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Secondi pensieri - 442
zeulig
Comico – È inafferrabile? “Fino all’età di cinquant’anni, e per tutta la ma
giovinezza”, scrive Eco nell’autobiografia intellettuale che apre il volume a
lui dedicato già nel 2017 nella “Library of Living Philosophers”, e ora edito
in italiano, “La filosofia di Umberto Eco”, “ho sognato di scrivere un libro
sulla teoria del comico. Perché? Perché ogni libro sull’argomento non ha avuto
successo. Ogni teorico del comico, da Freud a Bergson o Pirandello, spiega
alcuni aspetti del fenomeno, ma non tutto. Questo fenomeno è così complesso che
nessuna teoria è o finora è stata in grado di spiegarlo completamente. Quindi
mi sono detto che mi avrebbe fatto piacere scrivere una ver a teoria del
comico, e in effetti h scritto alcuni saggi sul comico e l’umorismo. Ma poi il
compito si è rilevato disperatamente difficile. Forse è per questo motivo che
ho scritto «Il nome della rosa», un romanzo che parla del libro aristotelico
perduto sulla commedia”.
Ma poi finisce per collegare il riso alla coscienza della morte. Partendo
da fatto “che siamo gli unici animali che sanno che devono morire”:
“Probabilmente per questo ci sono religioni e rituali”. E. di più, “ridiamo”:
“Ridere è il modo radicalmente umano di reagire al senso mano della morte”. Si
ride allora come si è religiosi, e rituali? Per una forma di scongiuro? Di
allentamento della tensione, di disinnesco? Eco non ci arriva, ma ne fa una
sorta di arma di pace: in quanto “reazione al senso umano della morte”, “il
comico diventa un’occasione per resistere alle tragedie, limitare inostri
desideri, combattere il fanatismo”. Un’occasione o un modo? Non solo: “Il
comico (sto citando indirettamente Baudelaire) getta una diabolica ombra di
sospetto su ogni proclama di dogmatica verità”. O non dell’inutilità della
verità, se tutto è vanità, come voleva l’“Ecclesiaste” della Vulgata (non del
ritraduttore Ceronetti), e insegnava Filippo Neri.
C’è il comico per sé, nei fatti, negli eventi, nei linguaggi. Comico a
fronte di un’altra realtà, degli stessi fatti, eventi, linguaggi, sottintesa ma
presente, che si ritiene – è per pratica e consenso – reale, a fronte della
rappresentazione diversa, e per questo comica che ne viene fatta.
Comico a volte per mancanza del senso del ridicolo – del limite. Del troppo,
esagerato. Nel senso cattivo, dell’attacco, l’offesa, la distruzione. E in
quello buono, del consiglio, la partecipazione (empatia), la protezione, la
cura.
Dialetto - “Un grandissimo numero
di parole di un dato dialetto sono su per giù – tolte le alterazioni fonetiche
- quelle stesse della lingua, ma come concetti delle cose, non come particolare
sentimento di esse” – Pirandello, “Prosa moderna”, 1898. Camilleri lo spiega in
“Cos’è un italiano?” (ora in “Come la penso”): “Semplificando, di una data
cosa, la lingua ne esprime il concetto, mentre il dialetto ne esprime i
sentimenti”. Ma forse vuole dire “i sentimenti e il concetto”.
Nelle sue sfumature: un concetto che è più concetti sottili. Spesso senza
bisogno di dire: il dialetto è anche sintetico e ellittico. Perché più
significante, concettualmente.
Il dialetto è “il principale
donatore di sangue” della lingua, dell’italiano – Camilleri, ib.,
p.245
Ritornando
sulla questione ne “I detti di Nené”, di Nené inteso Camilleri, lo scrittore spiega che “con la
lingua del cuore, che non è soltanto del cuore ma è qualcosa di ancora più
complesso, succede una cosa appassionante. Lo dico da persona che scrive. Mi
capta di usare parole dialettali che esprimono compiutamente, rotondamente,
come un sasso, quello che io volevo dire, e non trovo l’equivalente nella lingua
italiana”.
Aveva principiato dicendo: “Il dialetto
è la lingua degli affetti, un fatto confidenziale, intimo, familiare”. Conclude
allargando l’obiettivo: “Non è solo una questione di cuore, è anche di testa.
Testa e cuore”.
È pur sempre una lingua “chiusa” –
tanto più significante in quanto chiusa. Tra persone e ambienti ristretti, anche
se rivolti all’ampio mare. Nasce e si
nutre in una scena ridotta, dagli orizzonti bassi. Una lingua, si direbbe, inwarding,
più comunicativa ed espressiva che molteplice, inventiva, innovativa.
La lingua ha bisogno d’innovazione? Si.
Più che di tradizione, di sensi nascosti e anche complessi? Non nascosti,
impliciti, multipli, sottili? La novità non saprebbe non essere complessa.
Marx
-
L’ultimo platonico. Hegeliano naturalmente, nell’impianto,
ma in un sentito platonico – ideale, idealistico, risolutivo. Fautore della
filosofia (rivoltata, ma sempre filosofia, completa, totale) in politica: della
soluzione definitiva.
Hartmut Retzlaff, già direttore
Goethe a Roma, editando con Eleonora de Conciliis il pamphlet di Jean Paul
contro Fichte, “Clavis fichtiana seu leibgeberiana”, ci trova in appendice tutto
il primo Marx, gran lettore di Jean Paul: l’alienazione e il feticismo della
merce, “i termini cardine della critica delle merce nel primo volume del
«Capitale»” - molti studi sono stati fatti in argomento. E poi dopo: “L’uso
metaforico delle Charaktermasken (termine
che origina nella Commedia dell’Arte), come parametro di una sociologia dei
ruoli ante litteram, e il termine Fetichismus per descrivere
l’autoriduzione delle società evolute a un primitivismo percettivo, risultano
decisive per la sociologia del tardo Marx”.
Memoria – Opera come una
quinta teatrale, quando la scena usava fissa. Come una serie di quinte, da cui
soggetti e eventi escono ed escono.
Natura – Non è bella, e
anzi è l’assenza di bellezza. Hegel la esclude dalla bellezza già
dall’introduzione alle “Lezioni di estetica”: la bellezza è solo umana.
Dell’occhio? Che vede i colori, le trasmutazioni, i cieli, le ombre – solo
l’occhio umano è in grado di analizzare la natura, di dirla, che si una nuvola
passeggera o un terremoto di forza imbattibile, fuoco, lapilli, cenere.
Nella sua lezione “La bellezza” alla Milanesiana del 2005, Umberto
Eco ne fa come una scenografa a contrasto del sublime. Una natura, si potrebbe
aggiungere, che già dai tempio di Lucrezio è l’orrido: tetragona e minacciosa,
non amica sorridente.
Eco parte dall’assunto: “L’esperienza del bello presenta sempre un
elemento di disinteresse”. Di interesse non personale, o di possesso:
spassionato – si apprezza il bello senza volersene appropriare. E conclude –
col pittore Caspar David Friedrich – con l’assolto distacco da una natura
insieme incombente e remota: “Forse la maggiore affermazione del disinteresse
estetico è stata fatta proprio nel periodo in cui, con l’esperienza del
sublime, pareva si celebrasse il nostro coinvolgimento negli scatenamenti dell’orrore
o della maestà degli eventi naturali”. Cita Friedrich in quanto pittore del
sublime naturale, di fronte al quale mette in scena spettatori umani, in una
sola posa: “L’essere umano è di spalle e, per una sorta di messa in scena teatrale, se il sublime è la scena, egli sta sul
boccascena, dentro allo spettacolo ma rappresentando la parte di chi sta fuori
dello spettacolo”. Di chi non è parte della natura, “in grado di sfuggire al
potere naturale che potrebbe sovrastarci e distruggerci”.
Storia – È invenzione dell’Europa.
È traditrice per lunga tradizione. Per Kant in un punto preciso della
sua “Antropologia dal punto di vista pragmatico”. La dove s’imbatte, nella “Historia
Concili Tridentini”, in questo punto: “Erant
ibi etiam 300 honestae meretrices, quas cortigianas vocant”, c’erano anche
trecento meretrici oneste, che si chiamano cortigiane. Com’è possibile, nella
sola Trento, si chiede Kant. Ma il Concilio si svolse per lo più lontano dalla
città. E la “Historia Concilii Tridentini” è opera tarda. Di un cardinale, Pietro
Sforza Pallavicino, ma in polemica con la storia di Paolo Sarpi.
zeulig@antiit.eu
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