafora fa “il segno del genio”.
Per l’autorità di Aristotele: “Poiché l’uso della metafora proviene da una
rapida percezione delle relazioni, essa è segno distintivo del genio”.
È un poeta del New England, Hugh Kenner, “Dante tra Pound
e Eliot” – lo era, quando c’era ancora in America il New England: “Un delle
prime scoperte americane fu Dante. E quando il giovane Eliot, poco prima di
iniziare ‘Prufrock’, si dedicò allo studio della ‘Divina Commedia’ senza
l’aiuto di una grammatica italiana, avvalendosi soltanto per le parole on
familiari di una traduzione in prosa e
recitando passi a memoria a letto o in treno («Dio solo sa che cosa ne sarebbe
uscito fuori se io avessi recitato ad alta voce!», ha in seguito dichiarato),
egli andava in questo modo impadronendosi di quella parte della tradizione
costituita da Dante, così come si andava
facendo ad Harvard da circa un secolo. Fin dal 1836, infatti, Longfellow, Lowell,
Norton a Grandgent avevano a turno tenuto un corso che in sostanza consisteva
in una ricca e approfondita lettura di Dante. Il principio comune era di
leggere i testi danteschi, non di impartire lezioni su di essi, nella
convinzione che soltanto attraverso la lettura, er quanto imperfetta, un grande
poeta poteva essere assimilato dalla sensibilità di un giovane ed esercitare
quindi la sua zione formativa”.
Dante arabo?
“L’Inferno lo abbiamo trovato in Pindaro e in Platone”, Ezra Pound spiegava già
nel 1910, “Lo spirito romanzo” (“Lingua toscana”), “il Cielo, in qualche modo,
in Platone”. Non solo, c’era anche molta virtuosità nei giovani dello stil
novo: “I poeti toscani sgambettano allegramente per il complicato universo
tomista, con una precisione che stupisce chi non sia abituato a qualcosa di più
complesso della nostra civiltà moderna”.
Ma era anche
normale rapportarsi con la cultura araba, era la cultura del tempo, continua lo
stesso Pound a proposito di Guido Cavalcanti, a commento del poemetto
“filosofico” “Donna mi prega”: “Dobbiamo supporre, come sfondo ad ogni serio
pensiero nel tempo di Guido”, e di Dante, “il pensiero arabo: le sfere
concentriche dei cieli, l’itinerario dell’anima verso Dio di Ibn Bahya, le
specificazioni di Averroé sui gradi di comprensione”. Più Grosseteste, per il
fondamentale trattato sulla luce, “De Luce et de Incohatione Formarum”,
fondamentale per il “Paradiso”. E “Grosseteste deriva dai trattati arabi sulla
prospettiva”.
Etruschi - Sono
Etruschi i Tirreni secondo Plutarco (“Virtù delle donne”, 27) e i Pelasgi (che
invece sarebbe “un popolo originario del Nord della Grecia”, ib., 29). Plutarco
li vuole anche padroni di Creta. Dove poterono considerarsi ateniesi per parte
di madre, essi stessi (ex) coloni di Sparta. Dove erano intervenuti, cercando
fortuna per mare, prima contro, e poi a favore degli iloti.
Gioconda – È misteriosa
perché è sporca – F. Zeri, “Dietro l’immagine”, 154: “Un’immensa letteratura
parla del mistero, della strana atmosfera sfumata di questo strano capolavoro
di Leonardo. Tutte cose che in realtà non esistono e sono dovute solo alle innumerevoli mani di vernice ed
allo sporco che stanno sulla superficie del quadro”.
Ed è meglio così, spiega Zeri: il quadro “è in perfetto stato” e
quindi ripulibile senza problemi, ma “la Gioconda” ormai è quella. Ripulita
sarebbe un altro quadro, “il mistero si vanificherebbe”, che fa parte del
capolavoro – “esiste ormai una tradizione relativa a questo tipo di capolavori
per cui è opinione comune che non vadano toccati proprio perché sono entrati ormai nella
nostra cultura sotto quell’aspetto e sotto quella veste”.
Medio Evo – Diventa
“medievale”, arroccato un una religiosità rocciosa e mistica, compatto, anche
socialmente benché feudale, alla caduta con Napoleone della sovversione. Si
riconduce il passato in atmosfera congresso di Vienna, idealizzando i “secoli
bui” come un’epoca ideale dell’unità, dottrinaria, culturale, sociale. Mentre è
stata un’epoca ridondante di sovversioni, soprattutto in campo religioso (le
eresie), e di movimenti millenaristici, di rinascita sociale.
Oro – Tra fine Settecento
e primo Ottocento si faceva incetta di quadri nelle case e le chiese di paese,
remote, per bruciarli e ricavarne oro:
“Un contenitore di pietra o di metallo raccoglieva l’oro fluido che
usciva dalle cornici e dai dipinti” – Federico Zeri, “Dietro l’immagine”,
94. Si bruciavano per questo anche
vestiti e arazzi, per recuperare i fili d’oro che li impreziosivano: gli
arazzi, “soprattutto i più sontuosi, tessuti con fili d’argento e anche d’oro,
venivano poi bruciati per recuperare il metallo e riutilizzarlo. Per questo
dell’enorme produzione di arazzi abbiamo una grande quantità di documenti, ma
un numero molto limitato di oggetti”.
Padre – Il revival si
prolunga nel Millennio, con Régis Jauffret che riscopre il papà – dopo
settant’anni, dopo Annie Ernaux e Onfray. Un revival che ha avuto espressioni
importanti, in Handke, Philip Roth, Camus, Richard Ford. Dopo la lunga eclisse,
anzi si può dire l’assenza: quella paterna è una figura recente nelle lettere.
Pci – Rifiutando la
pubblicazione de “Il Comunista” presso Einaudi, di cui era direttore
editoriale, Calvino così scriveva nel 1965 a Morselli: “Dove ogni accento di
verità si perde è quando ci si trova all’interno del partito comunista. Lo
lasci dire a me che quel mondo lo conosco, credo proprio di poter dire, a tutti
i livelli. Né le parole, né gli atteggiamenti, né le posizioni psicologiche
sono vere”.
Raffaello – L’artista più
copiato. Della “Madonna del popolo”, commissionata da Giulio II a Raffaello
appena arrivato a Roma e originariamente a Santa Maria del Popolo, dove “era
difficilmente visibile, si conoscono almeno novanta copie, che hanno fatto i
giri più strani e si trovano nei luoghi più impensati. Ce n’è una addirittura
in un antico monastero russo, oltre gli Urali. Altre si trovano, adattate a
composizioni con più figure, nelle Fiandre, in Francia, in Spagna” – Federico
Zeri, “Dietro l’immagine”, 95. È peraltro un quadro di cui non si trova
l’originale.
Spagna – È stata scoperta, in letteratura e nelle arti, con la Restaurazione postnapoleonica in Francia. Per l’aura romantica che si era acquisita con la resistenza all’occupazione. E per il gran numero di manufatti artistici che erano stati rubati dalle chiede e dalle residenze private, ora messi in commercio. Prima non si sapeva in Europa di Velázquez, Murillo, Zurbarán, El Greco. E non erano stati tradotti, né altrimenti fruibili, il “Don Chisciotte”, la “Celestina” o altre opere del gran teatro, Góngora, il “Lazarillo de Tormes”.
Weimar – “Una piccola e sudicia città della lontana Turingia”, al tempo di Goethe – Peter Stein, “La Lettura”, 15 novembre.
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