astolfo
Sacro piede - Il rito papale
del bacio dei piedi a Pasqua rifà alla cronaca evangelica della vigilia della
Passione, quando Gesù, dopo l’Ultima Cena, lava i piedi degli Apostoli come a
indicare loro la via della predicazione, del proselitismo. I papi hanno,
soprattutto di recente, continuato il rito, lavando i pedii normalmente di
dodici sacerdoti – Giovani Paolo II di dodici poveri. Ma con alcune varianti.
Per la settimana santa del 2019 il papa Francesco ha lavato e baciato i piedi
di alcuni detenuti “di tutte le fedi”, cioè compresi alcuni mussulmani. E ha
baciato le scarpe dei capi politici del Sud Sudan, convitati a Roma per fare la
pace – a conclusione di un ritiro spirituale a questo fine di due giorni nella
sua casa a Santa Marta. A chiudere un conflitto fra i due vice-presidenti che
ha fatto 400 mila morti e quattro milioni di sfollati – s una popolazione
stimata in undici milioni. Il bacio
della scarpa intendendo un rovescio del rito del “bacio della sacra pantofola”
del pontefice stesso da parte dei dignitari della corte pontificia, abolito d a
Giovanni XXIII.
Papa
Paolo VI, dopo la chiusura dell’Anno Santo, il 14 dicembre 1975, invitò nella
Cappella Sistina il metropolita Melitone, della chiesa di Calcedonia a Kadiköy,
la periferia nord di Istanbul sulla costa asiatica, e gli baciò senza preavviso
i piedi – anche in questa occasione calzati. In riparazione, intendeva, del
Concilio di Firenze alcuni secoli prima, quando il papa Eugenio IV per
celebrare l’unità fittizia ritrovata con la chiesa ortodossa, volle che gli ortodossi
si umiliassero a terra, con la scusa di baciare il sacro piede.
Francesi-tedeschi – Non solo i Franchi al Nord, i
Germani penetrarono la Francia in gran numero anche nella parte centrale, al
confine con l’attuale Svizzera. Nell’anno 49 a.C. , del ritorno di Cesare dalla Gallia,
i Germani in gran numero, fra i 100 e i 150 mila, attraversarono il Reno a
Basilea, invadendo le terre degli Elvezi, una tribù bellicosa. Che però trovò
più facile spostarsi a sua volta verso ovest, all’interno della Gallia.
Stefan George, che ha rifatto la poesia
germanica, solo da grande a Belino scelse il tedesco, essendo cresciuto col
francese lungo il Reno, dopo aver fatto tesoro a Parigi di Mallarmé e Verlaine.
Una scelta
inversa aveva fatto Heine, l’altro innovatore della lingua poetica tedesca. Che
è singolare cartina di tornasole dell’identità tedesca. Un po’ come la Resistenza –
che la Germania non celebra, benché sia stata la più ampia e costante in Europa.
La Germania, finalmente libera dal dovere imperiale, aveva alla sconfitta
pronto da cent’anni con Heine il “partito dei fiori e degli usignoli”. Ma non ha
saputo che farsene. Che c’è di più ideale dell’unità organica di democrazia,
cosmopolitismo, pacifismo, diritti dell’uomo, di più realistico anche,
dovendosi dare un’altra storia? Ma niente, silenzio. Dovendone celebrare il
centenario nel 1956 la buona Repubblica Federale se la cavò con un comunicato
di poche righe. Come vergognandosene. Così si disse, intendendo che si vergognava
di Hitler e di sé. Ma forse si vergognava – si vergogna - di Heine, che ha
insegnato il tedesco ai tedeschi ma era ebreo, incancellabilmente benché
apostata.
O
non sarà, questa riserva della Germani, la sua incancellabile diversità, l’io e
il mio Dio? Non si valuta a sufficienza l’eversione di Lutero, radicale,
barbara. Sì, inni, salmi, canti e corali, ma è il nomadismo dell’anima che
Lutero impone, a piccoli borghesi da secoli e millenni sedentari e abitudinari,
uno sconvolgimento del loro minuscolo focolare intimo. Per non sanno bene che,
ma fuori di loro. “Tutti i popoli”, diceva Heine, “quelli europei e quelli del
mondo intero, dovranno superare questa lotta mortale, affinché dalla morte
risorga la vita, dalla nazionalità pagana la fraternità cristiana”. Lo diceva
ai tedeschi, cristiano neofita dopo tante prove – “keine Messe wird man singen,\ Keinen Kadosh wird man sagen,\ Nichts
gesagt und nichts gesungen\ Wird an meinen Sterbetagen”, niente messe
cantate, niente kadosh recitati, niente canti e niente detti ai miei centenari,
i giorni della morte.
Molta letteratura d’appendice
nell’Ottocento, diecine di migliaia di pagine, divide la Francia tra franchi
oppressori e galli onesti lavoratori, oppressi.
S.Weil, “L’enracinement”, ha alle
pp. pp.138-43 l’atroce conquista della Francia sotto la Loira da parte dei
francesi-franchi. E subito dopo la “libertà tedesca”: “La Franca Contea, libera e felice sotto la
lontanissima sovranità spagnola, si batté nel Seicento per non diventare
francese. La popolazione di Strasburgo si mise a piangere quando vide le truppe
di Luigi XIV entrare nella sua città in piena pace, con una trasgressione della
parola data degna di Hitler”.
I franchi erano originariamente tedeschi,
nella Francia attuale sotto la Loira - anche gli Albigesi e i trovatori non
erano francesi, in Borgogna, nelle Fiandre, in Sicilia Nella conquista feroce
del Sud hanno creato l’Inquisizione, per meglio perseguitare i felici popoli
sottomessi.
Jünger, che è nazionalista
sensibile, voleva dare “tutto Stendhal per un poesia di Hölderlin”. Poi si
pentì, e riscrisse il romanzo. Ma fu l’edizione originale a fare il successo di
“Cuore avventuroso”.
Nerval
al Reno: “Germania, nostra madre a tutti!”
In
precedenza, 1810, Mme de Staël. “De l’Allemagne”, vara il romanticismo in salsa
tedesca. E crea il canone della “filosofia tedesca” che ancora fa testo, della
filosofia tedesca pensiero unico, sintetizzando, proponendo, imponendo Kant,
Fichte, Schelling.
Tedeschi-ebrei - Erich von
Stroheim, il teutone per eccellenza del cinema, “duro profilo da mestino”, come
lo tratteggia Sciascia, “tenuto su dall’alto e rigido colletto della divisa, il
monocolo, un che di metallico nella testa rapata”, era ebreo. Era nato a Vienna il 22 settembre 1885, come
risulta dai registri della comunità israelita.
Carl Leonhard Reinhold (1757-1823),
viennese, allievo dei gesuiti, alla loro soppressione sacerdote barnabita,
emigrato in Germania per sfuggire al giuseppinismo, quindi a sua volta,
spretato, massone Illuminato di Baviera, il filosofo che fece amare Kant e
formò Schiller, gli Schlegel, Hölderlin e Novalis, faceva dei Misteri ebraici, e dell’ebraica
massoneria, il fondamento della filosofia tedesca e della nostra umanità,
l’Occidente.
“Nessuna nazione europea ha ottenuto tanto
dagli ebrei” quanto la Germania, “sì, ottenuto!”, esclama a un certo punto
Joseph Roth in “Autodafé dello spirito”, p. 52-53. Che può continuare, nel
1934: “Dal 1872 in poi i tedeschi non ebrei sono stati per lo più marescialli,
viaggiatori, poeti della zolla, dilettanti, generali che perdono le guerre, nel
caso migliore ingegneri abili”. Da allora, sono stai ebrei tedeschi a tenere
alto l’onore della Germania: “Da sessant’anni gli ebrei tedeschi rappresentano
il nome tedesco nel mondo”. Questo è tanto vero, continua, “che in ogni talento
non ebreo s’iniziò a fiutare un «ebreo». Si fiutarono «ebrei» nei fratelli
Mann, nel regista Piscator, e persino in Goebbels”.
Ancora nel 1942 gli ebrei non odiano i
tedeschi. Lo spiega Thomas Mann ai tedeschi alla Bbc nel settembre del 1942, in
un’allocuzione nella quale richiamava gli obbrobri dello sterminio; “A
tutt’oggi (gli ebrei) non sono ancora vostri nemici. Voi siete i loro, ma non
riuscirete a rendere l’odio reciproco. Gli ebrei sono quasi sempre ben disposti
verso i tedeschi”.
Lui
però, personalmente, teneva alla porta Schõnberg durante la guerra nella sua residenza
americana a Los Angeles, Pacific Palisades.
Testa di morto – Fu adottata da
Federico Guglielmo I di Prussia, il padre militarista di Federico il Grande,
per la cavalleria. Alla sua morte, nel 1740, la testa di morto tedesca, senza
la mandibola e con le ossa tra i denti (in realtà sotto il teschio), fu
rappresentata nelle gualdrappe funerarie, Federico Guglielmo ci teneva.
astofo@antiit.eu
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