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lunedì 25 gennaio 2021

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (447)

Giuseppe Leuzzi
 
Tabucchi evoca in “Viaggi e altri viaggi”, 191, il nostos  furfantesco di D’Annunzio: “«Perché non son io co’ miei pastori?», al quale rispose impareggiabilmente Leo Longanesi: «Perché alloggi al Grand Hotel di Montecarlo»”.

Cercando di spiegarsi l’atipicità della letteratura greca, V. Woolf (“Non sapere il greco”) si rifà all’Italia, al Sud. Per capire, spiega, bisogna cambiare paesaggio: “Affilare il contorno delle colline. Vagheggiare una bellezza di pietra e terra, piuttosto che di boschi e vegetazione”. E capire che col sole caldo, per molti mesi, è un’altra vita: “Si sposta fuori dalle abitazioni, con il risultato, noto a chiunque visiti l’Italia, che i piccoli fatti vengono discussi in strada, piuttosto che in casa, e diventano teatrali; le persone sono loquaci: sfoggiano quel tono irrisorio, quella giovialità, quella scioltezza di spirito e di lingua peculiari alle razze del Sud”.

Giallo etnico

Rileggendolo in edicola, Sciascia si scopre autore di gialli etnici. Tornando alle prime letture dei gialli (noir in realtà, storie di violenza, non il whodunit, il chi è il colpevole britannico), attorno al 1970, quelli di Sciascia con quelli classici, di Chandler e di Hammett, il contrasto risaltava già allora forte: quelli di Sciascia sono – erano – “siciliani”, per una caratterizzazione accentuata, quasi eccessiva (caricaturale), quelli americani no, anche quando il delinquente era nero, o irlandese, o ebreo. La Sicilia della “sicilitudine” affliggendo di un’identità rabbiosamente identitaria, e naturalmente dissipata, perdente – “lu munnu va n’arreri” di Domenico Tempio.
La cosa si è ripresentata con la Sicilia di Camilleri, che è invece come tutto il mondo – come la Palermo di Piazzese. Mentre si sviluppa il tentativo di mobilitare come fattore etnico la calabresità – in corso nel Millennio, dopo un primo rapporto dei servizi di intelligence una dozzina d’anni fa, costantemente poi ripreso, da ultimo dalla Dia nel Rapporto 2020, che vuole la ‘ndrangheta supermafia mondiale, dalla Russia alla Terra del Fuoco.
Non c’è mai stato un giallo etnico a Napoli, che pure pullula di narrazioni etniche. De Giovanni, per esempio, se ne guarda - pur cattivo con la sua città, per l’inciviltà, la sporcizia, il disordine, l’improntitudine, la supponenza. La serie “Gomorra” e Saviano sembrerebbero dire il contrario, ma non biasimano, fanno “spettacolo”, esibizione di violenza, già nel linguaggio.
Dei film di mafia da ultimo era stanco lo stesso Sciascia. Fino a negare, se non era civetteria, di avere visto i film tratti dalle sue opere. A un intervistatore che glielo chiedeva nel 1987, Sebastiano Gesù, degli Incontri con il cinema di Acicatena, premetteva: “Sa che io non vedo i film sulla mafia, non li ho mai visti”. E all’insistente “avrà visto almeno i film tratti dalle sue opere”, ribadiva secco: “Nemmeno quelli. S’immagini che «Il giorno della civetta» l’ho visto due anni dopo la sua uscita sul circuito commerciale. L’ho visto a Palermo, al cineforum Casaprofessa, dai salesiani. Sono stato invitato, sono venuti addirittura a prendermi da casa e così ho avuto modo di vedere il film”. Concludendo sarcastico: “Eppure era un buon film” (la risposta a S. Gesù è ora in “Questo non è un racconto”, p. 155) 
 
I pugnalatori
L’Italia è stata subito divisa tra Nord e Sud anche in America, quando l’emigrazione vi si allargò. Dalla delinquenza, piccola e grande. Tra fine Ottocento e la prima metà del Novecento, con radici aeree ancora negli anni di Kennedy, è - fu - napoletana, siciliana, calabrese. A danno, in principio e per almeno tre decadi, soprattuto degli emigrati, operai, artigiani, piccoli commercianti, taglieggiati nelle paghe e nelle rimesse, con crudeltà.
Lo è – lo è stata - nell’ordine. Oggi della delinquenza napoletana non si parla più, perché la “napoletanità” non va, non seduce – c’è rimasto solo Saviano. Di quella siciliana, invadentissima da Petrosino a Sciascia e al “Padrino”, si parla un po’ meno: la “sicilitudine” ha stancato e comunque è fuori quadro, effetto Montabano - e i vigneti passati in mano ai veneti, che sanno come fare (anche se con fortune alterne, vedi il Palermo calcio) e i vini siciliani hanno portato alla pari con i piemontesi, i veneti, i toscani? Mentre si ingigantisce la ‘ndrangheta - o le ‘ndranghete, il malaffare è piuttosto anarcoide. A dismisura: non c’è altro orizzonte, in Calabria e fuori. 
Eccellevano nell’uso dello “stiletto” i delinquenti meridionali a New York, del pugnale. Uno di essi, Francesco “Frank” Filastò, fondò pure una Scuola di Scherma, dove si insegnava ai “picciotti” l’uso dello “stiletto”. Come “I pugnalatori”, il romanzo storico che Sciascia scrisse su certi documenti (piemontesi?) che Lorenzo Mondo gli aveva trasmessi, una non altrimenti nota “setta” che agiva a Palermo dopo l’unità. Quelli d’America erano invece addetti al “pizzo” che ogni italiano doveva pagare, manovale, artigiano, commerciante, dapprima, e poi al pizzo insieme con la prostituzione, l’azzardo, e l’alcol.
Della fama di pugnalatori, nell’Italia divisa in America tra Nord e Sud, era stanco pure Sciascia, nel “trattamento” cinematografico del 1972 per Sergio Leone, “C’era una volta l’America” (ora in “Questo non è un racconto”, p. 5): “Essere siciliano consiste nell’avere un coltello, nel maneggiarlo, nel farsene ultima ratio contro gli altri. L’America ha relegato i siciliani alla fama di accoltellatori”. Era stanco degli stereotipi in genere sulla Sicilia, specie al cinema. Criticando nel 1964 il film di Germi “Sedotta e abbandonata”,  se ne dice infastidito: dà “della  Sicilia, almeno della Sicilia che io conosco, un ragguaglio piuttosto arretrato e, in qualche tratto, perfino immaginato”.
 
Le vigne terrazzate, dalla Costa Viola al Giura
Viaggiando nell’inverno del 1981 da Lione verso Losanna Sciascia (v. “Questo non è un racconto”, p.94) riflette: “Sempre la visione delle vigne ben coltivate che si arrampicano alla montagna”, in cerca d’insolazione, “mi porta a considerare quanto di precarietà, di spreco, di insensatezza presieda invece alle cose italiane”. Confrontava gli anfratti del Giura, è probabile, inconsciamente con i terrazzamenti di zibibbo che nei suoi primi viaggi in treno sul continente avrà visto rifulgere dorati tra Scilla e Bagnara, poi abbandonati, perché non si potevano lavorare con le macchine, e dilavati – come si vedono oggi, una miniera ferrovecchio. In Svizzera, nota Sciascia, “sono delle strisce di terra ad inclinazioni quasi impossibili, ma contenute da pazienti e solidi terrazzamenti; lavorato e nettissimo il suolo, curatissime le piante” – erano così sulla Costa Viola. E rileva: “Certo, non vi si va con il trattore, tutto è a fatica d’uomo”, anche in Svizzera è come “Lenin diceva: «La terra è bassa», per dire quanto greve la fatica del contadino”. Con un facile sospetto: “Con ogni probabilità, a lavorarla sono quegli stessi che alla terra bassa della Sicilia o della Calabria sono fuggiti”.
Conclusione: “Così, nell’Italia meridionale non ci sono che trattori, quando ci sono; e in Svizzera i contadini”.
 
Calabria
Il mite Augias le retate del giudice Gratteri lo mandano fuori onda. In tv da Rai 3 si lascia andare:  “La Calabria è una terra perduta”, “ho il sentimento che la Calabria sia irrecuperabile”. Richiesto di scuse a mente fredda, dà questa spiegazione: l’opinione se l’è formata all’ultimo voto regionale, che non ha premiato il candidato del Pd. Cioè, conferma che la bocciatura del candidato Pd era giusta?
Il problema della Calabria è che anche i suoi critici non sono granché?
 
Easyjet per propagandare il suo volo su Lamezia paga questa pubblicità: “La Calabria, terra di mafia e terremoti”. Piove sul bagnato, si dice. Ma che pubblicità è - a parte la cattiveria: a tagliarseli?
Per il copywriter dell’agenzia cui Easyjet ha confidato la campagna pubblicitaria la Calabria migliore è mafia e terremoti?
 
Fu chiamato “Calabria” un piroscafo della compagnia scozzese Anchor Line, varato il 9 aprile 1901 per la rotta transatlantica - viaggio inaugurale Livorno-Napoli-New York il 23 maggio.  L’emigrazione dalla Calabria, restia nel secondo Ottocento, quando era invece di massa nella valle padana, in Liguria e nel Triveneto, diventava consistente (ammonterà a circa 50 mila espatri nel 1905, per due terzi verso il Nord America) e la Anchor puntava a conquistarsela.
Le immagini del “Calabria” illustrano il sito storico della Anchor Line, e sono esposte a Liverpool, al Meyerside Maritime Museum.
 
Il Messico ha fatto un’industria del chili, il peperoncino – varietà, sapori, usi. Tabucchi ne fa un elenco dettagliato in “Viaggi e altri viaggi”: il chile poblano, il secoa, il dulce, il guëro , il serrano, il jalapeño, il chile de árbol – “potrei continuare”, dice lo scrittore, ma si ferma a quello che chiama il pontifex maximus, il chile habanero. La Calabria non distingue, basta che sia piccante.
Incapacità non è, c’è ingegno. Forse il bisogno non è come dicono le statistiche.
 
Quarantenne agli arresti domiciliari a Crotone scappa di casa e si consegna ai vicini Carabinieri: “Preferisco tornare in prigione che subire mia moglie”. Lo condannano per questo in Calabria a due mesi, per evasione. Ma la Cassazione a Roma lo assolve.
Poi si dice che in Calabria non c’è giustizia.
 
Andrea da Barberino, primo Quattrocento, grande divulgatore di testi francesi, di testi cavallereschi, del ciclo carolingio e delle tresche “materia di Bretagna”, “I reali di Francia”, “Il Guerrin Meschino”, ha anche un poema “Aspramonte” o “La canzone d’Aspromonte”. Ma nessuno se ne occupa, non in Calabria, non della “Canzone d’Aspromonte”.
 
Il nostos vi si pratica a rovescio. Répaci, che ci tornò fisicamente, tenendo aperta una casa rupestre e romantica, su un costone sassoso bonificato con dispendio di soldi e di energie, non vi trovò estri creativi. Alvaro, che se ne tenne sempre lontano, già dalle medie, ne originò molti umori – e quelli, alla rilettura, più duraturi.
Bisogna “tornare” alle origini, ma a distanza, il radicamento va bene con juicio?
 
Il brigante Musolino a processo a Lucca ammaliò tutti, anche Pascoli e D’Annunzio, e Cesare Lumbroso, che pure lo considerava “un criminale nato”. “Musolino Mania!” poteva intitolare un giornale loale americano, “Uthica Herald Dispatch”, il 7 agosto 1902 – cit. in Nicaso-Barillà-Amaddeo, “Quando la ‘ndrangheta scoprì l’America”.   
leuzzi@antiit.eu

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