Giuseppe Leuzzi
Tabucchi
evoca in “Viaggi e altri viaggi”, 191, il nostos
furfantesco di D’Annunzio: “«Perché
non son io co’ miei pastori?», al quale rispose impareggiabilmente Leo Longanesi:
«Perché alloggi al Grand Hotel di Montecarlo»”.
Cercando di spiegarsi l’atipicità della
letteratura greca, V. Woolf (“Non sapere il greco”) si rifà all’Italia, al Sud.
Per capire, spiega, bisogna cambiare paesaggio: “Affilare
il contorno delle colline. Vagheggiare una bellezza di pietra e terra,
piuttosto che di boschi e vegetazione”. E capire che col sole caldo, per molti
mesi, è un’altra vita: “Si sposta fuori dalle abitazioni, con il risultato,
noto a chiunque visiti l’Italia, che i piccoli fatti vengono discussi in
strada, piuttosto che in casa, e diventano teatrali; le persone sono loquaci:
sfoggiano quel tono irrisorio, quella giovialità, quella scioltezza di spirito
e di lingua peculiari alle razze del Sud”.
Giallo etnico
Rileggendolo
in edicola, Sciascia si scopre autore di gialli etnici. Tornando alle prime
letture dei gialli (noir in realtà,
storie di violenza, non il whodunit,
il chi è il colpevole britannico), attorno al 1970, quelli di Sciascia con
quelli classici, di Chandler e di Hammett, il contrasto risaltava già allora forte: quelli
di Sciascia sono – erano – “siciliani”, per una caratterizzazione accentuata,
quasi eccessiva (caricaturale), quelli americani no, anche quando il
delinquente era nero, o irlandese, o ebreo. La Sicilia della “sicilitudine”
affliggendo di un’identità rabbiosamente identitaria, e naturalmente dissipata,
perdente – “lu munnu va n’arreri” di Domenico Tempio.
La
cosa si è ripresentata con la Sicilia di Camilleri, che è invece come tutto il
mondo – come la Palermo di Piazzese. Mentre si sviluppa il tentativo di
mobilitare come fattore etnico la calabresità – in corso nel Millennio, dopo un
primo rapporto dei servizi di intelligence
una dozzina d’anni fa, costantemente poi ripreso, da ultimo dalla Dia nel
Rapporto 2020, che vuole la ‘ndrangheta supermafia mondiale, dalla Russia alla
Terra del Fuoco.
Non
c’è mai stato un giallo etnico a Napoli, che pure pullula di narrazioni etniche.
De Giovanni, per esempio, se ne guarda - pur cattivo con la sua città, per l’inciviltà,
la sporcizia, il disordine, l’improntitudine, la supponenza. La serie “Gomorra”
e Saviano sembrerebbero dire il contrario, ma non biasimano, fanno “spettacolo”,
esibizione di violenza, già nel linguaggio.
Dei
film di mafia da ultimo era stanco lo stesso Sciascia. Fino a negare, se non
era civetteria, di avere visto i film tratti dalle sue opere. A un
intervistatore che glielo chiedeva nel 1987, Sebastiano Gesù, degli Incontri
con il cinema di Acicatena, premetteva: “Sa che io non vedo i film sulla mafia,
non li ho mai visti”. E all’insistente “avrà visto almeno i film tratti dalle
sue opere”, ribadiva secco: “Nemmeno quelli. S’immagini che «Il giorno della civetta» l’ho visto due anni dopo la sua uscita sul circuito commerciale. L’ho
visto a Palermo, al cineforum Casaprofessa, dai salesiani. Sono stato invitato,
sono venuti addirittura a prendermi da casa e così ho avuto modo di vedere il
film”. Concludendo sarcastico: “Eppure era un buon film” (la risposta a S. Gesù è ora in “Questo non è
un racconto”, p. 155)
I pugnalatori
L’Italia
è stata subito divisa tra Nord e Sud anche in America, quando l’emigrazione vi
si allargò. Dalla delinquenza, piccola e grande. Tra fine Ottocento e la prima
metà del Novecento, con radici aeree ancora negli anni di Kennedy, è - fu - napoletana,
siciliana, calabrese. A danno, in principio e per almeno tre decadi, soprattuto
degli emigrati, operai, artigiani, piccoli commercianti, taglieggiati nelle
paghe e nelle rimesse, con crudeltà.
Lo
è – lo è stata - nell’ordine. Oggi della delinquenza napoletana non si parla
più, perché la “napoletanità” non va, non seduce – c’è rimasto solo Saviano. Di
quella siciliana, invadentissima da Petrosino a Sciascia e al “Padrino”, si
parla un po’ meno: la “sicilitudine” ha stancato e comunque è fuori quadro,
effetto Montabano - e i vigneti passati in mano ai veneti, che sanno come fare
(anche se con fortune alterne, vedi il Palermo calcio) e i vini siciliani hanno
portato alla pari con i piemontesi, i veneti, i toscani? Mentre si ingigantisce
la ‘ndrangheta - o le ‘ndranghete, il malaffare è piuttosto anarcoide. A
dismisura: non c’è altro orizzonte, in Calabria e fuori.
Eccellevano
nell’uso dello “stiletto” i delinquenti meridionali a New York, del pugnale.
Uno di essi, Francesco “Frank” Filastò, fondò pure una Scuola di Scherma, dove
si insegnava ai “picciotti” l’uso dello “stiletto”. Come “I pugnalatori”, il romanzo
storico che Sciascia scrisse su certi documenti (piemontesi?) che Lorenzo Mondo
gli aveva trasmessi, una non altrimenti nota “setta” che agiva a Palermo dopo
l’unità. Quelli d’America erano invece addetti al “pizzo” che ogni italiano
doveva pagare, manovale, artigiano, commerciante, dapprima, e poi al pizzo
insieme con la prostituzione, l’azzardo, e l’alcol.
Della
fama di pugnalatori, nell’Italia divisa in America tra Nord e Sud, era stanco pure Sciascia, nel “trattamento” cinematografico del 1972 per Sergio Leone, “C’era
una volta l’America” (ora in “Questo non è un racconto”, p. 5): “Essere
siciliano consiste nell’avere un coltello, nel maneggiarlo, nel farsene ultima ratio contro gli altri. L’America
ha relegato i siciliani alla fama di accoltellatori”. Era stanco degli stereotipi
in genere sulla Sicilia, specie al cinema. Criticando nel 1964 il film di Germi
“Sedotta e abbandonata”, se ne dice infastidito:
dà “della Sicilia, almeno della Sicilia
che io conosco, un ragguaglio piuttosto arretrato e, in qualche tratto, perfino
immaginato”.
Le vigne terrazzate,
dalla Costa Viola al Giura
Viaggiando
nell’inverno del 1981 da Lione verso Losanna Sciascia (v. “Questo non è un
racconto”, p.94) riflette: “Sempre la visione delle vigne ben coltivate che si
arrampicano alla montagna”, in cerca d’insolazione, “mi porta a considerare
quanto di precarietà, di spreco, di insensatezza presieda invece alle cose
italiane”. Confrontava gli anfratti del Giura, è probabile, inconsciamente con i
terrazzamenti di zibibbo che nei suoi primi viaggi in treno sul continente avrà
visto rifulgere dorati tra Scilla e Bagnara, poi abbandonati, perché non si potevano
lavorare con le macchine, e dilavati – come si vedono oggi, una miniera ferrovecchio. In Svizzera, nota Sciascia, “sono delle strisce di terra ad
inclinazioni quasi impossibili, ma contenute da pazienti e solidi
terrazzamenti; lavorato e nettissimo il suolo, curatissime le piante” – erano così
sulla Costa Viola. E rileva: “Certo, non vi si va con il trattore, tutto è a
fatica d’uomo”, anche in Svizzera è come “Lenin diceva: «La terra è bassa», per
dire quanto greve la fatica del contadino”. Con un facile sospetto: “Con ogni
probabilità, a lavorarla sono quegli stessi che alla terra bassa della Sicilia
o della Calabria sono fuggiti”.
Conclusione:
“Così, nell’Italia meridionale non ci sono che trattori, quando ci sono; e in Svizzera
i contadini”.
Calabria
Il
mite Augias le retate del giudice Gratteri lo mandano fuori onda. In tv da Rai
3 si lascia andare: “La Calabria è una
terra perduta”, “ho il sentimento che la Calabria sia irrecuperabile”. Richiesto
di scuse a mente fredda, dà questa spiegazione: l’opinione se l’è formata all’ultimo voto regionale, che non ha premiato il candidato del Pd.
Cioè, conferma che la bocciatura del candidato Pd era giusta?
Il
problema della Calabria è che anche i suoi critici non sono granché?
Easyjet
per propagandare il suo volo su Lamezia paga questa pubblicità: “La Calabria,
terra di mafia e terremoti”. Piove sul bagnato, si dice. Ma che pubblicità è -
a parte la cattiveria: a tagliarseli?
Per
il copywriter dell’agenzia cui
Easyjet ha confidato la campagna pubblicitaria la Calabria migliore è mafia e
terremoti?
Fu
chiamato “Calabria” un piroscafo della compagnia scozzese Anchor Line, varato
il 9 aprile 1901 per la rotta transatlantica - viaggio inaugurale
Livorno-Napoli-New York il 23 maggio. L’emigrazione dalla Calabria, restia nel secondo
Ottocento, quando era invece di massa nella valle padana, in Liguria e nel Triveneto,
diventava consistente (ammonterà a circa 50 mila espatri nel 1905, per due
terzi verso il Nord America) e la Anchor puntava a conquistarsela.
Le
immagini del “Calabria” illustrano il sito storico della Anchor Line, e sono
esposte a Liverpool, al Meyerside Maritime Museum.
Il
Messico ha fatto un’industria del chili, il peperoncino – varietà, sapori, usi.
Tabucchi ne fa un elenco dettagliato in “Viaggi e altri viaggi”: il chile poblano, il secoa, il dulce, il guëro , il serrano, il jalapeño, il chile de árbol – “potrei continuare”,
dice lo scrittore, ma si ferma a quello che chiama il pontifex maximus, il chile habanero.
La Calabria non distingue, basta che sia piccante.
Incapacità
non è, c’è ingegno. Forse il bisogno non è come dicono le statistiche.
Quarantenne
agli arresti domiciliari a Crotone scappa di casa e si consegna ai vicini Carabinieri:
“Preferisco tornare in prigione che subire mia moglie”. Lo condannano per questo
in Calabria a due mesi, per evasione. Ma la Cassazione a Roma lo assolve.
Poi
si dice che in Calabria non c’è giustizia.
Andrea da Barberino, primo Quattrocento,
grande divulgatore di testi francesi, di testi cavallereschi, del ciclo carolingio
e delle tresche “materia di Bretagna”, “I reali di Francia”, “Il Guerrin
Meschino”, ha anche un poema “Aspramonte” o “La canzone d’Aspromonte”. Ma nessuno se ne
occupa, non in Calabria, non della “Canzone d’Aspromonte”.
Il nostos vi si pratica a rovescio. Répaci,
che ci tornò fisicamente, tenendo aperta una casa rupestre e
romantica, su un costone sassoso bonificato con dispendio di soldi e di energie,
non vi trovò estri creativi. Alvaro, che se ne tenne sempre lontano, già dalle medie, ne
originò molti umori – e quelli, alla rilettura, più duraturi.
Bisogna
“tornare” alle origini, ma a distanza, il radicamento va bene con juicio?
Il
brigante Musolino a processo a Lucca ammaliò tutti, anche Pascoli e D’Annunzio,
e Cesare Lumbroso, che pure lo considerava “un criminale nato”. “Musolino Mania!”
poteva intitolare un giornale loale americano, “Uthica Herald Dispatch”, il 7
agosto 1902 – cit. in Nicaso-Barillà-Amaddeo, “Quando la ‘ndrangheta scoprì
l’America”.
leuzzi@antiit.eu
Cercando di spiegarsi l’atipicità della
letteratura greca, V. Woolf (“Non sapere il greco”) si rifà all’Italia, al Sud.
Per capire, spiega, bisogna cambiare paesaggio: “Affilare
il contorno delle colline. Vagheggiare una bellezza di pietra e terra,
piuttosto che di boschi e vegetazione”. E capire che col sole caldo, per molti
mesi, è un’altra vita: “Si sposta fuori dalle abitazioni, con il risultato,
noto a chiunque visiti l’Italia, che i piccoli fatti vengono discussi in
strada, piuttosto che in casa, e diventano teatrali; le persone sono loquaci:
sfoggiano quel tono irrisorio, quella giovialità, quella scioltezza di spirito
e di lingua peculiari alle razze del Sud”.
Giallo etnico
Nessun commento:
Posta un commento