Cerca nel blog

martedì 23 febbraio 2021

Secondi pensieri - 443

zeulig


Apotropaismo
– È una forma primitiva e primaria di difesa  salvaguardia del sé. Della persona, della famiglia (la casa, i beni, la carriera), del clan p tribù – si esercita con  gesti e oggetti ma anche secondo riti. Una forma istintuale. Che ha durato però nei secoli, e si rilancia in epoca postmoderna – del disbelief, anche cinico: nei gerghi, i tatuaggi, la socialità frammentata. 
 
Comico
– Eco ne fissa il canone (i canoni? tutti, alcuni?), più che nell’inseguimento del trattato aristotelico perduto sulla commedia,  in un breve scritto giornalistico su “L’Espresso” nel 1992 (ora in “La Bustina di Mnerva.1990-2000”), intervenendo su un polemica giornalistica a proposito di Chaplin e di Totò, “chi è il più grande”.  Chaplin è un artista, Totò un comico, stabilisce, un “fenomeno di comicità istintiva, un fatto di natura, come un uragano o un  tramonto”. Questa è la differenza maggiore, e quella che fa, consente, il comico, la naturalezza: “Ci si può beare ogni sera del tramonto, anche se si sa come va a finire, mentre non si può passare la vita a guardare la Vittoria di Samotracia”, o ascoltare la “Quinta” di Beethoven “tutte le mattine al risveglio”. Corollario di questa distinzione tra arte e natura: l’arte è universale, la comicità specifica. “La grande opera, anche quando racconta una storia qualsiasi, induce il destinatario a proiettarvi se stesso e i problemi dell’umanità tutta”, mentre “Totò rimane un partenopeo marginale sulla cui animalità ridiamo senza ritegno perché ci sentiamo superiori a lui”.
Una seconda differenza, continua Eco, è “la coerenza  testuale”. Chaplin non si puo’ spezzettare, non può mangiarsi la scarpa in “Tempi moderni”: “Ogni sua gag «fa corpo» col resto dell’opera”. Mentre ogni scena di Totò è intercambiabile: “La scena del vagone letto è sublime (come il cielo stellato sopra di noi), ma potrebbe essere inserita in qualsiasi film di Totò”.
Terzo elemento è l’“economia”, l’arte essendo “risultato di un calcolo con squadra, compasso e misurino”: Chaplin disturba quando ripete “senza ragione certe “mossette o sorrisini imbarazzati, e cade quando non sa misurare i suoi tic”, mentre Totò viaggia impune in una “economia della dismisura”: “L’economia di costruzione è quella che permette di non rileggere o rivedere troppo sovente la grande opera d’arte”, mentre “la comicità naturale va consumata con ingordigia, perché non si purifica nella memoria, ma rimette in gioco ogni volta i nervi e le trippe”.
Il fatto è però che Totò era un riflessivo - l’analisi di Eco confligge con quanto si da del “partenopeo (non) marginale” Totò: la sua comicità “strabordante” si mostra istintiva per calcolo, sapiente dosaggio. Non era rifinito, ma era progettuale: quella tra comico “naturale” e comico “artistico” è la differenza fra l’artigiano, per quanto curato, e l’artista. Tra due forme, in realtà, di arte – anche dall’artigiano si vuole sapienza e misura,  nelle forme, nei tempi, nei limiti. In termini banali, c’è chi sa raccontare le barzellette e chi no, chi sa far ridere anche con barzellette stupide, e chi annoia con le più puntute.
 
Ebraismo – In Heidegger non è connotato nel senso dell’antisemitismo, di qualunque specie, ma della lettura hegeliana dell’ebraismo, del primissimo Hegel, “La positività della religione cristiana”, 1796: “L’ebraismo, legato al formalismo farisaico, è negato all’etica cristiana, spirituale”. Anzi, “ne provoca l’involuzione in religione positiva”, dei dogmi, e della gerarchia necessaria ad amministrarli. Una spiritualità legata alla Rivelazione, e a una chiesa gerarchica. Una comunità autoritaria. E per questo separata. Di un’eccezionalità – elezione - che è anche annullamento di sé.
Hegel oppone la morale superiore di Gesù non solo all’ebraismo ma anche a Kant, nel successivo “Lo spirito del cristianesimo e il suo destino”:  Cristo predica non il rispetto della legge ma l’amore, il suo imperativo morale è “superiore” alla legge kantiana del dovere, che Hegel assume come un’etica ebraica interiorizzata, più che scolpita nelle tavole mosaiche.
Ma quanto di Hegel e Kant c’è in Heidegger?
 
Incubatio – La credenza, da Epimenide in poi, che dormendo in un luogo o su un oggetto consacrato, in grado di emanare fluidi benigni, il fedele ne ricaverà influssi benefici (sogni o segni veraci, positivi) comune a tutti i repertori pratico-religiosi conosciuti, è di fatto perpetuata  - se non ne è ispirata – dall’atto sessuale, dall’accoppiamento. In senso esplicito anche in pratiche e repertori alchemico-spiritistici. Il “Malleus Maleficarum”, martello delle streghe, fa ampio e dettagliato caso delle succubi e degli incubi, ai fini della raccolta e della propagazione del seme della fertilità.    
 
Intellettuale – Intermittente, anzi a tempo perso, lo vuole Umberto Eco: nel (poco) tempo in cui è creativo. “O è colui che non fa una professione esclusivamente manuale, e allora la questione è puramente sindacale; oppure, come credo, è uno che in certi momenti svolge una funzione creativa”, U. Eco, “Cosa pensava Leopardi delle ragazze di Recanati?” (in “La Bustina di Minerva. 1990-2000). La funzione non sempre può essere creativa, argomenta Eco, non di Einstein nell’assemblea di condominio: “La funzione intellettuale si svolge in certi momenti, e per il resto si è cittadino paziente”, nella varie incombenze quotidiane.
 
Nella stessa raccolta, in un intervento del 1997, “Il primo dovere degli intellettuali. Stare zitti quando non servono a nulla”, lo stesso Eco ne fa una condizione utilitaria, servile. Di fatto, poi, il tema svolgendo al contrario: “Gli intellettuali, per mestiere, le crisi le creano, non le risolvono”, e “Questo hanno fatto gli intellettuali che abbiamo studiato a scuola, si chiamassero Parmenide, Einstein, Kant, Darwin, Machiavelli o Joyce”. Non sono risolutori, non nei tempi ristretti, degli accadimenti: “Lavorano nei tempi lunghi”, cioè “svolgono la loro funzione  prima e dopo, mai durante gli eventi” – “quando la casa brucia, l’intellettuale può solo cercare di comportarsi da persona normale e di buon senso, come tutti”. Con l’eccezione di “quando sta accadendo qualcosa di grave e nessuno se ne accorge. Solo in quei casi un suo appello può servire come allarme”.
Casi? Eco porta solo quello di Zola, del “j’accuse”. Ma la storia di Zola e del “j’accuse” direbbe piuttosto il contrario - benché l’“Aurore” ne avesse fatto un manifesto, di grande evidenza grafica.
 
Malocchio – Il timore che un apprezzamento nasconda o induca un maleficio, e necessiti quindi di scongiuri, baskanìa in greco, fascinum in latino, viene da lontano. Da una probabile origine comune dei due termini, indoeuropea. Sottesa comunque ai riti divinatori e propiziatori.
Storicamente, ne fa caso Socrate nel “Fedone”, avendo ricevuto da Cebete un elogio: “Amico mio, non dirlo forte, che un qualche malocchio non ci faccia tornare indietro nel ragionamento”. Cloazio Verro, dell’età di Augusto,  registra i due termini, greco e latino, anche nel senso di “jettatura”, di occhio cattivo – “guardare male qualcuno o qualcosa”, dice il grammatico. L’occhio peraltro è sempre stato diffuso, anche in antico, in immagini e in oggetti di devozione, come segno divino, quindi diabolico.
Nel senso più generico di invidia qualche secolo prima di Verro registrava il malocchio nel prologo degli “Aitia” il poeta Callimaco, che i suoi nemici dice “razza spregevole del Malocchio”. Lo stesso farà Catullo al carme 7, quando sfida i curiosi a contare i baci con Lesbia, e a “lanciare il malocchio con mala lingua”, nec mala fascinare lingua. Plutarco dedica alla “fascinazione” il capitolo 7 del libro quinto delle “Questioni simposiali”.
Il demofilologo Lelli ha una vasta serie d riferimenti classici al malocchio in nota al suo “Sud antico”, pp.289-29: “Il «malocchio», το κακό ματι o semplicemente το ματι (diminutivo di όμμάτιον) è ancora oggi in Grecia uno degli elementi di foklore più diffusi e radicati”.
 
Totalitarismo – “Cosa è nuovo nel totalitarismo è che le sue dottrine sono non soltanto insindacabili ma anche instabili”. Volubili. Orwell fa il caso degli intellettuali comunisti in Europa portati a credere nel 1939 che il patto russo-tedesco difendeva la pace. L’instabilità è tale, argomenta ancora Orwell nel saggio “The Prevention of Literature”, 1946, che “il totalitarismo non promette tanto un’età di fede quanto un’età di schizofrenia. Una società diventa totalitaria quando la sua struttura diventa scopertamente artificiale: cioè quando il suo ceto dirigente ha perso la sua funzione ma riesce a tenersi al potere con la forza o la frode. Una tale società, non importa quanto a lungo persista, non può mi permettersi di diventare tollerante o stabile intellettualmente”.


zeulig@antiit.eu

Nessun commento: