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Con-contro la Cina come con-contro il Giappone
Biden dopo Trump replicherà con la Cina la temibile guerra degli anni 1980 contro il Giappone? Con la delocalizzazione delle fabbriche d’auto cinesi in America? E l’inizio della fine del primato cinese nell’informatica?
È possibile? Sì. Trent’anni fa fu imposta per i video l’ingombrante VHS, una sorta di brutalità texana al confronto con le compatte e eleganti cassette Sony. La tecnologia Huawei – che poi non è Huawei, la quale di originale cinese ha solo l’anticipo sugli altri operatori – può benissimo essere esclusa dal mercato.
Con la Cina la partita è però giocabile. Il Giappone non si riprese dalla batosta commerciale, se non mutando l’assetto produttivo. Dopo un ventennio abbondante di stagnazione - fino all’Abenomics del 2013, la politica economica del premier Shinzo Abe. Senza il mercato americano, non c’è eccezionalismo o miracolo asiatico.
La Cina è più vasta e più ramificata. E non lavora in proprio. Cioè lavora in proprio lavorando per altri, una specie di sous-traitant dominante – come se nel film “Gomorra” i sarti napoletani à façon dominassero i committenti milanesi dell’alta moda. La globalizzazione (catene produttive, scambi) induce folli ricarichi a favore degli importatori-compratori, quelli americani per primi. Ma gli Stati Uniti hanno – hanno ancora, compresa la globalizzazione – un disegno politico, imperiale.
Lo stesso è vero, in piccolo, per gli altri mercati. La globalizzazione induce la mondializzazione, e ora ci sono i cinesi a Milano. Ma non cambiano molto. Sono commercianti, quindi lavorano sul ritorno a breve e brevissimo, altrimenti lasciano. Oppure, se grossi, sorretti (finanziati) dalla politica espansiva del regime di Pechino. Che ha un costo, e un limite.
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