venerdì 19 febbraio 2021

Resurrezione nell'abiezione

Anna, bambina e ragazza felice, con un padre amorevole, libera in montagna con la sua bicicletta e il cagnetto per compagno, accudita nel palazzo ai Quartieri Spagnoli dai Gesù con i i riccioli e le Madonnine sorridenti, alla morte del padre affronta la vita da sola, lontana dalla famiglia, dal quartiere e dagli amichetti di sempre, dalla sua città, per il bene e per il male protettiva, nel più squallido dei modi. Costeggiando la prostituzione, clubista alla pole dance, sotto luci stroboscopiche per accentuare le curve, con i privé per arrotondare. Con fidanzati sciocchi, pieni del proprio vuoto, come è ora d’uso.    
Un romanzo di morti e catastrofi, pieno di vita. “Si nasce quando si fallisce” è una sua morale, provvisoria – anche, perché no. Un’elaborazione del lutto, in un’educazione sentimentale e di vita al rovescio, come una diseducazione, una crescita a ritroso. Un’infanzia e un’adolescenza nella memoria felici si scontrano con l’obbligo quotidiano della sopravvivenza: triste, squallido, violento anche. Una celebrazione inconsueta della figura paterna, anche – non più in uso da quando c’è Freud, un secolo? E un incredibile, sempre contromano, romanzo religioso. Non di fede, non argomentata, d’intellettualità e analisi critica: d’immedesimazione, con il Cristo, le Madonne, la Bibbia. È anche, di passata, una dismissione senza più, senza polemiche, del maschio giovane 2020. Cammini non impervi, ma non usati.
Un romanzo di affetti – per ogni verso dunque singolare. Dichiarati, ripetuti, coltivati. Tanto più eccezionali in quanto parentali, l’amore del padre, della nonna materna, delle vedove del vicolo. Come dei compagnucci di scuola, anche loro in disuso. Senza sentimentalismi. Col contrappunto del corpo, del rifiuto quasi del corpo, abbandonato all’abuso, senza sofferenza, anche col convivente vuoto. Una sorta di “apprendistato” di ritorno, di riscoperta e ricostituzione di sé nell’elaborazione del lutto per la scomparsa del sé paterno.
Il racconto si propone all’insegna dell’Apocalisse”: “Quello che vedi, scrivilo in un libro”. E di Bolaño: “E l’incubo mi diceva: crescerai”. Anna, come il Luca Cupiello di Eduardo “ha un problema di accettazione della realtà”. È una che “si guarda da fuori”, in atti e rapporti senza affetto, senza scopo, ma non senza determinazione: “Ci vuole molta forza per partorirsi”, riflette, in quella che sa “traversata contromano nel dolore”. Non un disgraziere, il solito elenco di deiezioni che finora ha informato il millennio, ma un racconto caparbio, creativo. Più che di formazione, un romanzo di rinascita – l’elaborazione del lutto è una rinascita.
Un romanzo-verità, anche. Un romanzo di formazione-verità? Che si presenta al modo di Simenon, dei romanzi “duri”: un apprendistato alla vita senza sviluppi, un orizzonte basso, una tranche-de-vie. Brusco: con l’immediatezza visiva dei tagli teatrali, filmici. E molte “caratterizzazioni”, monologhi animati: della vita di quartiere a Napoli (i funerali, la Pellicciaia, le Madonne e i santi) e di quella anonima a Montesacro a Roma – con un’incursione, alla “New Pope” di Sorrentino, in un Vaticano da balera, con karaoke e fumo. Molto “scritto”, a differenza delle prose coetanee, ma di scrittura nervosa, che bene inquadra e ed espone, senza sovrapporsi o congiurare. Anna bambina e figlia felice, Anna del “qui-ora-così”, e Anna del “pensiero possibile”, che si vede e si spiega – si costruisce? La lettura trasportando immediata nei due mondi, degli affetti e dell’alienazione. Irriducibili eppure conviventi. La rappresentazione della condizione umana al sorgere del millennio?  
Carmen Barbieri, Cercando il mio nome, Feltrinelli, pp. 218 € 16.50

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