Giornalista e gentiluomo
Peppino Turani muore giovane perché è la sua
natura: curioso e intraprendente il giusto, di garbo e simpatia. Giornalista
all’erta, come usava, capace di valutare e spiegare, ma senza fisime o albagie.
Di acume ed equilibrio straordinari nel suo campo di attività, i fatti economici,
che è complesso e anche minato. Commensale sempre gradevole, pur avendo scelto
la singletudine (la volta che si avventurò in compagnia fino a Lisbona, prese
subito l’aereo di ritorno) – o forse per questo.
Fu autore nel 1974 non secondario con Scalfari
de “La razza padrona”, un’inchiesta fondamentale per gli assetti della
Repubblica. Su “La razza padrona” Scalfari ha edificato un ruolo pubblico e il
suo giornale. Turani ne fu tenuto ai margini, niente ruoli, pochi spazi, e poi
allontanato - non in linea. Ma non perse il buonumore.
Lo si figura bonario e acuto anche in morte.
Si può morire felici, di avere bene vissuto. Con intelligenza e disponibilità:
per il bene del suo mestiere, della sua città, la Milano degli affari, dei
compagni di lavoro o di passatempo.
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