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Ma come si parla male
Le parole sono
importanti. Chi parla male pensa male e vive male”: Nanni Moretti, “Palombella
rossa”, serve al critico per aprire il tema dell’impoverimento del linguaggio.
Della “lingua di platica”, già allora - parliamo di venticinque anni fa.
La Porta ripropone il
problema che Orwell poneva già alla fine della guerra (sulla rivista “Horizon”
di aprile 1946), “Politics and the English Language”, da lui stesso subito poi,
1948, ripreso in chiave universale, la “neolingua” del romanzo “1984”. Ponendo il
problema “in alto” più che in basso, dei gerghi: “Il basic di Aldo Biscardi (chi era costui? n.d.r.) è, anche
foneticamente, imbarazzante, ma siamo sicuri che lo stile ruvido-alpino di
Giorgio Bocca e e il classicheggiante periodo
ipotattico di Eugenio Scalfari (autori presenti in antologie scolastiche)
migliori davvero il nostro uso dell’italiano?” Dopo aver lamentato “le
intimidatorie «intrusioni citative» e gli insopportabili «ammiccamenti grafici»
di Massimo Cacciari”. Compresi i filisteismi imperanti – questi tuttora – della
Leggerezza e la Semplicità. Se non che non è esercizio grato, “la critica ai
tic verbali è diventata anch’essa un vezzo midcult”,
avverte subito lo stesso critico.
Un inventario, divertito e
divertente, benché all’insegna di “divagazioni morali su modi di dire e frasi
fatte”, come da sottotitolo. Sui modi di dire di Fine Millennio. Preceduto da
un saggio di buone intenzioni cattive. Attorno al “piccolo borghese”, il peggio del peggio, e all’“amoralismo e opportunismo di massa”, robe che sono tutto e
tutti eccetto noi – il lettore e l’autore. Con l’ironia oggi stonata sul posto
fisso – ma già allora i licenziamenti fioccavano a milioni (Checco
Zalone l’ha appuntita meglio, “il posto” della fissa s’intende pubblico). O
l’ironia anch’essa sballata sull’università da abbattere, che da allora, con le
riforme berlingueriane e berlusconiane è stata privata di fondi e non fa più un
concorso a cattedra, se non per i “locali”, gli amici degli amici – gli
studenti sono affidati ai precari, e i precari si trovano belle tenures (carriere) negli Usa e perfino in Gran Bretagna, perfino in
Spagna, e naturalmente in Germania, anche se qui ci vanno in pochi, per il
clima. Mentre a Berlusconi è succeduto Grillo, pensare, un nano cresciuto sulle
spalle del suo Berlusconi “psiconano”. Non c’è
limite al peggio?
Il “piccolo borghese” per troppo
tempo ha ottuso la critica. Mentre è l’epoca ormai da tempo - da Tienanmen e
anche prima della globalizzazione, con l’ubbia del mercato, cioè del consumo, impellente,
rapido, autofagico - della spesa compulsiva e dell’obsolescenza quasi immediata,
della dissipazione. Per i belli-e-buoni dela Repubblica come per i piccolo borghesi. Delle narrazioni di sé e dei piaceri. Cosa resta dei tanti
nomi che La Porta leggeva trent’anni fa con interesse, Nove, Palandri, Demarchi,
Brizzi Brolli? Della sua sociologia, tanto spiccia e confusa quanto diffusa
come linguaggio politico? Dell’autoreverse – che c’è sempre stato dopo Proust,
quindi da un secolo, di ognuno che si crogiola nella sua storia? Della
“Generazione Me”, che invece è finita subito nell’imbuto, le Generazioni Y e Z,
senza futuro. E non per improvvida veloce autogenesi, ma per l’improvvisa bonaccia,
proprio come in Conrad, con i venti passati al “mercato”. Era anche l’epoca di
un “ritrarsi (relativo) dei dialetti”, che invece oggi imperversano, impoveriti
e impoverenti.
Il cambiamento c’era e c’è, enorme.
Basta pensare al passaggio dal critico militante all’ufficio stampa. O
all’irrealtà di un Parlamento grillesco, senza il senso del ridicolo del comico
antiparlamentare. Indubbiamente “non c’è problema” è problema che si ripropone.
La rilettura di La Porta serve in
absentia: a che ci siamo ridotti?
È anche l’effetto del
radicalismo, sempre fuori fase. Curiosamente, perché La Porta fa frequente
ricorso a Christopher Lasch, il sociologo americano critico del radicalismo (liberal) americano, e del narcisismo. È
così che il tema del linguaggio sembra argomento salottiero, da conversation piece, di umori e malumori,
divertito e divertente, ma non incisivo. Vagando fra due spettri, la società di
massa e piccolo borghese. Ora, la società è sempre di massa – a meno che non
sia delle “preziose ridicole”. E il borghese è sempre piccolo, anche il grande.
Il pamphlet è in realtà del mondo intellettuale, specie di quello
letterario, di vezzi e vizi. “Come stai, cosa stai scrivendo?” “Uno di questi
giorni ci si vede?” “Lo criticano perché sono invidiosi”, “Spettacolarizzare,
bisogna spettacolarizzare” “Il problema è un altro”, “Torniamo a sognare,
mandiamo al potere l’immaginazione”.
L’analfabetismo di ritorno
sarebbe stato argomento più serio. A
fine Millennio, il programma Ocse per la valutazione delle competenze
nella popolazione adulta, dava per l’Italia due milioni di analfabeti, 13
milioni di semianalfabeti, che sanno firmare ma non capiscono quello che
leggono, e 13 milioni di analfabeti di ritorno. Poco meno della metà della
popolazione.
Filippo La Porta, Non c’è problema
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