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Resurrezione nell'abiezione
Anna, bambina e
ragazza felice, con un padre amorevole, libera in montagna con la sua
bicicletta e il cagnetto per compagno, accudita nel palazzo ai Quartieri
Spagnoli dai Gesù con i i riccioli e le Madonnine sorridenti, alla morte del
padre affronta la vita da sola, lontana dalla famiglia, dal quartiere e dagli
amichetti di sempre, dalla sua città, per il bene e per il male protettiva, nel
più squallido dei modi. Costeggiando la prostituzione, clubista alla pole
dance, sotto luci stroboscopiche per accentuare le curve, con i privé per
arrotondare. Con fidanzati sciocchi, pieni del proprio vuoto, come è ora d’uso.
Un romanzo di morti e
catastrofi, pieno di vita. “Si nasce quando si fallisce” è una sua morale,
provvisoria – anche, perché no. Un’elaborazione del lutto, in un’educazione
sentimentale e di vita al rovescio, come una diseducazione, una crescita a
ritroso. Un’infanzia e un’adolescenza nella memoria felici si scontrano con
l’obbligo quotidiano della sopravvivenza: triste, squallido, violento anche.
Una celebrazione inconsueta della figura paterna, anche – non più in uso da
quando c’è Freud, un secolo? E un incredibile, sempre contromano, romanzo
religioso. Non di fede, non argomentata, d’intellettualità e analisi critica:
d’immedesimazione, con il Cristo, le Madonne, la Bibbia. È anche, di passata, una
dismissione senza più, senza polemiche, del maschio giovane 2020. Cammini non
impervi, ma non usati.
Un romanzo di affetti – per ogni
verso dunque singolare. Dichiarati, ripetuti, coltivati. Tanto più eccezionali
in quanto parentali, l’amore del padre, della nonna materna, delle vedove del
vicolo. Come dei compagnucci di scuola, anche loro in disuso. Senza
sentimentalismi. Col contrappunto del corpo, del rifiuto quasi del corpo,
abbandonato all’abuso, senza sofferenza, anche col convivente vuoto. Una sorta
di “apprendistato” di ritorno, di riscoperta e ricostituzione di sé
nell’elaborazione del lutto per la scomparsa del sé paterno.
Il racconto si propone
all’insegna dell’Apocalisse”: “Quello che vedi, scrivilo in un libro”. E di
Bolaño: “E l’incubo mi diceva: crescerai”. Anna, come il Luca Cupiello di
Eduardo “ha un problema di accettazione della realtà”. È una che “si guarda da
fuori”, in atti e rapporti senza affetto, senza scopo, ma non senza
determinazione: “Ci vuole molta forza per partorirsi”, riflette, in quella che
sa “traversata contromano nel dolore”. Non un disgraziere, il solito elenco di deiezioni che finora ha informato il millennio, ma un racconto caparbio,
creativo. Più che di formazione, un romanzo di rinascita – l’elaborazione del
lutto è una rinascita.
Un romanzo-verità, anche.
Un romanzo di formazione-verità? Che si presenta al modo di Simenon, dei
romanzi “duri”: un apprendistato alla vita senza sviluppi, un orizzonte basso,
una tranche-de-vie. Brusco: con l’immediatezza visiva dei tagli
teatrali, filmici. E molte “caratterizzazioni”, monologhi animati: della vita
di quartiere a Napoli (i funerali, la Pellicciaia, le Madonne e i santi) e di
quella anonima a Montesacro a Roma – con un’incursione, alla “New Pope” di
Sorrentino, in un Vaticano da balera, con karaoke e fumo. Molto “scritto”, a
differenza delle prose coetanee, ma di scrittura nervosa, che bene inquadra e
ed espone, senza sovrapporsi o congiurare. Anna bambina e figlia felice, Anna
del “qui-ora-così”, e Anna del “pensiero possibile”, che si vede e si spiega –
si costruisce? La lettura trasportando immediata nei due mondi, degli affetti e
dell’alienazione. Irriducibili eppure conviventi. La rappresentazione della
condizione umana al sorgere del millennio?
Carmen Barbieri, Cercando il mio nome, Feltrinelli, pp.
218 € 16.50
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