Come Santo Stefano d’Aspromonte conquistò New York
Alcuni episodi di mafia calabrese
a New York, e nei paesi del reggino di provenienza, ricostruiti con puntigliosi,
sorprendenti, scavi archivistici, nazionali e americani (questi, in particolare,
della stampa locale): la lettura è faticosa, tanto la ricerca è dettagliata – e
gli autori, giustamente, non buttano via nulla. Tratto d’unione, in un pulviscolo di informazioni documentarie di persone e fatti minori, la famiglia
dei Filastò, di Santo Stefano d’Aspromonte, cugini dei Musolino del brigante. In
particolare di Francesco “Frank” Filastò, che ha occupato per oltre mezzo
secolo le cronache giudiziarie a New York e a Reggio Calabria, assassino probabile di Joe Petrosino a Palermo, e poi la politica al suo paese d’origine – il
genero Mangeruca sarà sindaco per due mandati dopo la guerra e realizzerà il resort
residenziale e sciistico di Gambarie, comprensivo di un Grand Hotel, con vista
fantasmagorica sullo Stretto e, nei giorni buoni, fino all’Etna, quando il
vulcano aveva ancora nevi perenni.
Una storia, sembrerebbe, d’altri
tempi. La neve ora Gambarie deve farla artificialmente. L’Etna non è più bianco
la gran parte dell’anno. E comunque non si vede: il business dei vivai e della forestazione a oltranza ha tolto la
vista, e anche la luce. O è questa una trasformazione, un secondo o terzo
tempo, della stessa partita, del malaffare? Senza più pugnale oggi, come usava
– faceva usare – Frank Filastò, ma ugualmente senza scampo. Antonio Musolino,
il fratello minore del bandito, sarà ucciso a Tre Aie, località rinomata di Gambarie,
in piena stagione estiva, il 2 luglio del 1961 – da ignoti, naturalmente.
Scavo
Fine Ottocento e primo Novecento,
fino alla seconda guerra, dei malavitosi, i “picciotti”, la “picciotteria”, di
un piccolo triangolo in Calabria, da Reggio nord fino a Solano (il paese del
matriarcato) e Santo Stefano d’Aspromonte, il paese del brigante Musolino, e delle
famiglie con lui imparentate, soprattutto i cugini Filastò. Su cui una
formidabile opera di ricerca viene svolta, negli archivi comunali,
parrocchiali, giudiziari, anche americani, cartacei e online (molta
documentazione è reperibile negli Stati uniti online, ma bisogna saperla
cercare). Con una prefazione di Nicola Gratteri, il giudice scrittore, coautore
di molti libri di mafia con Nicaso. Con un voluminoso corpo di note, e un indice
dei nomi. Col recupero di ogni genealogia e gesta di miriadi di (piccoli)
delinquenti.
C’è anche l’America sullo sfondo.
New York soprattutto, teatro delle gesta, cassa e rifugio dei malavitosi.
Specie nelle due prime decadi del Novecento, quando la malavita si abbarbicò a
Tammany Hall, la “macchina” corrotta e anche assassina del partito Democratico
che dominava la metropoli, pagandosi con gli appalti, la prostituzione,
l’azzardo e l’alcol. C’è la Pennsylvania prossima allo stato di New York. C’è
molto Paterson, per la prostituzione, luogo ora memorabile di poesia (William
Carlos Williams, Jim Jarmush).
Dai tempi di Pontieri non si
ricorda tanta acribia archivistica applicata a persone e cose in Calabria. Peccato
che si applichi alla storia criminale, e di piccola, benché diffusa, criminalità:
taglieggiamenti, specie dei lavoratori calabresi emigrati, come ora avviene nel Mediterraneo tra africani, e “traffico delle bianche”. Il sottotitolo
della ricerca è “1880-1956. Da Santo Stefano d’Aspromonte a New York. Una
storia di affari, crimine e politica”.
Stato-mafia
Una prima parte è attorno al
brigante Musolino. Che a processo a Lucca ammalia tutti, anche Pascoli e
D’Annunzio. La fama fu anzi mondiale, come documentano gli autori: “Musolino,
the famous Italian Brigand” titolava il “New York Times” il 6 ottobre 1901 l’articolo
bene informato di apposito inviato speciale, e subito dopo, il 20 ottobre, “the
most famous”. Di cui gli autori fanno un caso di Stato-mafia come ora è d’uso, prima
di Giuliano-Pisciotta, Riina-Provenzano, Messina Denaro. Al capitolo
“L’ordinanza «liberi tutti»”, e al successivo “La campagna elettorale del
«brigante» Musolino”. L’inviato del “Mattino” al processo di Lucca scrive nel
1902 che “il governo si servì di Musolino, dell’ascendente formidabile che egli
esercitava, della rete di interessi che le sue intimidazioni e la sua leggenda
di inflessibile e fulmineo punitore aveva distesa, se ne servì a scopo elettorale”.
Dapprima il governo del generale Pelloux, 1898, poi il ministro dell’Interno
Giolitti nel governo Zanardelli.
La questione – Giolitti e i
prefetti – era stata già indagata sulle fonti da Spadolini in “Giolitti e i
cattolici”, 1960. Ma in contesto politico e non mafioso. Il precedente,
purtroppo, non spiega il presente. Attardarvisi non risolve, e áncora l’antimafia
a modelli antiquati – non mancano nemmeno Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Come se
i mafiosi fossero scemi. O nessuno li conoscesse.
Antimafia?
Restano sempre da indagare le
cause di questa criminalità, e la relativa impunibilità. Gli assetti socio-psicologici,
quelli reali e attivi anche se complessi - un po’ come Adorno fece i
totalitarismi e il razzismo, “La personalità autoritaria” - senza modelli o
paraocchi, fuori dagli schemi. Fuori quindi dalle bolse dialettiche ricchi\poveri,
borghesi\lumpen. Di tanta diffusa delinquenza il volume documenta che molti sapevano
scrivere, seppure sgrammaticato, il che un secolo fa non era frequente, qualcuno
perfino in inglese.
Per il lettore è anche
interessante che gli stessi nomi - le stesse famiglie allora criminali? - negli
stessi luoghi, negli Stati di New York e New Jersey, perfino agli stessi
indirizzi, con proiezioni a Chicago e in Pennsylvania (qui ora quasi scomparse),
abbiano prosperato legalmente, per capacità e applicazione, Bueti, Filastò,
Chirico, Costa. Mentre per associazione a delinquere sono a processo nel 1929 a Locri
gli stessi nomi di San Luca oggi, Pelle, Nirta, Strangio e Trimboli: hanno quindi
continuato – hanno potuto continuare – a delinquere per un secolo.
Un volume denso, di storia, non
la solita sveltina sui mafiosi, che fanno tanto mercato dopo “Gomorra”. Documentato,
anzi con uso fin troppo esteso delle pezze d’appoggio archivistiche. Con la seriosità
degli storici. Con qualche trascuratezza, se si tratta di fatti o aspetti che
non rientrano nella trattazione di programma, che però la narratologia avrebbe
consigliato di non trascurare. Un “modernissimo piroscafo” denominato “Calabria”
ricorre a un certo punto per viaggi in Nord America. Di chi, quando, da dove? San
Luca non è “sede del santuario della veneratissima Madonna di Polsi”, ne dista
un paio di ore, di buon passo. Si rileva di passaggio, incidentalmente, l’atto
di nascita della parola ‘ndrangheta, nella denuncia del maresciallo dei
Carabinieri Delfino all’autorità giudiziaria il 4 dicembre 1923: “Da più tempo
esisteva una vasta associazione a delinquere denominata «Ndranghiti»” - che
qualcuno, precisano gli autori, “chiamava «drancati» o anche «dranghita»”. Molti
elementi trascurati sono passibili di sviluppi. Si sarebbe certamente voluto
sapere di più di “donna” Angelina Nostro, “l’angelo di Broome Street”, moglie
di malavitosi, filantropa, “la munifica scillese tammanyta imparentata con
Frank Filastò”, che ebbe nel 1924 funerali si direbbe “di Stato” a New York,
tanto furono imponenti e ben frequentati.
Terra
perduta
Leggendola quando alla Rai si
dice la Calabria “terra perduta” e “irrecuperabile”, la ricerca colpisce per un
assetto che si vuole solo negativo. Come un cannocchiale senza panoramica,
puntato sui punti oscuri. Non c’è altro calabrese che picciotto. La drogheria-banca
è covo di malfattori, mentre è istituzione popolare – tra l’altro rinverdita
per gli immigrati in Italia dai tanti alimentari e call center asiatici, per telefonare,
trasferire i risparmi, fare le pratiche (ancora viva nella stessa Italia, per
es. a Roma, dal droghiere o con la cassa peota). Chirico, “Due boss calabresi a
Manhattan”, è uno incensurato, uno dei tanti piccoli o microborghesi che
pullulano nei piccoli commerci degli emigrati, dalla manovalanza al commercio
minimo e piccolo.
L’emigrazione è sempre miseria e
lamento, mentre era anche avventura, coraggio, decisione di cambiare e di innovare.
Ed era regolata. Una cosa normale ma da sottolineare, a fronte oggi
dell’inanità europea perfino miracolosa. Che tanti emigranti, decine di
migliaia ogni anno, viaggiassero con visto e biglietto, sia pure pagato da
parenti o amici qualche volta non raccomandabili. Con emigranti che avevano la
cittadinanza dopo appena sei anni di residenza negli Stati Uniti - dove i nati erano
per legge cittadini.
Con lo sguardo purtroppo in
negativo che tanta pubblicistica, l’unica che se ne fa, proietta sulle origini, il nome, i luoghi, la società – “basta la
parola” di una vecchia pubblicità, e subito si scatena una sorta di
dilettazione nel cinismo. Mentre documenta perché la criminalità diventa
cronica e diffusa: quando le Autorità, come le fonti prospettate dagli
autori dimostrano, si limitano a registrare passive i fatti e le voci
(testimonianze, più o meno anonime), e il crimine non viene in realtà
contrastato, il sopruso, il pizzo, l’aggressione. Sospettato, temuto, ma non
confrontato, non subito, con la stessa o maggiore forza. Ogni denuncia viene recepita
e commentata senza mai intervenire, come fatto privato.
È il tipo di racconto che Gay Talese
ha immortalato nella memoria del padre, “Ai figli dei figli”, e nella
cronistoria dell’ascesa e declino dei mafiosi siciliani Bonanno, “Onora il
padre”: non c’è il male a prescindere, di cui non ci occuperemmo, bastano i
Carabinieri, c’è un insieme di eventi, personaggi, concause. Ma questo effetto è
mancato. Perché ci occuperemmo di pochi, ignoti, pluriassassini della periferia
di Reggio Calabria se non in un contesto? L’effetto è invece sconcertante, di
tanto impegno professionale, perfino scientifico, oltre che naturalmente
d’intelligenza e capacità, profusi su personaggi deteriori e probabilmente
marginali, che assurgono a unici esponenti di comunità.
Antonio Nicaso-Maria
Barillà-Vittorio Amaddeo, Quando la
‘ndrangheta scoprì l’America, Mondadori, pp. 399, ril. € 25
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