Secondi pensieri - 443
zeulig
Apotropaismo – È una forma primitiva e
primaria di difesa salvaguardia del sé.
Della persona, della famiglia (la casa, i beni, la carriera), del clan p tribù
– si esercita con gesti e oggetti ma
anche secondo riti. Una forma istintuale. Che ha durato però nei secoli, e si
rilancia in epoca postmoderna – del disbelief,
anche cinico: nei gerghi, i tatuaggi, la socialità frammentata.
Comico – Eco ne fissa il
canone (i canoni? tutti, alcuni?), più che nell’inseguimento del trattato
aristotelico perduto sulla commedia, in
un breve scritto giornalistico su “L’Espresso” nel 1992 (ora in “La Bustina di
Mnerva.1990-2000”), intervenendo su un polemica giornalistica a proposito di
Chaplin e di Totò, “chi è il più grande”.
Chaplin è un artista, Totò un comico, stabilisce, un “fenomeno di comicità
istintiva, un fatto di natura, come un uragano o un tramonto”. Questa è la differenza maggiore, e
quella che fa, consente, il comico, la naturalezza: “Ci si può beare ogni sera
del tramonto, anche se si sa come va a finire, mentre non si può passare la
vita a guardare la Vittoria di Samotracia”, o ascoltare la “Quinta” di
Beethoven “tutte le mattine al risveglio”. Corollario di questa distinzione tra
arte e natura: l’arte è universale, la comicità specifica. “La grande opera,
anche quando racconta una storia qualsiasi, induce il destinatario a
proiettarvi se stesso e i problemi dell’umanità tutta”, mentre “Totò rimane un
partenopeo marginale sulla cui animalità ridiamo senza ritegno perché ci
sentiamo superiori a lui”.
Una seconda differenza, continua Eco, è “la coerenza testuale”. Chaplin non si puo’ spezzettare,
non può mangiarsi la scarpa in “Tempi moderni”: “Ogni sua gag «fa corpo» col
resto dell’opera”. Mentre ogni scena di Totò è intercambiabile: “La scena del
vagone letto è sublime (come il cielo stellato sopra di noi), ma potrebbe
essere inserita in qualsiasi film di Totò”.
Terzo elemento è l’“economia”, l’arte essendo “risultato di un
calcolo con squadra, compasso e misurino”: Chaplin disturba quando ripete
“senza ragione certe “mossette o sorrisini imbarazzati, e cade quando non sa
misurare i suoi tic”, mentre Totò viaggia impune in una “economia della
dismisura”: “L’economia di costruzione è quella che permette di non rileggere o
rivedere troppo sovente la grande opera d’arte”, mentre “la comicità naturale
va consumata con ingordigia, perché non si purifica nella memoria, ma rimette
in gioco ogni volta i nervi e le trippe”.
Il fatto è però che Totò era un riflessivo - l’analisi di Eco
confligge con quanto si da del “partenopeo (non) marginale” Totò: la sua
comicità “strabordante” si mostra istintiva per calcolo, sapiente dosaggio. Non
era rifinito, ma era progettuale: quella tra comico “naturale” e comico “artistico”
è la differenza fra l’artigiano, per quanto curato, e l’artista. Tra due forme,
in realtà, di arte – anche dall’artigiano si vuole sapienza e misura, nelle forme, nei tempi, nei limiti. In
termini banali, c’è chi sa raccontare le barzellette e chi no, chi sa far
ridere anche con barzellette stupide, e chi annoia con le più puntute.
Ebraismo – In Heidegger
non è connotato nel senso dell’antisemitismo, di qualunque specie, ma della lettura
hegeliana dell’ebraismo, del primissimo Hegel, “La positività della religione
cristiana”, 1796: “L’ebraismo, legato al formalismo farisaico, è negato all’etica
cristiana, spirituale”. Anzi, “ne provoca l’involuzione in religione positiva”,
dei dogmi, e della gerarchia necessaria ad amministrarli. Una spiritualità
legata alla Rivelazione, e a una chiesa gerarchica. Una comunità autoritaria. E
per questo separata. Di un’eccezionalità – elezione - che è anche annullamento
di sé.
Hegel oppone la morale superiore di Gesù non solo all’ebraismo ma
anche a Kant, nel successivo “Lo spirito del cristianesimo e il suo
destino”: Cristo predica non il rispetto
della legge ma l’amore, il suo imperativo morale è “superiore” alla legge
kantiana del dovere, che Hegel assume come un’etica ebraica interiorizzata, più
che scolpita nelle tavole mosaiche.
Ma quanto di Hegel e Kant c’è in Heidegger?
Incubatio – La credenza, da Epimenide in poi, che dormendo in un luogo o su un oggetto consacrato,
in grado di emanare fluidi benigni, il fedele ne ricaverà influssi benefici (sogni
o segni veraci, positivi) comune a tutti i repertori pratico-religiosi
conosciuti, è di fatto perpetuata - se
non ne è ispirata – dall’atto sessuale, dall’accoppiamento. In senso esplicito
anche in pratiche e repertori alchemico-spiritistici. Il “Malleus Maleficarum”,
martello delle streghe, fa ampio e dettagliato caso delle succubi e degli
incubi, ai fini della raccolta e della propagazione del seme della fertilità.
Intellettuale – Intermittente, anzi a tempo perso, lo vuole Umberto Eco: nel (poco)
tempo in cui è creativo. “O è colui che non fa una professione esclusivamente
manuale, e allora la questione è puramente sindacale; oppure, come credo, è uno
che in certi momenti svolge una funzione creativa”, U. Eco, “Cosa pensava
Leopardi delle ragazze di Recanati?” (in “La Bustina di Minerva. 1990-2000). La
funzione non sempre può essere creativa, argomenta Eco, non di Einstein nell’assemblea
di condominio: “La funzione intellettuale si svolge in certi momenti, e per il
resto si è cittadino paziente”, nella varie incombenze quotidiane.
Nella stessa raccolta, in un intervento del 1997, “Il primo dovere
degli intellettuali. Stare zitti quando non servono a nulla”, lo stesso Eco ne
fa una condizione utilitaria, servile. Di fatto, poi, il tema svolgendo al contrario:
“Gli intellettuali, per mestiere, le crisi le creano, non le risolvono”, e “Questo
hanno fatto gli intellettuali che abbiamo studiato a scuola, si chiamassero
Parmenide, Einstein, Kant, Darwin, Machiavelli o Joyce”. Non sono risolutori,
non nei tempi ristretti, degli accadimenti: “Lavorano nei tempi lunghi”, cioè
“svolgono la loro funzione prima e dopo,
mai durante gli eventi” – “quando la casa brucia, l’intellettuale può solo
cercare di comportarsi da persona normale e di buon senso, come tutti”. Con
l’eccezione di “quando sta accadendo qualcosa di grave e nessuno se ne accorge.
Solo in quei casi un suo appello può servire come allarme”.
Casi? Eco porta solo quello di Zola, del “j’accuse”. Ma la storia di
Zola e del “j’accuse” direbbe piuttosto il contrario - benché l’“Aurore” ne avesse
fatto un manifesto, di grande evidenza grafica.
Malocchio – Il timore che
un apprezzamento nasconda o induca un maleficio, e necessiti quindi di scongiuri,
baskanìa in greco, fascinum in latino, viene da lontano. Da
una probabile origine comune dei due termini, indoeuropea. Sottesa comunque ai
riti divinatori e propiziatori.
Storicamente, ne fa caso Socrate nel “Fedone”, avendo ricevuto da
Cebete un elogio: “Amico mio, non dirlo forte, che un qualche malocchio non ci
faccia tornare indietro nel ragionamento”. Cloazio Verro, dell’età di
Augusto, registra i due termini, greco e
latino, anche nel senso di “jettatura”, di occhio cattivo – “guardare male
qualcuno o qualcosa”, dice il grammatico. L’occhio peraltro è sempre stato
diffuso, anche in antico, in immagini e in oggetti di devozione, come segno
divino, quindi diabolico.
Nel senso più generico di invidia qualche secolo prima di Verro registrava
il malocchio nel prologo degli “Aitia” il poeta Callimaco, che i suoi nemici
dice “razza spregevole del Malocchio”. Lo stesso farà Catullo al carme 7,
quando sfida i curiosi a contare i baci con Lesbia, e a “lanciare il malocchio
con mala lingua”, nec mala fascinare
lingua. Plutarco dedica alla “fascinazione” il capitolo 7 del libro quinto
delle “Questioni simposiali”.
Il demofilologo Lelli ha una vasta serie d riferimenti classici al
malocchio in nota al suo “Sud antico”, pp.289-29: “Il «malocchio», το κακό ματι
o semplicemente το ματι (diminutivo di όμμάτιον) è ancora oggi in Grecia uno
degli elementi di foklore più diffusi e radicati”.
Totalitarismo – “Cosa è
nuovo nel totalitarismo è che le sue dottrine sono non soltanto insindacabili
ma anche instabili”. Volubili. Orwell fa il caso degli intellettuali comunisti
in Europa portati a credere nel 1939 che il patto russo-tedesco difendeva la
pace. L’instabilità è tale, argomenta ancora Orwell nel saggio “The Prevention
of Literature”, 1946, che “il totalitarismo non promette tanto un’età di fede
quanto un’età di schizofrenia. Una società diventa totalitaria quando la sua
struttura diventa scopertamente artificiale: cioè quando il suo ceto dirigente
ha perso la sua funzione ma riesce a tenersi al potere con la forza o la frode.
Una tale società, non importa quanto a lungo persista, non può mi permettersi
di diventare tollerante o stabile intellettualmente”.
zeulig@antiit.eu
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