Giuseppe Leuzzi
Si tiene a Lamezia uno dei maxi processi del Procuratore Gratteri: 325 imputati – altri 91 hanno scelto il rito abbreviato. In un’aula bu nker appositamente realizzata, in cinque mesi, per cinque milioni. Mentre a Palmi, dove si giudicano le mafie della Piana di Gioia Tauro, la giudice Concetta Epifanio, riferisce Giuseppe Smorto sul “Venerdì di Repubblica”, si lamenta: “Tempesto il ministero di chiamate, non mi rispondono nemmeno. Teniamo i faldoni in stanze dove piove, facciamo le udienze col cappotto”.
Un altro giudice di Palmi, Antonio Salvati, “da vent’anni in Calabria,”, nota sempre Smorto, “si lascia andare in un forum con le associazioni di volontariato: «L’aula del maxiprocesso di Lamezia è stata messa su in cinque mesi: per l’ospedale di Palmi il piano è partito tredici anni fa, e siamo ancora al punto di partenza»”. Al netto della tragicommedia dei commissari risanatori della Sanita infetta in Calabria.
Commentando la figura controversa di Leopoldo III re dei Belgi, prima a capo della Resistenza all’invasione tedesca, poi in qualche modo collaboratore, benché prigioniero, durante l’Occupazione, Curchill scrisse a fine guerra: “Leopoldo è come i Borboni, non ha imparato niente e ha dimenticato tutto”.
L’indotto della mafia
Nelle
celebrazioni di Sciascia per i cento anni dalla nascita riaffiorano le sue critiche
al maxiprocesso, al primo, quello di Falcone, specie all’uso dei “pentiti”. Ma quel
maxiprocesso ha stroncato la mafia. Prova ne sono le terribili stragi
successive, e la fine dei corleonesi sanguinari – Messina Denaro compreso che
fa da trent’anni, dei suoi sessanta, la vita del sorcio – i colpi di coda sono distruttivi
per essere disperati.
A
Roma si arresta una banda di narcotrafficanti, una trentina di persone, attiva
nelle periferie Est e Ovest della capitale e nell’agro romano a Nord.
Capeggiata da uno di Sinopoli, dice il giornale, “considerato affiliato a Roma del clan Alvaro”.
Che imperversa da almeno i primi anni 1960, quindi da sessant’anni.
Lo
stesso il loro socio nel narcotraffico a Roma Nord, Antonio Pelle, “capo dell’omonima
cosca di San Luca, sempre nel reggino” – come Sinopoli.
Lo
stesso, si può aggiungere, del clan Grande Aracri, dell’area jonica, cosentino-crotonese,
che il Procuratore di Catanzaro Gratteri persegue con retate gigantesche, di
centinaia di persone alla volta – per i quali un maxiprocesso è in corso a
Lamezia con poco meno di 400 imputati. Apparentemente senza effetto, se gli
arresti in massa si susseguono.
Il
problema non è il maxi ma la qualità
delle indagini. Specie se si basano sui pentiti, testimoni di comodo. Una terza
grande famiglia di mafia, i Pesce di Rosarno, sono usciti dalle cronache dopo
decenni per il ravvedimento di una delle donne di famiglia, una figlia. Basta
poco per una vera azione di contrasto alle mafie, e non di luminarie per i media,
e per le carriere.
Gli
Alvaro, dopo avere stroncato con i taglieggiamenti impuniti ogni imprenditoria
nel loro paese e nel vicinato, con la droga investono a Roma da almeno vent’anni,
dall’acquisto del Café de Paris a Via Veneto. Con lo storico ristorante George’s,
sempre a via Veneto, e l’adiacente grande caffè California in via Bissolati. E
una miriade di caffè e ristoranti: il Federico I alla Colonna Antonina e un
Ristofood in via Tiburtina, il Gran Caffè Cellini in zona Battistini, un Time
Out in Valtrompia, verso Guidonia, un bar Clementi in via Gallia-San Giovanni, e
il bar Cami a Talenti.
Grande
operazione di polizia dieci anni fa, arresti sequestri, contro gli Alvaro. Grandi
valutazioni dei sequestri: il Café de Paris, comprato per 250 mila euro, si
dice valere 55 milioni (di fatturato? di avviamento? impossibili), il “George’s”,
vecchio ristorante che nessuno frequenta, 50 milioni. In tutto un patrimonio,
si dice, di 200 milioni.
Pignatone,
il Procuratore di Reggio Calabria che ordina l’operazione, si libera infine
dell’ingrata sede per l’agognata Procura di Roma.
I
beni sequestrati agli Alvaro a Roma al processo sono stati restituiti, non c’è
mafia – non agli atti del processo.
Non
si colpisce la mafia – non è difficile, basterebbe prendere i mafiosi, subito –
per non colpire l’indotto? Comprese le carriere – se finisce la mafia finiscono
le carriere?
L’Italia
a pezzi
Dopo la pandemia, anche i rimedi hanno
una distinta caratterizzazione regionale. Più inefficiente al Nord, per stanchezza,
incapacità o presunzione. Già dai provvedimenti
differenziati di lockdown. Per lo
svago si è imposta l’apertura di caffè e ristoranti, dove si sta al chiuso, a
distanza ravvicinata, uno di fronte all’altro, bisogna togliersi la mascherina,
e bisogna parlare a voce alta. E non si è consentita al cinema e al teatro,
dove bisogna stare zitti, allineati e non
frontali, e sarebbero posti ideali
per respirare con la maschera. Perché? Perché il business dei caffè e ristoranti
è dieci o cento volte quello dei cinema e teatri.
La regione Lazio, cioè la burocrazia
indolente di Roma, dimostra che si può fare una campagna di vaccinazioni di massa:
il sito di prenotazione ha funzionato, l’organizzazione sembra perfino semplice
tanto fila liscia, anche senza le “primule” del design milanese, e si poteva
benissimo raddoppiare la somministrazione dei vaccini, l’organizzazione è così decentrata
ed efficiente che si potevano dimezzare i tempi, cinque minuiti per
somministrazione invece di dieci.
In altre regioni si sposta l’obiettivo,
per dire invece di fare. Comprare altri vaccini autonomamente – la tentazione
dell’appalto prima di tutto? La variante inglese? La sudafricana, la napoletana,
l’olandese? Astrazeneca? Negli Usa (del deprecato Trump) la vaccinazione di massa
subito, già da metà dicembre, ha subito circoscritto i contagi: i contagi giornalieri
sono crollati sotto i 100 mila, la metà del picco di Capodanno.
Non ci sono molte soluzioni. Ma le poche
non piacciono. Tutti improvvisati Napoleoni, gli autonominati “governatori” di
regione. Quasi tutti imbonitori, specie i leghisti del Nord: Veneto, Lombardia,
Piemonte - che infettano la finitima Emilia. Gli stessi che hanno voluto
l’Italia a sanità regionale, per meglio lucrare nel ricco settore.
Il Sud senza
portafoglio
Solo
due del Sud, due potentini, Speranza e Lamorgese, fra i ministri del governo
Draghi. C’è anche Carfagna, salernitana, ma ha un ministero senza portafoglio,
cioè le serve solo per potersi dire ministro - e riguarda il Sud: un luogo
senza portafoglio. Oltre Di Maio, titolare di un ministero che non governa.
Alla scomparsa della questione meridionale succede la scomparsa del Sud politico.
Quella si poteva ritenere una buona cosa, eliminare la minorità del Sud, se il Sud
fosse – fosse stato, ormai sono trent’anni e più dalla scomparsa – ammesso alle
politiche economiche nazionali. Senza rete di protezione, ma avesse una giusta
quota di investimenti pubblici. Per esempio le strade e autostrade, le ferrovie,
la telefonia, in fibra e anche solo col doppino, il wifi.
Il
Sud ha avuto due presidenti della Repubblica in successione, Mattarella dopo
Napolitano. Come non detto. Napolitano ha nominato senatori a vita, l’eccellenza
del Paese, solo dell’estremo Nord: Abbado, Monti, Cattaneo, Rubbia e Piano –
Mattarella sobrio ha nominato Liliana Segre.
Sicilia
Camilleri,
come già Sciascia, rivendica una “amizicizia siciliana”. Ma come un mistero,
“un po’ complesso”, che scioglie assimilandola al rapporto fra gemelli, una
sorta di immedesimazione. Intuitiva, senza bisogno di parole. “Tra siciliani”,
spiega in “I detti di Nené”, “un vero amico non deve chiedere all’altro una
qualche cosa, perché non c’è bisogno, in quanto sarà preceduto dall’offerta
dell’amico, che ha intuito…”. Da qui, dall’immedesimazione, le rotture
terribili: “Già mettere un amico nelle condizioni di fare una richiesta indica
un’amicizia imperfetta”.
È
siciliano, palermitano, il campion mondiale di Glovo, le consegne di cibo a
domicilio – pizze e panini. Lo fa da vent’anni, ha cominciato a vent’anni, per
passatempo. Faceva anche il dj ma con le consegne ci guadagna, abbastanza. La
voglia non manca. L’applicazione neppure.
Nick La Rocca, cornettista virtuoso e bandleader, nato a New Orleans da genitori
del trapanese (a New Orleans si dirigevano a fine Ottocento i siciliani di
Palermo eTrapani), è l’autore di “Tiger Rag”, il brano che impose il ragtime, lo
stile New Orlenas. A capo della Original Dixieland Jass Band – la parola era allora
più vicina al significato originario, derivato dal francese jaser, eccitare. Jelly Roll Morton rivendicherà
poi la paternità del brano, un arrangiamento, disse ad Alan Lomax, di una quadriglia
francese. Ma la prima incisione di “Tiger Rag” è stata di La Rocca e la sua
band.
Mario Praz la trovava perfetta: “Il massimo
piacere del viaggiare si raggiunge quando allo spostamento nello spazio si
unisce lo spostamento nel tempo. In Sicilia, il retroscena storico è
profondissimo, e la varietà del paesaggio supplisce alla relativa ristrettezza
spaziale, sicché si potrebbe facilmente sostenere che quello di Sicilia è il
viaggio perfetto”.
La meraviglia dei viaggiatori è una costante: “Per
chi un viaggio in Sicilia non ha rappresentato un premio, o quasi il compimento
di un voto? L’uomo non ha cessato, neanche nei tempi storici, di favoleggiare
sulla Sicilia, che è la terra stessa del mito: qualsiasi seme vi cada, invece
della pianta che se ne aspetta, diviene una favola, nasce una favola.” - Cesare
Brandi.
L’immagine della Sicilia era prevenuta e di
maniera già nel 1963 per Sciascia – che pure se ne dilettava: sommerso da un profluvio di film sulla Sicilia, ammoniva (“La Sicilia e il cinema”, poi in “La
corda pazza”), lo spettatore dovrebbe cominciare a chiedersi “che cosa la
Sicilia non è”. L’anno successivo
stroncherà Germi, “Sedotta e abbandonata”, per avere tratteggiato una Sicilia
che non esisteva.
Sciascia si è detto
presto infastidito dalla sicilianità, che pure aveva elogiato, seppure in forma
di “sicilitudine” – “categoria metafisica, condizione esistenziale o stato antropologico dell’essere siciliani”. Nel 1964, stroncando il film di Germi, e
una ricerca dell’antropologo Tentori (“Le svergognate”), lamenta una Sicilia
acculata “al delitto d’onore, votata al mito della verginità”. Di cui lui, nato
nel 1921, nella Sicilia “profonda”, non conosceva nessun caso. Ma non rinunciava,
in altro ambito, alla “linea della palma”, che sale, sale.
Rieditando il “Padrino III”, per i trent’anni,
Francis Ford Coppola ha cambiato il titolo, “Mario Puzo’s The Godfather Coda:
the Death of Michael Corleone”, la morte di Michael Corleone, perché invaghito di
un altro finale: Corleone seduto su una sedia nel cortile del palazzo,
meditabondo, su questa considerazione che lo spettatore legge sullo schermo:
“Quando i siciliani ti augurano «cent’anni» è un augurio per una lunga vita… e
i siciliani non dimenticano”. La Sicilia come condanna a morte in vita. Ma i
luoghi del “Padrino III”, sopra Taormina, sono infinitamente riconoscenti a
Coppola per il film.
leuzzi@antiit.eu
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