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Immortali in vita, e nel ricordo
Un film sulla morte di una coppia
di “immortali”. Rina, sposando Giuseppe, gli ha scritto una lettera in cui spiegava
che amandosi sarebbero stati immortali. Ma il tempo ora è passato.
Quello che era un racconto di
grate memorie, di Giuseppe Sgarbi, il padre di Elisabetta e Vittorio, in
ricordo della moglie Rina, dopo sessanta e più anni di matrimonio, in un borgo
minimo, semisolato, tra le nebbie, la neve e le acque fetide del Polesine, Avati
sempre garbato ha trasformato in un film sulla “necessità” della morte. Di
quella altrui - si può trovare consolazione nel ricordo, come ammoniva Pavese
(“L’uomo mortale, Leucò, ha questo d’immortale, il ricordo che porta e il
ricordo che lascia”) prima di uccidersi. E della propria, inevitabile.
Un film lieve, malgrado il tema.
Avati è aiutato dai protagonisti. Specie dal viso radiante di Isabella
Ragonese, Rina da giovane, da Renato Pozzetto mobilissimo, in tutti i registri
dei novantatré anni di Giuseppe,
accasciato, energico, lento, lentissimo, fulmineo, e dal co-autore di Giuseppe,
Fabrizio Gifuni, fatto arrivare da Roma, il romanziere di cui non si pubblicano
i romanzi e a cui si commissionano memorie altrui.
Il co-autore che vive di espedienti,
e non sa perché si è lasciato con la moglie e perché sta con una compagna, è trovata
geniale: basta da sola a fare del racconto intimistico un film storico, di epoche
e generazioni vicine e lontanissime. Sceneggiato dall’ottantaduenne Pupi Avati
col figlio Tommaso, il film viene anche incontro, col “negro” Gifuni (che
sembra un gemello di Tommaso…), alla curiosità del pubblico più largo del
cinema, sui figli glamour di Giuseppe
e Rina, Vittorio e Elisabetta. Soprattutto lei, Chiara Caselli, è l’architrave
del racconto, anche se in un ruolo non
brillante.
Pupi Avati, Lei mi parla ancora, Sky Cinema
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