venerdì 26 febbraio 2021

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (450)

Giuseppe Leuzzi

Curioso contrasto nell’edizione in commercio di Carlo Levi, “Le parole sono pietre”, tra la prosa di Consolo nella presentazione, che vuole essere lirico e moltiplica gli aggettivi, e l’asciuttezza di Levi, che il mondo contadino siciliano di cui tratta sa leggere e far parlare. Il siciliano conosce la sua isola meno del piemontese.
 
In viaggio da Villa a Messina nel 1952, sul traghetto “Secondo Aspromonte”,  Carlo Levi avverte navigare, “sopra il frastuono continuo” delle conversazioni, “pezzi di frase, modi logici inusitati nel linguaggio comune delle altre parti d’Italia; sento dire «con cui», «del quale», «dopo i quali»: legamenti logici di un pensiero raziocinante e naturalmente complesso, eredità popolare dell’antica chiarezza greca”.
 
Di seguito Levi legge “un cartello bellamente incorniciato” che dice: “Avviso ai passeggeri. Chi vede cadere una persona in mare deve lanciare il grido «un uomo in mare», e chi ode il grido di «uomo in mare» deve ripeterlo e deve cercare di farlo arrivare, al più presto, al ponte di comando”. La chiarezza.
 
La donna in Calabria
Il sogno gay di un’amica gravida che scompare lasciando il figlio – nel caso la figlia – Fabio Mollo fa terminare nel film “Il padre d’Italia” in Calabria sullo Stretto, tra Scilla e Cannitello, nella famiglia d’origine della ragazza. Tutta al femminile. Gli uomini ci sono, padri, zii, compari, ma la vita si svolge attorno alle donne,  alla madre della gestante. Un ruolo complesso – molto è del conflitto madre-figlia - ma non ambiguo, grazie alla presenza scenica di Anna Ferruzzo. Una forma di realismo acuto, e lieve.
Della serie “la donna del Sud”.
Lina Wertmüller, che nel 1970 inseguiva un film su una donna di famiglia mafiosa che rompe l’omertà e denuncia il malaffare, e si era rivolta in un primo momento a Sciascia (che le aveva fornito un soggetto), successivamente lo decommissiona: d’accordo con Sciascia che la mafia non è un gran soggetto, dice. Poi ci ripensa: “Diedi un’occhiata in giro. Così mi sono avvicinata alla situazione calabrese. Qui la cosa è cambiata. Mi è sembrato di trovare elementi per cui valesse la pena riproporre il problema”. C’erano donne più combattive – meno rassegnate, non succubi.
Sarà di calabresi, ragazze e madri di famiglia, tutte in pace con se stesse, a giudicare dai ritratti in copertina, il primo doculibro di donne che sfidano la mafia, anche in famiglia, “Fimmini ribelli”, un decennio fa di Lirio Abbate.
 
Memorie di Sicilia – omertose
“Nel ‘62”, Jacopo Fo ricorda sul “Corriere dela sera” sabato 20 dei genitori Dario Fo e Franca Rame, “furono cacciati da «Canzonissima», perché denunciavano l’esistenza della mafia in Sicilia. Il ministro Giovanni Malagodi, che era nella vigilanza Rai, li definì due guitti che insultavano l’onore del popolo siciliano sostenendo l’esistenza di un’organizzazione criminale chiamata mafia”.
Non è vero niente. Cioè: “Canzonissima” 1962, di cui Fo e Franca Rame erano conduttori, continuò senza di loro fino alla finale del 6 gennaio 1963, che fu condotta da Corrado. Ma perché se ne erano andati di propria iniziativa, dopo che un loro sketch sul lavoro nei cantieri edili era stato censurato dalla direzione generale Rai. Ma non c’è altro scandalo per Jacopo Fo che la Sicilia, e in Sicilia la mafia – in altro contesto si direbbe che Jacopo Fo divaga per non dire, omertoso.
Anche Giovanni Malagodi difensore dell’“onore del popolo siciliano” è fuori dalla realtà. Malagodi era un latifondista della Bassa, che probabilmente neanche sapeva dov’è la Sicilia. Era il maggiore oppositore dell’apertura a sinistra della Dc con Fanfani in quegli anni, da segretario e capogruppo alla Camera del partito Liberale, che aveva spostato a destra. Sarà dieci anni dopo il ministro del Tesoro dell’unico governo repubblicano di destra prima di Berlusconi, il primo governo Andreotti, 1971-72, e varerà le “pensioni baby”, per insegnanti quarantenni, e le “pensioni d’oro”, per i quarantenni dirigenti pubblici (Beniamino Placido, per esempio, tra essi), ipotecando d’un colpo la stabilità dell’Inps e dei conti pubblici. Sicuramete uno che non tollerava Fo e Rame in tv. Ma che c’entra la Sicilia, e la mafia?
Per Jacopo Fo, il prototipo del non-conformista, ciò di cui si deve parlare male è la Sicilia. Sul presupposto che Sicilia significa mafia, una catena indissolubile.  
Della Sicilia di Jacopo Fo si ricorda invece – ma lui evidentemente l’ha dimenticato – l’articolo semiserio del 1979 “Anche i comunisti rubano!”, sulla corruzione del Pci isolano. La traccia del suo classico, due anni dopo, “Come fare il comunismo senza farsi male”.
 
Il Sud non è antico
Nel 1955, in “Le parole sono pietre”, Carlo Levi ritrae la Sicilia con la stessa vivezza e empatia, da pittore, attento ai colori, le ombre, i segni, del “Cristo s’è fermato a Eboli”, del suo confino in Lucania vent’anni prima. Ma il Sud si è dissolto, forse già quando Levi ne scriveva dopo i suoi tre viaggi in Sicilia. Non è più quello che era e non è altro.
Concludendo la sua vasta indagine un po’ in tutta Italia, e specie al Sud, sulla persistenza di usanze e detti antichi, greci o latini, “Sud antico”, il demofilologo (studioso di etnografia e insieme di filologia classica) Emanuele Lelli spiega così il titolo: il Sud è antico rispetto al Nord. Dove “i riscontri comparativi con ‘credenze’ e ‘superstizioni’ greche e romane ammontano, grosso modo, alla metà di quelli offerti dalle regioni meridionali”.
Non è un complimento. Lo studioso è entusiasta degli esiti della ricerca, della continuità di una certa immaginazione e cultura popolare con le fonti classiche. Che però, di fatto, sono anche i segni dell’arretratezza, di usi e anche di mentalità.
Nelle foibe istriane e giuliane i titini buttavano cani neri sgozzati, perché avrebbero impedito ai morti - italiani trucidati - di lamentarsi. I titini erano croati, sloveni, più qualche serbo, tutta gente del Nord. Ma il folklore si vuole meridionale.
Ma, seppure il Sud era “antico” per Lelli, non lo è più. L’indagine e la redazione del materiale d’indagine sono degli anni 2010, ieri. Ma oggi Lelli non troverebbe più differenze, i suoi “informatori” ottanta e novantenni essendosi probabilmente estinti: anche il Sud non è più “antico”, morti i giovani anteguerra. Si può ricordare o ricostruire a fini di “risveglio culturale”, che i fondi europei a favore delle minoranze stimolano, come può essere dell’area grecanica attorno a Bova, che tanto ha entusiasmato il ricercatore.
Il Sud non antico e non è moderno, si sarebbe tentati di dire. Di fatto è moderno, modernissimo. Ma è povero, di mezzi, e anche di iniziativa. Di voglia di fare e d’impegno: non ci sono più “testardi” al Sud, “teste di calabresi”, ma figurini, disappetenti. Rifiuta anche spesso ogni radice – che non sia folklore, la tarantella, di cui non conosce e non cura le figure, o la straordinaria diversità culinaria, più spesso solo onomastica.
Si ambientano molti sceneggiati tv al Sud, la Rai li fa solo al Sud, e non s’incontra nulla di antico o di nuovo meridionale. A parte il paesaggio, che entro certi limiti è indistruttibile, o il colore del mare. E le parlate strane – salvo scoprire che quella “barese” dell’ultimo sceneggiato, “Lolita Lobosco”, è imitazione a effetto comico inventata da Lino Banfi.
La storia si direbbe indispensabile. Questa è la storia della memoria grecanica. La ristretta area dell’Aspromonte grecanico, semiabbandonata, è una miniera per lo studioso di forme antiche perché lo statuto di minoranza linguistica riconosciuto in sede europea ha ravvivato la memoria e ha reso consapevoli della tradizione, del valore di coltivarla. A uso turistico, necessariamente marginale.
  
Un altro mondo
Allontanandosi dalla Sicilia, nel viaggio che vi fece nel 1952, Carlo Levi così ne scrisse in “Contadini di Calabria”, il racconto di viaggio pubblicato sui nn. 5 e 6 del 1953, di maggio e giugno, de “L’Illustrazione Italiana”, rimasto fuori per ragioni editoriali da “Le parole sono pietre”, il racconto dei suoi tre viaggi in Sicilia, come lui steso spiega nell’introduzione, e mai più ripreso: “Lasciavo alle mie spalle la Sicilia, e Messina, e l’intrico di poggi e montagne grigie e nere e violette, il disordine tellurico dei valloncelli velati di nebbie mosse da un vento bizzarro, e, lontano, il triangolo azzurro e bianco dell’Etna, nel cielo. Avevo ancora la mente e gli occhi a quel mondo riboccante di vita, a quei pescatori e contadini della costa, pieni di colorata eleganza nei loro cenci e di grazia negli atti, a quegli altri, delle terre dell’interno, dai visi tetri e feroci di represse ingiustizie, neri in viso sotto i loro berretti neri: ai braccianti di Bronte, nell’attesa secolare di una terra che è lì, davanti ai loro occhi, intoccabile, di una riforma sempre promessa; a quegli altri che vivono come bestie  nelle capannucce di paglia dei monti della Ducea; a quelli che non sanno come pagare il debito forzato delle terre mal comperate; a tutto quel mondo in fermento e in movimento, pieno, a volta a volta, di speranza e di disperazione, e per il quale la terra, ancora più che possesso e pane, significa vita di uomini, significa, letteralmente, esistenza”.
Non c’è altra Sicilia migliore, più sentita, in altre scritture.
 
Milano
Bergamo ha avuto il record dei morti nella prima ondata del virus. Con immagini anche indelebili. Ma questo non impedisce la folla fuori dallo stadio per Atalanta-Real Madrid – a nessun effetto, giusto urlarsi il tifo in faccia, urtarsi, senza mascherina. Lo stesso è successo domenica a Milano, davanti allo stadio, per Milan-Inter.
L’epidemia dilagò a Bergamo un anno fa, con gli spettatori in tribuna, per Atalanta-Valencia. I lombardi si vogliono ordinati. Allora è stupidità?
 
Dopo gli operatori sanitari Milano non vaccina contro il covid le classi di età a rischio, ma chi lavora. Non è un delitto, ma è una chiara maniera di essere.
Gli inuit deportano gli anziani, a morire soli di stenti – così risparmiano, accudimento, alimentazione e sepoltura. A Milano non si può, perché ancora ci sono l’Inps e qualche ospedale pubblico. 
 
“Strana città”, dice di New York un personaggio losangelino-hollywoodiano di Eve Babitz, “Sex and Rage”, “dove le persone vivono per lavorare”. Si potrebbe dire di Milano.
 
Si pubblica una ricerca europea sulla morbilità causata dalle polveri sottili in cui si vedono, tra le venti città con la mortalità più elevata per questa concausa quattordici città padane. Una non notizia – se non ne parliamo, la cosa non esiste.
Le provincie di Torino e di Milano figurano nei prim cinque posti per mortalità associata col diossido di azoto.
 
La Lombardia ha mandato “dati sbagliati” sulla pandemia all’Istituto Superiore di Sanità per 54 volte. Ogni volta gli errori venivano segnalati, ma la Lombardia non rimediava. Milano über alles, non sente ragioni.
 
A causa degli sbagli degli uffici sanitari lombardi, gli operatori economici, dai bar a molti artigiani, hanno avuto problemi grossi. Ma non se la prendono con Milano, se la prendono con Roma. È il principio del leghiamo: autoassolversi. M è una forza o una debolezza? 
 
Si scopre, sporadicamente, quando una Procura denuncia un’azienda che prospera inquinando, la Caffaro di Brescia, che la Lombardia è da tempo nel mirino dei Verdi d’Europa come l’area più inquinata del continente. Ma si perseguono reati puntuali, su un fatto preciso, il garantismo qui è d’obbligo. E poi, la Caffaro mica è stata condannata? Quando sarà condannata…
 
Che la Lombardia avesse raccolto gli sversamenti velenosi tedeschi, svizzeri e anche austriaci lo diceva Günther Depas a Milano nel 1974 o 1975, corrispondente amabile per l’economia del quotidiano “Die Welt” (come si è già raccontato su questo sito dieci mesi fa, 22 aprile 2020), e lo scriveva anche, sul suo giornale. A nessun effetto.

leuzzi@antiit.eu.

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